Sono
nel caldo e ventoso mattino di un località qualunque di un agosto
infernale. Guido il mio blues mobile (cosi ho battezzato il mio furgone)
colmo di campionari per il mio consueto giro di lavoro. La spiaggia è
piena di villeggianti e porto stampato in faccia quel sorriso che ogni commesso viaggiatore impara ad utilizzare quando va a trovare i
propri clienti. Imbocco la strada sterrata che fiancheggia il mare e mi
soffermo a guardare una ragazza dalle curve mozzafiato che passeggia
sulla battigia. Strani pensieri affollano la mia mente, mentre
un’imprevista tempesta di sabbia e ormoni mi assale, accendo la radio e
inserisco nel lettore quel dischetto “Dead Man's Suit' ” di Jon Allen che da quando mi è arrivato alle orecchie non riesco più a staccarmene
Ci
vuole qualche brivido ogni tanto e quello che mi giunge è caldo ed
eccitante (bisogna pur accontentarsi!) come solo certa musica sa fare.
Quelle canzoni, man mano che le faccio mie, si trasformano in ricci
sulla pelle. Mi danno la sensazione che tutto potrebbe ancora accadere
e, anche se hanno sapore di cose antiche, è quell’antico che sa di amore
e rispetto per chi è passato prima da quelle parti e, nello stesso
tempo, sa guardare avanti con speranza. Canzoni ispirate e annaffiate
dai colori del blues, del soul, del folk, cantate con una voce sporca di
alcool e fumo e sorrette da un organo Hammond che è una meraviglia.
Canzoni che mi fanno venir voglia di andarmene lungo la strada a
macinare chilometri a bruciare gasolio solo per il piacere di ascoltarle
fino allo sfinimento .
Stamani
, quando partii all’alba, portai con me quei cd che la musica di Joe
Allen in qualche modo aveva rispolverato nella mia memoria e, mi viene
il desiderio di riascoltare, primo fra tutti, Eddie Hinton e il suo “Letters From Mississippi”. Un artista sfortunato, Eddie, un chitarrista che aveva fatto parte dei Muscle Shoals Sound Rhythm Section,
che aveva lavorato con tutti i più grandi della soul music come: Wilson Pickett, Arthur Conley, Aretha Franklin, Joe Tex , Solomon Burke, The Staple Singer, The Box Tops e, in ultimo, Otis Redding che fu l’artista che più l’influenzò musicalmente. Per natura sono attirato dai vinti, da chi resta coerente con la propria personalità e con le proprie scelte. Requisiti che i signori dell’industria ti fanno pagare a caro prezzo, ma, dall’altro lato, ti fanno intascare in credibilità e considerazione. Figuratevi voi se uno come Eddie Hinton, segnato dalle sconfitte, per come si è sviluppata la sua storia artistica e personale, e da una delicatezza interiore fuori dalla norma, avrebbe mai potuto sfondare con canzoni che sono di una bellezza diamantina, che ti fanno sorridere alla vita, a un punto tale che corri il rischio di accenderti d'amore per la prima signorina che incontri solo per portarla con te in qualche “steak house” a ballare sotto le stelle.
che aveva lavorato con tutti i più grandi della soul music come: Wilson Pickett, Arthur Conley, Aretha Franklin, Joe Tex , Solomon Burke, The Staple Singer, The Box Tops e, in ultimo, Otis Redding che fu l’artista che più l’influenzò musicalmente. Per natura sono attirato dai vinti, da chi resta coerente con la propria personalità e con le proprie scelte. Requisiti che i signori dell’industria ti fanno pagare a caro prezzo, ma, dall’altro lato, ti fanno intascare in credibilità e considerazione. Figuratevi voi se uno come Eddie Hinton, segnato dalle sconfitte, per come si è sviluppata la sua storia artistica e personale, e da una delicatezza interiore fuori dalla norma, avrebbe mai potuto sfondare con canzoni che sono di una bellezza diamantina, che ti fanno sorridere alla vita, a un punto tale che corri il rischio di accenderti d'amore per la prima signorina che incontri solo per portarla con te in qualche “steak house” a ballare sotto le stelle.
Mi
fermo ad un’area di servizio per fare rifornimento e stiracchiarmi la
schiena. Posteggio il furgone all’ombra dei pini e vado al bar della
stazione, mi rifocillo con un panino alle verdure grigliate e bevo una
birra ghiacciata mentre osservo l’asfalto della strada liquefarsi per il
calore. Salgo sul furgone lasciando aperto lo sportello per riposare un
po’ prima di riprendere il viaggio. Dopo una mezz’ora passata
all’ombra, riparto infilandomi dentro quella sfera di fuoco che è
l’agosto siciliano. Guido rilassato con il condizionatore acceso, quando
la temperature all’interno della cabina inizia a farsi troppo fredda.
Dalla cartucciera dei cd tiro fuori “Reach Up And Touch The Sky “ del leone di Asbury Park ed alzo il volume. Ci penserà Southside Johnny a rimettere le cose a posto, temperatura inclusa.
Quel
disco lo comprai durante una gita scolastica a Ravenna, città che mi è
rimasta nel cuore. Camminavo per il centro cittadino insieme ai miei
compagni di classe quando incrociai un negozio di dischi e la tentazione
di entrarci fu troppo forte. Al mio seguito c’era Carmelo, un musicista
che a quel tempo suonava l’organo in una cover band dei Rolling Stones.
Abituati ai negozi della mia città, quello ci sembrò l’eldorado. Tutto
ciò che chiedevamo era a nostra disposizione e così, presi dalla pazzia
più irrefrenabile, spendemmo tutti i soldi che ci avevano dato i nostri
genitori per la gita. Poi ci toccò restarcene chiusi in albergo tutte le
tre sere seguenti, mentre gli altri si godevano le notti della riviera
romagnola.
Un grande live, “Reach Up And Touch The Sky”,
un concerto dove Johnny non risparmia una goccia di sudore, dove puoi
toccargli l’anima e il cuore, dove si fa il pieno di passione con una
musica che non avrà mai i riflettori del grande pubblico e che resterà
per sempre relegata a quegli illusi che non si decidono a smontare dal
proprio sogno. Un live che è un luogo dell’anima, un brivido che ti
corre addosso anche se ci sono 40 gradi di temperatura, che ha il
culmine dell’emozione con il medley dedicato al suo grande idolo, Sam
Cooke. Ed è cosi vera e intraducibile quell’emozione, che il leone cede e
s’inginocchia piangendo sul palco mentre canta “Bring it on home”.
E’ il suo sogno che si materializza e chi ascolta lo capisce che non
c’è finzione: la differenza tra chi fa musica per mestiere e chi,
invece, ha quel fuoco dentro che gli corrode i sensi. Il sole mi
abbaglia all’improvviso e, ancora adesso come allora, mentre guido in un
pomeriggio assolato e deserto, punto il dito verso l’alto e tocco il
cielo insieme a lui.
Giungo
puntuale dal cliente che sono le quattro del pomeriggio, trovo
posteggio davanti al negozio e mi preparo a lavorare con buona lena,
anche se il calore è veramente insopportabile. Tolgo i catenacci dalle
portiere del furgone, monto gli stands porta indumenti e carico le
sacche con i campionari che devo mostrare. Dopo un paio d’ore ho completato con soddisfazione di
entrambi, ma non è ancora finita. Devo percorrere un centinaio di
chilometri per raggiungere la località di Pozzallo dove questa sera
pernotterò.
Ci
salutiamo con il cliente che è quasi il tramonto. Il cielo è vestito di
rosso. Quando imbocco la statale abbasso il finestrino e spengo il
condizionatore. Ho voglia di sentire il vento caldo accarezzarmi la
pelle. E’ stata una buona giornata di lavoro. Con il buio mi faccio
accompagnare dalla voce profonda e suggestiva di James Carr che canta “At the dark end of the street”,
una versione con cui tutti i cantanti soul devono fare i conti. Mi
dondolo a tempo di musica nell’oscurità della cabina, aggrappato allo
sterzo, mentre viaggio su strade tortuose e piene di buche. La malattia
della sua mente tormenterà James Carr per tutta la vita, lasciandolo
nell’ombra più oscura. Ma la bellezza delle sue canzoni è tale che
quando lo ascolti stai sempre sulla corda ed è talmente profondo che ti
smantella le certezze e ti tocca ricominciare tutto daccapo. Avrebbe
meritato molto di più, ma è facile dimenticare. Cosi è rimasto solo un
fiore appassito, volato nel vento dei ricordi.
Durante il tragitto mi fermo in un chiosco per cenare con una granita e briosce. Ho ancora il tempo di ascoltare “Live At The Harlem Square Club 1963”
del più grande soulman di tutti i tempi, Sam Cooke. Questo live è un
disco che ti rimette a posto con te stesso e che ha un effetto
liberatorio sulla mia stanchezza. L’eccitazione del concerto è palpabile
Sam è tra la sua gente: ride, canta, scherza e ti trascina dentro la
sua anima, che ti scoli la vita in un botto.
E’
in questi momenti che mi rendo conto di quanto ami questa musica. E’ il
lungo sogno che mi porto dietro da sempre, nell’unico posto più libero
che ancora esiste che è la strada. E’ ormai sera quando arrivo al
B&B, dove pernotto. Non ho più tempo per ascoltare Bobby Womack,
ma domani inizierò la mia giornata con “Across 110th street”,
una di quelle canzoni che ti fanno amare la vita, che ti alzano
l’adrenalina e ti fanno correre dietro i tuoi desideri anche se non sei
allenato. Corrado, il titolare del B&B mi
accoglie come fa di solito, con un sorriso e un abbraccio. Suo figlio
Stefano, che é un cantante raggamuffin che assomiglia sempre più a Peter
Tosh, mi batte un cinque mentre mi dà la chiave della stanza. La
località è piena di turisti che passeggiano sul corso principale. I
ragazzini si rincorrono per strada mentre la gente del luogo sta seduta
sui gradini delle case a godersi la frescura della sera. Il vento che
arriva dal mare mi porta l’odore di una grigliata di pesce. Sono i
giorni spensierati delle ferie, ma sono totalmente distrutto dalla
stanchezza per godermi quell’atmosfera di festa. Quando entro nella
stanza e appoggio la sacca sul letto mi sento finalmente a casa: mi svesto e apro l’acqua per una doccia ristoratrice e, mentre mi ci
ficco sotto, prendo a canticchiare il Marvin Gaye di “Wherever i lay my that 's
my home”
Non lo sai che sono il tipo di ragazzo che è sempre in giro, dovunque appoggi il mio cappello quella diventa casa mia. E mi piace così.
Non lo sai che sono il tipo di ragazzo che è sempre in giro, dovunque appoggi il mio cappello quella diventa casa mia. E mi piace così.
Bartolo Federico
Sam cooke mi ha guidato fino a te...........e ne sono davvero felice. Finalmente qualcuno che scrive bene....... sei una vera rivelazione.
RispondiEliminache dirti se non un grazie di cuore.benvenuto nelle strade polverose.
RispondiEliminaSi...ti leggo e mi fai pensare a Sam Cooke attraverso la sua musica sopratutto per il suo modo di "consegnarla" con une grande sincerità.Non cantava soltanto le sue canzoni, ma li FEELava e dava tutto in spettacolo.Sei un mosaico composito..un intreccio di cultura musicale, fantasia e di vicende personali . Ti stai divertendo e inviti chi ti legge a fare lo stesso.Grazie per aver scritto.
RispondiEliminaPS. Mi chiamo Claude, sono una lei e vengo da una terra lontana.dubito che il tuo blues mobile un giorno possa affrontare i suoi grandi spazzi vuoti e suoi orizzonti smisurati..perciò ti vorrei regalare questa poesia di un grandissimo poeta della mia terra: Maschera Negra di L.S.Senghor.
Spero possa ispirarti nei tuoi DELIRI.
Maschera Negra
a Pablo Picasso
Lei dorme, riposa sul candore della sabbia.
Kumba Tam dorme. Una palma verde vela la febbre dei capelli, color rame la fronte curva
Le palpebre chiuse, coppa duplice e sorgenti sigillate,
Questa falce sottile di luna, questo labbro più nero e appena tumido - dov'è il sorriso della donna complice?
Le patene delle gote, il disegno del mento cantano l'accordo muto.
Viso di maschera chiuso all'effimero, senz'occhi senza materia
Testa di bronzo perfetta con la patina del tempo
Che non imbrattano beretti né rossetto né rughe, né tracce di lacrime o di baci
O viso tale come Dio t'ha creato prima della memoria stessa delle età
Viso dell'alba del mondo, non ti aprire come una gola tenera per commuovere la mia carne.
Io ti adoro, o Bellezza, col mio occhio monocorde!
non si sa mai Claude, io e il mio blues mobile siamo come il vento, andiamo dove ci pare.grazie per la poesia che è bellissima e per i tuoi apprezzamenti.ne sono davvero lusingato.
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