lunedì 26 dicembre 2016

Non Fate Prigionieri I Cuori Di Rock'n'Roll



Lei dentro un abito rosso lo scrutò nella penombra. Lui con lo sguardo un po’ annebbiato dall’alcool, gli accennò un sorriso. Era una notte umida di un sabato qualunque. Il traffico scorreva lento lungo l’arteria principale e Coney Island Baby una canzone di Lou Reed, risuonava da qualche parte nella mia testa. Là nel buio accadono cose terribili che ti cambiano per sempre, disse il ragazzo. E prese a raccontargli di quando a quel concerto, quegli assassini entrarono sparando all’impazzata sugli spettatori. Ai primi colpi restai immobile, pietrificato dalla paura. Poi non sapendo cosa fare mi gettai in terra, e caddi sopra il corpo di una ragazza che invece era stata centrata dalle pallottole. Mentre con gli occhi chiusi mi fingevo morto, sentì il suo sangue caldo bagnarmi il viso, per poi lentamente colarmi lungo il collo come una lacrima. Quando gli spari cessarono, mi alzai e vidi intorno a me centinaia di cadaveri, e macchie di sangue dappertutto. No, non si può morire in quel modo” osservò la ragazza. E con un gesto materno gli cinse un braccio. Siccome non ho mai creduto alla versione ufficiale dei fatti continuò il ragazzo, da quella sera ho sempre alimentato un dubbio. E poiché uno ne trascina altri, non faccio che tormentarmi. Restano troppi lati oscuri. E non sapremo mai la verità. Parigi quella notte sembrava davvero un cumulo di brillanti spenti. E l’affermò mantenendo un tono calmo. Al bar assistetti per caso a quel dialogo. Ero seduto accanto a quella coppia, e quando capii di cosa stavano parlando origliai volutamente. Poi a tarda notte rientrato a casa, colpa di quella smania che mi aveva reso nervoso e pensieroso, continuai a bere. Nel tempo ero diventato uno di quelli che avrebbe voluto vivere senza fastidi, senza preoccupazioni. Ma finché si è vivi, bisogna mettere in conto che ti succedono cose che non vorresti. Cose che ti colgono di sorpresa, e ti lasciano ammutolito e lacerato. Nessuno sa cosa ne sarà di noi. Mi alzai alle prime luci dell’alba e spensi la radio che era rimasta accesa, poi andai in bagno a vomitare. Invecchiando anche l’alcool mi dava problemi. Faceva cumulo con quelle crepe che continuavano ad aprirsi dentro di me. Così quell’onda gelida che spesso mi assale, fece la sua comparsa nel primo sole del mattino. Continuavo a non capire come avevo fatto a bruciare quel poco di talento, che in fondo pensavo di avere. Ero andato alla deriva naufragando lentamente, senza metterci nemmeno troppa fatica. Ma non era il momento di fare inventari e riposi sul giradischi Take No Prisoners, un doppio live di Lou Reed registrato al Bottom Line di New York, nel 1978. Un disco pieno di rabbia e caos. Musica splendida e travolgente, libera di andare dove gli pare. Un Lou Reed austero, acido, iconoclasta, che canta canzoni ombrose, abbigliate con nuovi travestimenti. Impregnate dall’odore di cera e plastica bruciata, e da un dolore pungente, che non va mai via. Questo disco traccia un nuovo ritratto della sua complessa personalità. Alle volte sembra di essere precipitati dentro un night club, altre in mezzo a gente che sotto palpebre cadenti, ha occhi maligni. La sua voce echeggia il cupo della miseria metropolitana, degli sguardi stinti, che spariscono sotto nuvole di fumo. Di tossici che la notte insegue con occhi inceneriti. E di quella bambina preda del buio che in pantaloncini corti e maglietta scollata sulla schiena, cerca quello che è rimasto di lei. Solo guardando in basso si scopre la verità, il reale significato della vita. E il male per Lou Reed resta sempre fuori dalla luce del sole. Per farla breve ho il morale a terra. Ma mi comporto come una persona normale. Vado a lavoro, parlo, ascolto. Voglio continuare a dare agli altri, l’impressione di essere perfettamente integrato. Ma è vero il contrario. Mi sento sommerso sotto tonnellate di pioggia. Annaspo e vaneggio, mentre mi dirigo verso il nulla. Avendo in qualche modo imparato a riconoscere le bugie, non mi fa più neanche tanto male. E poi ho sempre i miei dischi e alcuni libri, come ancore di salvataggio. Ricorda che la città è un posto divertente. Qualcosa come un circo o una fogna. E adesso, la città è una fogna per me, tesoro. (Coney Island Baby) I segni delle sconfitte alle volte non vanno mai via. Facciamo finta di non saperlo ma andiamo tutti quanti verso gli stessi posti, facciamo le stesse cose, che qualcuno prima di noi ha già fatto. E allora perché spargiamo tutto questo dolore? Perché non ci meravigliamo più di nulla? Ce ne restiamo avvinghiati a quelle cose che ci hanno scaldato il cuore. Canzoni, poesie, e amori che ci hanno ferito profondamente, lasciandoci attoniti con la testa sul cuscino. Sembra strano ma quando eravamo deboli, eravamo forti. Poi abbiamo trovato la nostra ragione d'essere, e allora giù a bere un altro bicchiere, per celebrare il nostro decadimento. Abbiamo cercato di tenere tutto il piacere del mondo stretto nella morsa delle nostre dita, di approfittarne in quei giorni quando il presente, il futuro, il passato, non erano niente. E a quelle parole che rotolavano dentro di noi, gli siamo andati contro, le abbiamo sfilacciate, ammucchiate, e nella notte dato fuoco. Mentre c'incendiavamo di musica. Fin quando stremati lo abbiamo confessato all'alba di un giorno qualunque, a questo stupido mondo, che era proprio quello che stavamo cercando. Quel qualcosa che ci meravigliasse un po'. E' di artisti che ha bisogno il mondo, perché in loro sopravvivono le nostre paure e la nostra beatitudine. Ma come sempre gettiamo tutto noi uomini, con il nostro sonnecchiare sprecone. Schiviamo tutto noi uomini, con la nostra arroganza. Sparpagliati come stelle nel cielo corriamo nella notte, cercando di scimmiottare i nostri eroi. Ma siamo uomini soli. Un po' come i cani. Teneri e fedeli. La vita è piena di delusioni, di sogni rancidi, di profili sbiaditi, di amori fasulli, di merda e morte. Ma tutto sommato la speranza non costa nulla. Anche quella di diventare ricchi e famosi, non costa nulla. Gli Spirit suonavano musica davvero difficile da etichettare. Erano tra i pochi a sapere mescolare il pop, (uno dei più grandi riff rock rimane la loro I Got A Line On You) con spunti jazzistici, musica psichedelica e limpide armonie vocali. Musicisti eccelsi, impeccabili, ma non per questo privi di cuore. Ed Cassidy aveva suonato la batteria con Thelonious Monk, Gerry Mulligan, Art Pepper, Cannonball Adderley. Quando a Los Angeles incontra Randy California, un chitarrista fantasioso e originale che aveva accompagnato Hendrix e Jimmy James The Blue Flames, insieme a Mark Andes, John Locke e Jay Ferguson, danno vita a uno dei gruppi più atipici della scena rock americana. The Family That Plays Together venne fuori nel dicembre del 1968, e conteneva sette canzoni che suonano ancora misteriose e inquietanti, ambigue e tenebrose. Ma anche oniriche e rilassanti. Riuscendo ad aprirsi un varco in quei frammenti di luce che in un modo o nell’altro, ci tengono vivi. Alle volte non riesci a respirare e quel morso che ti attanaglia, non si placa in alcun modo. Nella strada una voce roca e profonda, fece oscillare gli ascoltatori. Con gli occhi chiusi David Johansen sta cantando Somebody Buy Me A Drink.  Dopo una carriera da rocker di razza (il suo Live It Up è uno dei più grandi dischi dal vivo di musica rock) e aver mutato pelle diventando l’intrattenitore Buster Poindexter, nell’anno duemila registra insieme al suo gruppo gli Harry Smiths (dal nome del fautore dell’Anthology Of American Music) un omaggio al blues, la musica con cui è cresciuto nelle strade nel Bronx. Un viaggio nel fango del Mississippi fumando a testa bassa, e cantando canzoni impregnate del sudore di tutti quelli che sono fuggiti su strade polverose, con il demonio alle calcagna. Canzoni che azzardano e si stagliano fiere all’orizzonte, dove un bagliore le illumina di passione. Blues selvaggi per cuori impavidi, cantati da una voce piena di pathos e ruggine. Anche se uno fa finta di niente s’impara tutto da piccoli, quando si è deboli e insicuri. David si fermò ansimando come un cane. In quel grande vuoto poteva anche marcire di malinconia. E allora si mise a canticchiare Sunny. Quella canzone lo faceva sentire meglio. Il suo cuore riprese lentamente a battere. La musica lo ripuliva, e quel sogno era come un’ambulanza che lo soccorreva. Così riprese a camminare a testa alta, con il passo di chi non ha più paura. “E musica che potete sentire in ogni luogo, alla radio, nelle strade, blues, soul, country, rock, musica religiosa e suoni del traffico, della folla, della strada e dei prati, il suono del silenzio della gente. Questo scriveva il chitarrista Mike Bloomfield nelle note di copertina di A Long Time Comin’ l’album d’esordio targato 1968, degli Electric Flag. Con Michael c’è anche il vecchio amico Nick Gravenites, Buddy Miles, Barry Goldberg, e Harvey Brooks. Una sezione di fiati completa l’ensemble, per un progetto stilistico ambizioso. La band è davvero esplosiva, soprattutto dal vivo. Si esibiscono con buon successo al festival di Monterey, e partecipano alla colonna sonora del film The Trip. Ma in studio forse per colpa di certi arrangiamenti, non riescono a essere convincenti. Sicuramente Bloomfield è l’esatto opposto di una rockstar. Un uomo stracarico di tormenti interiori. Un carattere schivo e taciturno, che lo mette in difficoltà a stare sotto le luci della ribalta. Soffre anche di una grave forma d’insonnia, tanto che comincia a farsi di eroina. Prima di formare gli Eletric Flag tra il 1964 e il 1965, suona in studio con Bob Dylan in Highway 61 Revisited. In seguito farà parte della Butterfield Blues Band, e dopo aver accompagnato per un pezzo di strada Eddie Vinson, forma i Flag. A Long Time Comin rappresenta uno spaccato di quell’epoca del rock, quand’era più facile tuffarsi su qualche strada, e dare gas ai propri sogni. Ci sono dentro queste canzoni i frastuoni ossessivi della città del vento, e i suoi rumori. E anche i miei giorni innocenti. La musica è condivisione. E’ come una buona bottiglia di vino, del buon cibo, una scopata coi fiocchi. Cose che vanno godute fino in fondo. Non riesco a farmela passare però quest’angoscia, che mi fa sentire un relitto. Non posso pensarci a come sarà stato. A come si saranno sentiti quei ragazzi al Bataclan, mentre gli sparavano addosso. Mi ha cambiato per sempre quella notte, quel rantolo d’umanità che serbavo me l’ha portato via. Penso a tutte le occasioni che si sono persi, alle cose che non riusciranno a fare, perché qualcuno in nome di non si sa che cosa, si è preso il loro tempo. Una volta la terra è stata un paradiso terrestre. Sono rimasto avvolto nel buio mentre aspettavo i primi raggi del sole. La mia cucina è in miniatura e dà su un piccolo cortiletto sporco e pieno di vecchie cose arrugginite, accatastate l’una sull’altra. Un motore diesel, dei copertoni, un manubrio. Fusti di latta, scatole di polistirolo, sopramobili, un portacenere di marmo, un quadretto con foto in bianco e nero. Ferri da stiro, un campanello elettrico, caraffe di legno, quel che resta di una macchina per cucire, un paraurti, delle scatolette di cibo per gatti. Un ventilatore a colonna, un saldatore elettrico, un rullo per pittura, mazze da carpentiere, uno scappello a punta. Un cane arrotolato su se stesso, dorme sempre a ridosso di quella catasta. Nella tromba delle scale del palazzo, da ragazzo giocavo a carte, bevendo succo di pera mischiato a gin. Presi una birra e accesi lo stereo. Con mio fratello da bambini, giocavamo ad ammazzare gli scarafaggi che passavano sul davanzale del balcone della cucina. Un pomeriggio né contai più di cinquanta. Ero cresciuto in quel quartiere dove conoscevo tutti, e in qualche modo in quel luogo mi sentivo al sicuro. Ma nel tempo molte cose sono cambiate. Molti luoghi della mia memoria sono spariti, per fare spazio a brutti palazzi, e a inutili centri commerciali che stanno sterminando tutto il mio passato. Alle prime note di God Bless The Child, alzai il volume dello stereo. Aveva sempre uno strano effetto quella canzone su di me. Rimasi a guardare fuori dalla finestra la strada che si faceva buia. Quando la musica terminò, stappai la birra e mi sedetti sul bordo del letto. Dopo mi distesi e mi addormentai di colpo. Certo che non sarebbe male se ci fosse qualcosa che ci facesse distinguere da subito, i buoni dai cattivi. Ma alle volte basterebbe guardarle da vicino le cose, per vederle. Il mio quartiere è abitato da operai, gente umile, alla buona. Fin da piccolo ho imparato frequentando quelle strade, che c’erano solo due modi per cavarsela nella vita. O ci penetravi inzuppandoti fino alla testa, col rischio di soffocare, oppure era meglio risalire il fiume spingendo lentamente la canoa, in modo tale da potere vedere i giorni che passano. Lo avevano svenduto in nome del progresso il quartiere, quei fantocci dei politici. I piccoli negozi avevano chiuso, ed erano arrivati i cinesi ad arraffare tutto quello che potevano, per aprire i loro punti vendita e riempirli del loro ciarpame. Ma la sera al bar da Gino, arriva ancora gente di ogni risma. Musicisti, pittori, scrittori, mattoidi, ubriaconi, malviventi, truffatori, e borsaioli. Randagi e qualche depresso. Adesso c’è anche un gruppo d’intellettuali che ci fa base. Molti però non ci vanno più perché tra un bicchiere e un altro, questi fighetti del sapere, con quell’aria del cazzo che si ritrovano, sembra che li canzonano. Non so perché ma mi ricordano tanto quei finti sovversivi degli anni settanta, oggi ricchi e famosi, alla corte del potere politico-televisivo. Grandi facce di merda. La vecchiaia avanza prendendomi per il culo. Anzi ci prendiamo a vicenda per il culo, tanto per spassarcela un po’. L’altra volta ho infranto la mia pigrizia, e sono andato al bar per incontrare qualche vecchio amico. L’atmosfera era malinconica, come una ballata dei Tindersticks. Sono tornato a casa molto presto. Al ritorno un marocchino si è avvicinato per vendermi qualcosa. Per la prima volta in vita mia l’ho scansato. Lui mi ha guardato e ha scosso la testa. Avrà pensato ma cosa ho fatto? E ha continuato a guardarmi, fin quando non ho girato l’angolo. Quando sono rientrato a casa accovacciato sul divano, mi sono chiesto a che punto ero con la mia intolleranza. C’è stato un tempo in cui la terra promessa per il rock era la Francia. Parigi ha accolto tutti quei bastardi che il music business cacciava a pedate. Accadeva nel 1980 quando il punk la più grande rivoluzione culturale di massa, si stava spegnendo sotto le grandi luci del mondo, e i due amici Patrick Mathé e Louis Thevenon gestori del negozio di dischi Music Box, e della piccola etichetta Flamingo Records, decidono di trasformarsi in New Rose Records, etichetta che prese il nome da una canzone dei Damned. Tra nuove band e gruppi musicali francesi la New Rose, ha dato un’opportunità a questi fuggitivi del rock: Willie Alexander, Alex Chilton, Sky Saxon, Roky Erickson, The Real Kids, Charlie Feathers, Tav Falco, True West, Calvin Russell, Gun Club, Dead Kennedys, Cramps, Green On Red, Giant Sand, The Primevals, Alejandro Escovedo, Bo Diddley, Alvin Lee, Robert Gordon, Elliott Murphy The Slickee Boys, Paul Roland, Dr Feelgood, That Petrol Emotion, The Chesterfield Kings, Maureen Tucker, The Inmates, Percy Sledge, Johnny Thunders l’anima maledetta delle New York Dolls, e molti altri ancora. Stamattina mi sono alzato e fuori pioveva. La pioggia picchettava sulla veranda noiosamente. Me li ricordo bene quei giorni quando anch’io volevo tutto e subito. Con gli anni però ho dovuto imparare ad avere pazienza, a tessere la tela, ad aspettare il momento propizio. Ma non vado orgoglioso di questo. Perché le cose più belle sono quelle che hai lasciato scritto da qualche parte, sul muro dei ricordi. Un caldo e umido pomeriggio di settembre, io e lei in una piccola stanza d’albergo. La radio accesa che suonava Bermuda di Rocky Erickson. Abbiamo fatto l’amore con voracità e trasporto, standocene aggrappati l’uno all’altro come ad uno scoglio. Poi abbiamo dormito a lungo. Lei aveva diciannove anni, io venti. E’ sempre quello che non hai previsto che ti mette al tappeto. Il vicolo è stracolmo di spazzatura, di bottiglie di liquore, e piatti sporchi. Ma anche di gente che barcolla e cade. Il rock della New Rose ha i denti macchiati di sangue, e la faccia spigolosa. Il più delle volte soffre di nausea, e sente il corpo fluttuare. Vaneggia ed è costretto a mentire, per sfuggire a chiunque voglia ingabbiarlo. Le chitarre ringhiano e prendono fuoco. Dietro le sbarre di una prigione qualcuno strizza gli occhi, e con la mano si tocca quel rozzo tatuaggio rammendato sul braccio. Rock’n’roll Heart c’è scritto. Nient’altro. Non mi piace l’opera e non mi piace il balletto e i film della nouvelle vogue francese mi urtano be’, sarò stupido, visto che so di non essere brillante ma dentro di me ho un cuore da rock and roll sì, sì, sì, nel profondo ho un cuore da rock and roll. (Lou Reed) E’ tremendo osservare come ce ne sono di cose e persone smarrite nei ricordi, che non si muovono più. Quando uno invecchia non sa più chi risvegliare. Ascolti e vai! Sali in cima e scendi, guardi dappertutto. Come un uccello rapace, ti fiondi sulla preda. Un passo, due passi, adagio, non vedi nessuno. Bentornate angosce. Si cade a pezzi come rottami. Niente di grave. La gente sbraita e rompe le palle. Ma siamo tutti tremendamente soli in questo mondo.



Bartolo Federico




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