domenica 26 gennaio 2014

Bollettino Delle Emozioni 5 (al bar da Gino)



La signora Fina mi telefonò che era fuori di sé nella tarda mattina di giovedì, infierendo contro Toni che da due giorni se ne stava chiuso nella stanza e non era uscito neanche per mangiare, ascoltava solo quella cazzo di musica a tutto volume. Disse proprio così: quella cazzo di musica. Cercai di calmarla, ma lei urlava come un ossessa e così, per non farla imbestialire ancora di più, mi tappai la bocca. Quando alle tre del pomeriggio suonai il campanello di casa, lei venne ad aprirmi con un espressione che diceva già tutto sul suo stato d’animo. La salutai quasi timoroso e mi diressi nella camera del poeta. Spaparanzato sul divano con le mutande nere e la canottiera bianca, si guardava il video con il volume altissimo di “Baby Did A Bad Bad Thing” una canzone di Chris Isaak. Era davvero mal ridotto e aveva una faccia da perfetta copertina dei Grateful Dead. Appena mi scorse fermo sull’uscio, iniziò a blaterare in maniera sconnessa di avere una relazione con Laetitia Casta, e che doveva smascherare un complotto contro di lui da parte del governo e della Asl, che bramavano di spedirlo in manicomio perché non volevano che la sposasse. Ci passava le sue giornate dentro gli ospedali psichiatrici Toni, e un po’ tonto a dire il vero lo stava diventando. Ma forse è normale che questo accada ad uno psicologo. Raccolsi una bottiglia di bourbon da terra e richiusi la porta, ma dal momento che ce n’era ancora un mezzo bicchiere, me lo scolai d’un fiato. Tanto per gradire. “Che cazzo succede, amico?” gli strillai. “Siamo alle solite?” “Non ti muovere essere blasfemo”, mi rispose, “il tuo cervello è sordido”, e si alzò in piedi sul divano restando immobile come fosse una statua di marmo, poi riprese: “sei solo un essere malridotto nella tua cupa scelleratezza”, e mentre parlava si ciucciò un sorso dalla bottiglia che teneva in mano. “Non fare alcun passo in avanti”, proseguì, guardandomi con gli occhi guerci. Il grande vate William Blake scrisse che “Se il matto persistesse nella sua follia, andrebbe incontro alla saggezza”. Era davvero in pieno sballo, ed era meglio, conoscendolo, non rompergli troppo le palle. Stava pronunciando qualche altra cosa ma all’improvviso cadde; come cadono alle volte quegli stronzi mattutini, in maniera strana, lenta, svenuto sul divano. 


            Spensi la musica che suonava distorta per come era forte il volume, e aprii la finestra per fare uscire il malo odore d’alcool e fumo di cui era impregnata la stanza. Però, ci sapeva fare con le donne il poeta, sapeva come imbambolarle con la sua filosofia da parole crociate. Ma che cultura ha quest’uomo!, ripetevano adoranti le signorine, senza sapere che quella era solo la sua tattica per scoparsele. Devo ammettere che il più delle volte ci riusciva. E lo dico senza invidia. Intanto che se ne stava inerme sul divano, in quel casino che aveva combinato cercai di rimettere un po’ d’ordine, soprattutto prima che spuntasse sua madre. Da sotto il tavolino raccattai la copertina di “Gremlins Have Pictures” di Rocky Erickson, uno dei miei tanti dischi che gli avevo prestato e che non aveva fatto più ritorno a casa. Il vinile, grazie a Dio, era sano e salvo sul piatto con la puntina franata sulla cover di Heroin, la canzone di Lou Reed che rese vietato nel 1966 trasmettere per le radio americane l’album The Velvet Underground and Nico. Lo levai dallo stereo e lo rimisi nella sua custodia. Nel posarlo sullo scaffale notai anche “Roy Orbison and Friends” - “A Black and White Night”, un altro dei miei fuggiaschi perduti. La stella di Roy Orbison aveva finito di brillare ormai da tempo quando nel 1986 il regista David Lynch utilizzo una sua canzone “In Dreams” in una scena del film “Velluto Blu”. Fu con questa botta di culo improvvisa che Roy, ormai dimenticato da tutti, si ritrovò nuovamente sul palcoscenico. Veniva dal mondo del bianco e nero del profondo degli anni cinquanta, questo signore gentile, dai modi garbati, che si presentava con occhiali scuri e un maglione nero, e che non era nato per fare la rockstar. Ma aveva una voce sconvolgente, bellissima e, a dispetto di tanti che si credono geni, sapeva scrivere canzoni. Ooby dooby, Dream Baby, Tryin’ To Get To You, Only The Loney (citata da Springsteen in Thunder Road), Dream Baby, Down The Line affidata all’amico Buddy Holly, Cryin’, Running Scared ed altre sono alcuni dei suoi successi sparsi lungo il tragitto. Poi toccò l’apice nel 1964 con Oh, Pretty Woman che gli valse un contratto con la Warner Brothers. Ma un destino crudele si accanisce contro di lui. Dapprima la moglie Claudette muore in seguito ad un incidente automobilistico e nel 1968 due dei suoi tre figli perdono la vita nell’incendio della sua casa di Nashville. Eventi che lo faranno ammalare di cuore e che, dopo una complicata operazione, lo inducono a ritirarsi. A Black and White Night viene pensato nel 1987 come uno speciale televisivo, un’occasione concessa a Orbison per consolidare la sua riesumazione. La “The Coconut Grove Band” fu formata appositamente per questo evento e furono chiamati: Elvis Costello, Bruce Springsteen, James Burton (ex Elvis Presley band), J.D.Shoutert, Tom Waits, T Bone Burnette e, ancora, Jackson Browne, K.D.Lang, Bonnie Raitt e Jennifer Warnes. Ma è come se non ci fossero, tutte queste star, sul palco. Non si sentono neppure, il proscenio è tutto suo. Adesso è molto facile reperire queste filmato, provate a guardarvi il momento in cui questo solitario cantante, intona Cryin’ e capirete di cosa era capace Orbison, e perché quei musicisti che lo attorniano lo adoravano. L’avvenimento colpì in pieno il pubblico e la sua carriera si rimise in moto. Insieme a George Harrison, Bob Dylan, Tom Petty e Jeffy Line, Orbison, forma i Traveling Wilburys, un supergruppo che nel 1988 fece uscire un album che andò a finire al terzo posto delle classifiche e sfornò singoli come Handle With Care e End Of The Line. Roy si rimise anche a scrivere canzoni per un nuovo disco, Mystery Girl, che fu pubblicato nel 1989 che ancora oggi suona affascinante e commovente. Lui però morì d’infarto due settimane prima della sua uscita.


           


            Il venerdì si presentò come una giornata lòfia, buia e piovosa. Toni si era ripreso dalla sbornia e sua madre si era calmata. La mattina prima di uscire ascoltai Del Shannon cantare Runaway, e lasciai la zia Amalia intenta a parlare al telefono con sua cugina Emma. Una conversazione che andava avanti da un pezzo, con uno scambio di: “cosa hai detto, eh.. ah..”, “non ho capito, ripeti per favore,.. ah”, “si, lo zio Alfio, come..? Parla più forte!” Avviai il motore, misi la marcia e non potei fare a meno di guardare una ragazza bionda che passava con due tette e un culo da capogiro. Meglio vivere giorno per giorno e cercare di non cadere a pezzi tutto in una volta, pensai mentre me ne andavo a cercare qualcosa da fare. Non avendo più un’occupazione stabile, mi arrangiavo con dei piccoli lavoretti che riuscivo a raccattare qua e là. La strada che percorrevo mi sembrò ancora più deprimente del solito, sarà stato per via della pioggia o di quella apatia che mi aveva avvolto da qualche tempo. Alle volte, però, per non farsi troppo del male converrebbe davvero gettare la spugna. Fissavo la pioggia, e le macchine mi strombazzavano da dietro perché tenevo un andatura lentissima, ma lo facevo apposta. Non avevo un cazzo da fare, e che se ne andassero tutti affanculo. Accesi la radio e, nel momento esatto in cui presi una sigaretta, il cellulare iniziò a trillare. Mi arrestai sul lato della strada e scrutai il numero. Era il poeta che con la sua voce tenue mi disse che stava andando a lavoro e, mentre mi parlava, captai nella sua macchina le note di “Papa’s Got A Brand New Bag“ di James Brown. Ci saremmo visti sabato sera al bar da Gino, perché c’era una novità. Di che tipo e natura non era dato saperlo. Io intanto ero rimasto fermo sotto la pioggia, e ci restai ascoltando Tom Waits cantare “Whistle Down the Wind”. Guardai l’orologio, erano ancora le 10,45, abbassai il finestrino e buttai via la sigaretta di fronte a me, guardando il bagliore rosso della cicca spegnersi nella pioggia. Mi riavviai e spensi la radio. Svoltai l’angolo e lo scroscio cessò. 


            Abito qui fin dalla nascita, ma sognavo che un giorno me ne sarei andato. In un posto di ragazze dagli occhi blu. Chitarre rosse e fiumi puliti. Non sono niente di quello che volevo, sono sempre rimasto qui. Mi sono spinto fino a Mercy e Grand, una fifa boia. Non riesco a stare qui e ho paura di andare via (baciami però di tanto in tanto). Andrò all’inferno ma potrei anche rinunciare. Il bus all’angolo, l’orologio appeso al muro, mulini a vento in rovina. Non c’è un alito di vento. Ho urlato, ho bestemmiato, se rimango qui arrugginisco.  (Whistle Down the Wind - Tom Waits).


            Nessuno cambia idea, e nessuno ci mette mai del suo per farlo. Avevo posteggiato l’auto e camminavo senza un punto d'arrivo. Passai davanti al baracchino di fiori di Donna Concetta, che se ne stava seduta nel suo bugigattolo in attesa dell’arrivo di qualche cliente, e si raschiava nervosamente le unghie fino a farle sanguinare. Forse era anche quello un piacere. Faceva freddo ed ero solo. Allora contai le monete che avevo in tasca. Il primo grande hit di Al Green,  “Tired Of Begin Alone”, fu pubblicato nel 1971 e seguito da “Let’s Stay Together” e “I’m Still In Love With you”, oggi dei classici della soul music. Una vocalità da crooning, invocante e penetrante, quella di Al Green, un cantante che riuscì ad aprirsi al mercato dei bianchi, senza snaturare la sua identità. Complice anche la sua grandissima band, formata dai fratelli Hodges, Tennie, Charles e Leroy, e dal batterista Al Jackson, un vero talento che fu ucciso nella sua casa di Memphis e sostituito da Howard Grimes, un altro batterista dal grande senso del ritmo. Musicisti con le contropalle, che sapevano seguire le sue inflessioni vocali fino a scandagliargli l’animo, con tocchi musicali sempre appropriati. Ci vuole capacità per fare bene le cose, ma anche coraggio e forza. L’onestà? Quella non sempre è richiesta. Mi sentivo smarrito con quel fondo di amarezza che mi accompagnava e scendendo il viale sentii una malinconia dolce, come una melodia, come una canzone di Smokey Robinson and the Miracles affacciarsi


            Al bar da Gino il sabato arrivai che erano le nove passate, e già c’era un bel po’ di trambusto. Aveva organizzato un reading di musica e poesie quella sera Toni, era questa la sua bella sorpresa. Non appena mi vide si avvicinò spiegandomi che sarebbero intervenuti tanti autori tutti sconosciuti. I poeti dell’ombra, li aveva battezzati. Ma, in fin dei conti, cos’è un poeta? La radio del bar stava trasmettendo uno di quei cantautori con quell’inclinazione alla superiorità, che dà su i nervi, uno che stornella canzoni con correnti gravitazionali, ascensionali, ipocondriache. Abituato come sono a canzoni stridule, a chitarre dissonanti e a testi semplici, seppur drammatici, che nascono dalla paura che si tramuta in arte, queste canzoni non le riesco proprio a capire. E nessuno mi può sgozzare perché non le capisco. Ma costui è considerato un genio, un maestro, una fonte d’ispirazione. Ma in fin dei conti cos’è un poeta? Bevvi un paio di birre in compagnia di Pippo “Il Bandito” che era uscito da poco dal carcere e, quando il locale fu pieno zeppo di ubriaconi, operai, giocatori di briscola, senza tetto, vagabondi, canaglie, musicisti, scrittori, giocatori di biliardo, punk, visionari, prostitute, perdigiorno, sognatori, cameriere, badanti, sartine e pezzenti, si diede inizio. Toni interpretò la sua lirica a tarda notte, con il sottofondo di “Harlem Nocturne” di King Curtis, e fu un momento davvero toccante per l’intensità emotiva con cui recitò i suoi versi.  



            Tirammo l’alba, ma prima che andassimo via un ragazzo cantò accompagnandosi con una chitarra acustica “Dead Radio”, una canzone di Rowland S. Howard, con una passione e un’intensità, che mi spezzò il cuore.


            Hai sempre paura di ciò che non conosci. E il buio fa paura a molti. Come la poesia. Noi uomini marciamo su questa terra come fossimo al supermercato e, pronti col numerino in mano, restiamo in attesa del’eternità, rincorrendo la giovinezza. Ma in fin dei conti, cos’è sta giovinezza? Forse è lo sconvolgersi? O forse farebbe più giovane se tutti quanti riuscissimo ad amare tutti? Questo sarebbe sconvolgente, nuovo, rivoluzionario. Dovremmo perdere per strada le spregevoli menzogne di cui ci nutriamo. Ma, invece, guai se proviamo a rifilare le nostre angosce, o le nostre poesie, a quelli che vengono a trovarci! Ci saremmo belli è fregati l’esistenza, resteremmo da soli a tormentarci. Finisce allora che nascondiamo tutto dentro e ci consumiamo nella notte, dove sostiamo esitanti insieme al diavolo, perché possiede, lui sì, tutti i trucchi per ammaliarci.


            E venne il grande giorno dell’ira. E c’è fango nel tuo grande occhio rosso. Il poker è sul fuoco. E le locuste guadagnano il cielo. E la terra è morta urlando. (Earth Died Screaming - Tom Waits)







Bartolo Federico

3 commenti:

  1. Che emozione questo pezzo, con un sacco di nomi che hanno accompagnato la mia infanzia (o poco più), accanto allo stereo. Per dirne uno, il vinile Roy Orbison and Friends, l'ho letteralmente consumato ad ascoltarlo (preso dopo quel film immortale di Lynch).

    RispondiElimina
  2. Alè! Ci mancava il Bar di Gino... questa volta addirittura con dedica!
    Thanks!!!

    RispondiElimina
  3. Solito gran racconto...e anche la dedica! Grazie Bartolo

    RispondiElimina