La signora Fina mi telefonò che
era fuori di sé nella tarda mattina di giovedì, infierendo contro Toni che da
due giorni se ne stava chiuso nella stanza e non era uscito neanche per
mangiare, ascoltava solo quella cazzo di musica a tutto volume. Disse proprio così:
quella cazzo di musica. Cercai di calmarla, ma lei urlava come un ossessa e così,
per non farla imbestialire ancora di più, mi tappai la bocca. Quando alle tre
del pomeriggio suonai il campanello di casa, lei venne ad aprirmi con un
espressione che diceva già tutto sul suo stato d’animo. La salutai quasi timoroso
e mi diressi nella camera del poeta. Spaparanzato sul divano con le mutande
nere e la canottiera bianca, si guardava il video con il volume altissimo di “Baby Did A Bad Bad Thing” una canzone
di Chris Isaak. Era davvero mal
ridotto e aveva una faccia da perfetta copertina dei Grateful Dead. Appena mi
scorse fermo sull’uscio, iniziò a blaterare in maniera sconnessa di avere una
relazione con Laetitia Casta, e che
doveva smascherare un complotto contro di lui da parte del governo e della Asl,
che bramavano di spedirlo in manicomio perché non volevano che la sposasse. Ci
passava le sue giornate dentro gli ospedali psichiatrici Toni, e un po’ tonto a
dire il vero lo stava diventando. Ma forse è normale che questo accada ad uno
psicologo. Raccolsi una bottiglia di bourbon da terra e richiusi la porta, ma dal
momento che ce n’era ancora un mezzo bicchiere, me lo scolai d’un fiato. Tanto
per gradire. “Che cazzo succede, amico?” gli strillai. “Siamo alle solite?” “Non
ti muovere essere blasfemo”, mi rispose, “il tuo cervello è sordido”, e si alzò
in piedi sul divano restando immobile come fosse una statua di marmo, poi
riprese: “sei solo un essere malridotto nella tua cupa scelleratezza”, e mentre
parlava si ciucciò un sorso dalla bottiglia che teneva in mano. “Non fare alcun
passo in avanti”, proseguì, guardandomi con gli occhi guerci. Il grande vate William Blake scrisse che “Se il matto persistesse nella sua follia,
andrebbe incontro alla saggezza”. Era davvero in pieno sballo, ed era
meglio, conoscendolo, non rompergli troppo le palle. Stava pronunciando qualche
altra cosa ma all’improvviso cadde; come cadono alle volte quegli stronzi
mattutini, in maniera strana, lenta, svenuto sul divano.
Spensi la musica che suonava distorta per come era forte
il volume, e aprii la finestra per fare uscire il malo odore d’alcool e fumo di
cui era impregnata la stanza. Però, ci sapeva fare con le donne il poeta,
sapeva come imbambolarle con la sua filosofia da parole crociate. Ma che
cultura ha quest’uomo!, ripetevano adoranti le signorine, senza sapere che
quella era solo la sua tattica per scoparsele. Devo ammettere che il più delle
volte ci riusciva. E lo dico senza invidia. Intanto che se ne stava inerme sul
divano, in quel casino che aveva combinato cercai di rimettere un po’ d’ordine,
soprattutto prima che spuntasse sua madre. Da sotto il tavolino raccattai la
copertina di “Gremlins Have Pictures”
di Rocky Erickson, uno dei miei
tanti dischi che gli avevo prestato e che non aveva fatto più ritorno a casa.
Il vinile, grazie a Dio, era sano e salvo sul piatto con la puntina franata
sulla cover di Heroin, la canzone di
Lou Reed che rese vietato nel 1966 trasmettere
per le radio americane l’album The
Velvet Underground and Nico. Lo levai
dallo stereo e lo rimisi nella sua custodia. Nel posarlo sullo scaffale notai anche
“Roy Orbison and Friends” - “A Black and White
Night”, un altro dei miei fuggiaschi perduti. La stella di Roy
Orbison aveva finito di brillare ormai da tempo quando nel 1986 il regista David
Lynch utilizzo una sua canzone “In Dreams” in una scena del film “Velluto
Blu”. Fu con questa botta di culo improvvisa che Roy, ormai dimenticato da
tutti, si ritrovò nuovamente sul palcoscenico. Veniva dal mondo del bianco e
nero del profondo degli anni cinquanta, questo signore gentile, dai modi
garbati, che si presentava con occhiali scuri e un maglione nero, e che non era
nato per fare la rockstar. Ma aveva una voce sconvolgente, bellissima e, a
dispetto di tanti che si credono geni, sapeva scrivere canzoni. Ooby dooby, Dream
Baby, Tryin’ To Get To You, Only The Loney (citata da Springsteen in Thunder Road), Dream Baby,
Down The Line affidata all’amico Buddy Holly, Cryin’, Running Scared ed
altre sono alcuni dei suoi successi sparsi lungo il tragitto. Poi toccò l’apice nel
1964 con Oh, Pretty Woman che gli valse un contratto con la Warner
Brothers. Ma un destino crudele si accanisce contro di lui. Dapprima la
moglie Claudette muore in seguito ad un incidente automobilistico e nel
1968 due dei suoi tre figli perdono la vita nell’incendio della sua casa di
Nashville. Eventi che lo faranno ammalare di cuore e che, dopo una complicata
operazione, lo inducono a ritirarsi. A Black and White Night viene
pensato nel 1987 come uno speciale televisivo, un’occasione concessa a Orbison
per consolidare la sua riesumazione. La “The Coconut Grove Band” fu
formata appositamente per questo evento e furono chiamati: Elvis Costello,
Bruce Springsteen, James Burton (ex Elvis Presley band), J.D.Shoutert,
Tom Waits, T Bone Burnette e, ancora, Jackson Browne, K.D.Lang, Bonnie
Raitt e Jennifer Warnes. Ma è come se non ci fossero, tutte queste star, sul
palco. Non si sentono neppure, il proscenio è tutto suo. Adesso è molto facile
reperire queste filmato, provate a guardarvi il momento in cui questo solitario
cantante, intona Cryin’ e capirete di cosa era capace Orbison, e perché
quei musicisti che lo attorniano lo adoravano. L’avvenimento colpì in pieno il
pubblico e la sua carriera si rimise in moto. Insieme a George Harrison,
Bob Dylan, Tom Petty e Jeffy Line, Orbison, forma i
Traveling Wilburys, un supergruppo che nel 1988 fece uscire un album che
andò a finire al terzo posto delle classifiche e sfornò singoli come Handle
With Care e End Of The Line. Roy si rimise anche a scrivere canzoni
per un nuovo disco, Mystery Girl, che fu pubblicato nel 1989 che ancora
oggi suona affascinante e commovente. Lui però morì d’infarto due settimane
prima della sua uscita.
Il
venerdì si presentò come una giornata lòfia, buia e piovosa. Toni si era
ripreso dalla sbornia e sua madre si era calmata. La mattina prima di uscire
ascoltai Del Shannon cantare Runaway, e lasciai la zia Amalia
intenta a parlare al telefono con sua cugina Emma. Una conversazione che andava
avanti da un pezzo, con uno scambio di: “cosa hai detto, eh.. ah..”, “non ho
capito, ripeti per favore,.. ah”, “si, lo zio Alfio, come..? Parla più forte!” Avviai
il motore, misi la marcia e non potei fare a meno di guardare una ragazza
bionda che passava con due tette e un culo da capogiro. Meglio vivere giorno
per giorno e cercare di non cadere a pezzi tutto in una volta, pensai mentre me
ne andavo a cercare qualcosa da fare. Non avendo più un’occupazione stabile, mi
arrangiavo con dei piccoli lavoretti che riuscivo a raccattare qua e là. La
strada che percorrevo mi sembrò ancora più deprimente del solito, sarà stato
per via della pioggia o di quella apatia che mi aveva avvolto da qualche tempo.
Alle volte, però, per non farsi troppo del male converrebbe davvero gettare la
spugna. Fissavo la pioggia, e le macchine mi strombazzavano da dietro perché
tenevo un andatura lentissima, ma lo facevo apposta. Non avevo un cazzo da fare,
e che se ne andassero tutti affanculo. Accesi la radio e, nel momento esatto in
cui presi una sigaretta, il cellulare iniziò a trillare. Mi arrestai sul lato
della strada e scrutai il numero. Era il poeta che con la sua voce tenue mi
disse che stava andando a lavoro e, mentre mi parlava, captai nella sua
macchina le note di “Papa’s Got A Brand New Bag“ di James Brown. Ci
saremmo visti sabato sera al bar da Gino, perché c’era una novità. Di che tipo
e natura non era dato saperlo. Io intanto ero rimasto fermo sotto la pioggia, e
ci restai ascoltando Tom Waits cantare “Whistle
Down the Wind”. Guardai l’orologio,
erano ancora le 10,45, abbassai il finestrino e buttai via la sigaretta di
fronte a me, guardando il bagliore rosso della cicca spegnersi nella pioggia. Mi
riavviai e spensi la radio. Svoltai l’angolo e lo scroscio cessò.
Abito qui fin dalla
nascita, ma sognavo che un giorno me ne sarei andato. In un posto di ragazze
dagli occhi blu. Chitarre rosse e fiumi puliti. Non sono niente di quello che
volevo, sono sempre rimasto qui. Mi sono spinto fino a Mercy e Grand, una fifa
boia. Non riesco a stare qui e ho paura di andare via (baciami però di tanto in
tanto). Andrò all’inferno ma potrei anche rinunciare. Il bus all’angolo,
l’orologio appeso al muro, mulini a vento in rovina. Non c’è un alito di vento.
Ho urlato, ho bestemmiato, se rimango qui arrugginisco. (Whistle
Down the Wind - Tom
Waits).
Nessuno cambia idea, e nessuno ci mette mai del suo per
farlo. Avevo posteggiato l’auto e camminavo senza un punto d'arrivo. Passai
davanti al baracchino di fiori di Donna Concetta, che se ne stava seduta nel
suo bugigattolo in attesa dell’arrivo di qualche cliente, e si raschiava nervosamente
le unghie fino a farle sanguinare. Forse era anche quello un piacere. Faceva
freddo ed ero solo. Allora contai le monete che avevo in tasca. Il primo grande
hit di Al Green, “Tired
Of Begin Alone”, fu pubblicato nel 1971 e seguito da “Let’s Stay Together” e “I’m
Still In Love With you”, oggi dei classici della soul music. Una vocalità da
crooning, invocante e penetrante, quella di Al Green, un cantante che riuscì ad aprirsi al mercato dei bianchi,
senza snaturare la sua identità. Complice anche la sua grandissima band,
formata dai fratelli Hodges, Tennie,
Charles e Leroy, e dal batterista Al
Jackson, un vero talento che fu ucciso nella sua casa di Memphis e
sostituito da Howard Grimes, un
altro batterista dal grande senso del ritmo. Musicisti con le contropalle, che
sapevano seguire le sue inflessioni vocali fino a scandagliargli l’animo, con
tocchi musicali sempre appropriati. Ci vuole capacità per fare bene le cose, ma
anche coraggio e forza. L’onestà? Quella non sempre è richiesta. Mi sentivo
smarrito con quel fondo di amarezza che mi accompagnava e scendendo il viale
sentii una malinconia dolce, come una melodia, come una canzone di Smokey Robinson and the Miracles affacciarsi
.
Al bar da Gino il sabato arrivai che erano le nove
passate, e già c’era un bel po’ di trambusto. Aveva organizzato un reading di
musica e poesie quella sera Toni, era questa la sua bella sorpresa. Non appena
mi vide si avvicinò spiegandomi che sarebbero intervenuti tanti autori tutti sconosciuti.
I poeti dell’ombra, li aveva battezzati. Ma, in fin dei conti, cos’è un poeta? La
radio del bar stava trasmettendo uno di quei cantautori con quell’inclinazione
alla superiorità, che dà su i nervi, uno che stornella canzoni con correnti
gravitazionali, ascensionali, ipocondriache. Abituato come sono a canzoni
stridule, a chitarre dissonanti e a testi semplici, seppur drammatici, che
nascono dalla paura che si tramuta in arte, queste canzoni non le riesco
proprio a capire. E nessuno mi può sgozzare perché non le capisco. Ma costui è considerato
un genio, un maestro, una fonte d’ispirazione. Ma in fin dei conti cos’è un
poeta? Bevvi un paio di birre in compagnia di Pippo “Il Bandito” che era uscito
da poco dal carcere e, quando il locale fu pieno zeppo di ubriaconi, operai,
giocatori di briscola, senza tetto, vagabondi, canaglie, musicisti, scrittori,
giocatori di biliardo, punk, visionari, prostitute, perdigiorno, sognatori, cameriere,
badanti, sartine e pezzenti, si diede inizio. Toni interpretò la sua lirica a
tarda notte, con il sottofondo di “Harlem Nocturne” di King Curtis, e fu un momento
davvero toccante per l’intensità emotiva con cui recitò i suoi versi.
Tirammo
l’alba, ma prima che andassimo via un ragazzo cantò accompagnandosi con
una chitarra acustica “Dead Radio”, una canzone di Rowland S. Howard,
con una passione e un’intensità, che mi spezzò il cuore.
Hai sempre paura di ciò che non
conosci. E il buio fa paura a molti. Come la poesia. Noi uomini marciamo su
questa terra come fossimo al supermercato e, pronti col numerino in mano,
restiamo in attesa del’eternità, rincorrendo la giovinezza. Ma in fin dei conti,
cos’è sta giovinezza? Forse è lo sconvolgersi? O forse farebbe più giovane se
tutti quanti riuscissimo ad amare tutti? Questo sarebbe sconvolgente, nuovo, rivoluzionario.
Dovremmo perdere per strada le spregevoli menzogne di cui ci nutriamo. Ma,
invece, guai se proviamo a rifilare le nostre angosce, o le nostre poesie, a
quelli che vengono a trovarci! Ci saremmo belli è fregati l’esistenza, resteremmo
da soli a tormentarci. Finisce allora che nascondiamo tutto dentro e ci
consumiamo nella notte, dove sostiamo esitanti insieme al diavolo, perché possiede,
lui sì, tutti i trucchi per ammaliarci.
E venne il grande giorno dell’ira. E c’è
fango nel tuo grande occhio rosso. Il poker è sul fuoco. E le locuste
guadagnano il cielo. E la terra è morta urlando. (Earth Died Screaming - Tom Waits)
Bartolo Federico
Che emozione questo pezzo, con un sacco di nomi che hanno accompagnato la mia infanzia (o poco più), accanto allo stereo. Per dirne uno, il vinile Roy Orbison and Friends, l'ho letteralmente consumato ad ascoltarlo (preso dopo quel film immortale di Lynch).
RispondiEliminaAlè! Ci mancava il Bar di Gino... questa volta addirittura con dedica!
RispondiEliminaThanks!!!
Solito gran racconto...e anche la dedica! Grazie Bartolo
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