sabato 29 gennaio 2011

Fratelli Bastardi

Quella mattina mi svegliai molto presto, bevvi un caffè, mi infilai i pantaloncini, le scarpe da footing, una t-shirt ed uscii di casa che ancora era buio. L’aria era fresca e secca. Lentamente presi a correre in salita. Nei primi due chilometri mantenni un’andatura costante per permettere ai muscoli di scaldarsi, poi aumentai gradualmente. Mi piaceva correre in salita, provavo quel gusto sottile della sfida con me stesso che in qualche modo placava la mia aggressività. Mentre arrancavo, sentii l’odore della terra e dell’erba arata da poco. Continuai ad arrampicarmi con veemenza. Poi la strada scollinò e ci diedi dentro per qualche chilometro, fin quando da dietro una curva sbucarono delle mucche che mi guardavano con superiorità. Mi portai a ridosso del guardrail e continuai la mia corsa solitaria. Mentre correvo, riuscivo a mettere ordine alle cose e a scarabocchiare i ricordi. Quando arrivai in cima grondavo di sudore, avevo i polmoni che mi bruciavano, mentre il sole si alzava da dietro la montagna e filtrava sulle chiome degli alberi. In quel momento mi sentii appagato e vivo come non mai. 

Vivo, talmente vivo, come solo certo rock’n’roll sapeva esserlo, prima che lo mandassero in pensione tra galline e maiali, fienili e sterco di vacca. Il rock sta diventando noioso. Quel rock che è nato e germogliato per la strada, nelle cantine umide e gocciolanti di pioggia, grezzo e volgare, diretto come un pugno allo stomaco, quel rock che era rivolta dei giovani contro i vecchi é finito in fattorie con parquet, svuotato della sua vera natura di ribelle dissacrante. Un combattente che sta invecchiando malamente da non essere più così importante nella vita della gente, perché semplicemente non lotta più, non rompe più i coglioni al potere.

Il rock è stato affidato all’industria, ai suoi manager, a certi produttori e non vive più senza limiti e confini. Ma quel rock sta rintanato da qualche parte e chiede, ne sono certo, di essere nuovamente suonato senza compromessi, integro e puro. Di farsi nuovamente portatore della rabbia di una generazione. Il rock come è stato per Jim Carroll. Il “Catholic Boy” drogato e omosessuale, dimenticato dai più, che ha dedicato la sua vita alla causa suonando duro e usando parole taglienti e poesia da strada. Portavoce di una generazione di sbandati con un ago in vena. Benedetto da Jack Kerouac, William Burroughs e Allen Ginsberg per la sua prosa. Un rocker che faceva ballare e inginocchiare gli angeli ha ricevuto indietro meno di nulla se non quella sensazione di appagamento per avere fatto ciò che ha sempre voluto, con una dignità che non ha uguali, senza trucchi, senza inganni, schietto e diretto, in una società umiliata dal qualunquismo e incapace di ribellarsi. Dove, usando le sue parole, presente e futuro diventano cenere, e forse fulgida fiamma. 
I miei fratelli bastardi. Sono stati loro a prendersi cura di me, quando tutto mi precipitava addosso, quando rincorrevo la vita e nascondevo l’inferno sotto la camicia. Ma andavo dritto, come un bisonte impazzito, per la mia strada, per ritrovarmi alla fine solo, all’alba di un nuovo giorno, a vagare appeso alle canzoni dei Senders di “Return a’l’Envoyeur”. Quattro gatti randagi delle banlieue francesi, terra di rock per antonomasia, di una generazione perduta nei sogni di rock’n roll. Veri e autentici i The Senders! Delinquenti prestati al rock per salvarsi la pelle; una meteora di quelle che non ricorda nessuno ma, chi in quei giorni li ha incrociati sa che suonavano canzoni ispirate da Willy “il gatto blu”, canzoni che erano come battiti del cuore.


Willy mi manca maledettamente. Saperlo in giro mi rassicurava. Non tutto era perduto. Un musicista a 360 gradi come non ne esistono più. Uomo dal cuore immenso che ha vissuto il rock come pochi altri, una stella per chi è cresciuto nelle ultime file e ha dovuto sgomitare per farsi largo. Un artista che non si è mai piegato di fronte a nessuno, un esempio per tutti. 

   
Ebbi la fortuna di incrociarlo l’hanno prima che morisse in un festival blues a Mascalucia in provincia di Catania, un paesino sotto le pendici del grande vulcano. C’era un atmosfera magica che colpi molto anche lo stesso Willy ,e lo disse biascicando le parole in una pallottola di fumo. Quando sbucò da dietro il palco, accompagnato dalle note di un blues secco come un chiodo, con i suoi lunghi capelli, mi parve uno dei cavaliere della tavola rotonda. Lo guardavo ipnotizzato, avevo la bocca asciutta per l’emozione. Lui invece era rilassato e a suo agio. Non ricordo null’altro se non che quando imbracciò la Fender e si piazzò davanti al microfono e parti Savoir Affair mi fiondai sotto il palco e non capi più nulla. Mi sentii come se fossimo al CBGB’s e mi ricordai dei miei giorni disperati, di quando ero debole ed indifeso mentre lui mi cullava tra le sue braccia, insieme ad altri fratelli nati alla periferia dell’impero.

I “nati perdenti”, con la strada sempre in salita. E quando arrivava la notte ci si scaldava con quell’urlo disperato che era Born To Lose di Johnny Thunders, un altro che macinava rock’n roll a mille. Un “Keith Richard dei poveri” che non si è fatto mancare nulla nella sua esistenza fino ad auto distruggersi; troppo innamorato del rock per capire che la sua non era finzione. E dopo tutta quell’energia si restava da soli, perché alla fine si resta sempre soli, e ci si accarezzava il cuore con “Devon Song” degli Only Ones di Peter Perrett, un cantante che sembrava un incrocio tra Dylan e Lou Reed. Saliti e subito scesi dal podio grazie ad una canzone “Another Place, Another Planet “che ancora oggi resta bella e malata, figlia di quei fiori selvaggi, di quel bianco calore che erano i sogni di velluto. Musica schietta, sincera, cosi sincera da farti male, molto male se avevi il cuore a pezzi e gli occhi gonfi. 

E’ stata la musica che mi ha protetto dalla pazzia ed è venuta a stanarmi fin dentro la mia stanza anonima della mia anonima casa di periferia. Quella che bussava alla porta era una generazione cresciuta ascoltando Hendrix, Jim Morrison, Stones, Velvet , Mott The Hopple, Who, Kinks. Una generazione che prendeva in prestito la poesia di Baudelaire e di Rimbaud e la trasformava in energia, in rock’n’roll. E tutti prendevamo coscienza, per emanciparci, per crescere. La sacerdotessa del rito è stata lei, Patti Smith, la prima cantante donna che non doveva niente a nessuno, che risplendeva come una divinità anche se era vestita tutta di nero. Quando arrivò Horses le regole furono infrante, l’anarchia in musica prese per la prima volta forma e il rock ‘n roll fu libero da qualunque legame, come non era riuscito di fare neanche a Jim Morrison .

Poi a Londra accadde il miracolo. Inaspettatamente, tutto in una notte. Potevi ascoltare una miriade di gruppi punk nati dopo aver visto i Sex Pistols. Gente come i Vibrators , Stranglers, Ian Dury, i Damned, Slaughther &the Dogs, ragazzi emarginati, senza prospettive, senza futuro: unica certezza il rock’n’roll. Quei giovani proletari erano come migliaia di altri ragazzi sparsi per il mondo. Con le loro canzoni denunciavano il vuoto esistenziale e la sofferenza di un’intera generazione. Ed arrivò Joe Strummer e i Clash, e fu come vedere la luce. Finalmente uno che lottava contro la miseria e l’alienazione, uno che aveva la morale comunista e lo spirito socialista. Il mio “Che Guevara”. Finalmente qualcuno che ti faceva sentire orgoglioso di essere un proletario, che ti spingeva ad uscire dal guscio, che ti parlava sostenendo che era possibile farcela, anche se non avevi opportunità. Quelle te le dovevi prendere, ti toccavano in un modo o nell’altro. Eri un Sandinista, un guerriero di strada, un indomabile. Anche se avevi perso la tua battaglia andava bene lo stesso, avevi lottato, avevi dato tutto te stesso. Perché, da quel momento in poi, non saresti stato più un ribelle senza causa. Troppo comodo, aveva fatto questa storia del ribelle senza causa al Potere. Ora avevi un identità ben precisa e una Band che ti sosteneva. E’ grazie ai Clash che molti di noi non sono finiti a rubare autoradio per comprarsi la dose. E’ grazie a loro, ed anche agli Stiff Little Fingers, che abbiamo imparato che la musica non é solo divertimento, ma può essere anche qualcos’altro. Grazie anche ai fratelli Severini (l’unica vera Gang italiana ) che nel tempo hanno mantenuto quella fiamma sempre accesa; gli unici e soli che possono andare ad Hyde Park e cantare “London Calling” con i pugni alzati e il fazzoletto rosso al collo.

Adesso lo sento questo vento che sta cambiando. La gente che torna ad occupare le strade, a chiedere giustizia e libertà, pane e lavoro . E il sogno di un nuovo ordine mondiale continua. I ragazzi hanno riattaccato la spina. Gli amplificatori ronzano e le cantine sono piene di gente che scrive, che parla, che lotta. Il rock, come per magia, si è rimesso in sesto ed è arzillo è vivo nuovamente. Pronto per una nuova rivoluzione. Contiamoci, siamo in tanti. Fratelli Bastardi.
BARTOLO FEDERICO-

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