Lei dentro un abito rosso lo scrutò nella penombra. Lui con lo
sguardo un po’ annebbiato dall’alcool, gli accennò un sorriso. Era una notte
umida di un sabato qualunque. Il traffico scorreva lento lungo l’arteria
principale e Coney Island Baby una canzone di Lou Reed, risuonava
da qualche parte nella mia testa. Là nel buio
accadono cose terribili che ti cambiano per sempre, disse il ragazzo. E prese a
raccontargli di quando a quel concerto, quegli assassini entrarono sparando
all’impazzata sugli spettatori. Ai primi colpi restai immobile, pietrificato
dalla paura. Poi non sapendo cosa fare mi gettai in terra, e caddi sopra il
corpo di una ragazza che invece era stata centrata dalle pallottole. Mentre con
gli occhi chiusi mi fingevo morto, sentì il suo sangue caldo bagnarmi il viso,
per poi lentamente colarmi lungo il collo come una lacrima. Quando gli spari
cessarono, mi alzai e vidi intorno a me centinaia di cadaveri, e macchie di
sangue dappertutto. No, non si può morire in quel modo” osservò la
ragazza. E con un gesto materno gli cinse un braccio. Siccome non ho mai
creduto alla versione ufficiale dei fatti continuò il ragazzo, da quella sera
ho sempre alimentato un dubbio. E poiché uno ne trascina altri, non faccio che
tormentarmi. Restano troppi lati oscuri. E non sapremo mai la verità. Parigi
quella notte sembrava davvero un cumulo di brillanti spenti. E l’affermò
mantenendo un tono calmo. Al bar assistetti
per caso a quel dialogo. Ero seduto accanto a quella coppia, e quando capii di
cosa stavano parlando origliai volutamente. Poi a tarda notte rientrato a
casa, colpa di quella smania che mi aveva reso nervoso e pensieroso, continuai
a bere. Nel tempo ero diventato uno di quelli che avrebbe voluto vivere senza
fastidi, senza preoccupazioni. Ma finché si è vivi, bisogna mettere in conto
che ti succedono cose che non vorresti. Cose che ti colgono di sorpresa, e ti
lasciano ammutolito e lacerato. Nessuno sa cosa ne sarà di noi. Mi alzai alle
prime luci dell’alba e spensi la radio che era rimasta accesa, poi andai in
bagno a vomitare. Invecchiando anche l’alcool mi dava problemi. Faceva cumulo
con quelle crepe che continuavano ad aprirsi dentro di me. Così quell’onda
gelida che spesso mi assale, fece la sua comparsa nel primo sole del mattino.
Continuavo a non capire come avevo fatto a bruciare quel poco di talento, che
in fondo pensavo di avere. Ero andato alla deriva naufragando lentamente, senza
metterci nemmeno troppa fatica. Ma non era il momento di fare inventari e
riposi sul giradischi Take No Prisoners, un doppio live di Lou Reed
registrato al Bottom Line di New York,
nel 1978. Un disco pieno di rabbia e caos. Musica splendida e
travolgente, libera di andare dove gli pare. Un Lou Reed austero, acido, iconoclasta, che canta canzoni ombrose,
abbigliate con nuovi travestimenti. Impregnate dall’odore di cera e plastica
bruciata, e da un dolore pungente, che non va mai via. Questo disco traccia un
nuovo ritratto della sua complessa personalità. Alle volte sembra di essere
precipitati dentro un night club, altre in mezzo a gente che sotto palpebre
cadenti, ha occhi maligni. La sua voce echeggia il cupo della miseria
metropolitana, degli sguardi stinti, che spariscono sotto nuvole di fumo. Di
tossici che la notte insegue con occhi inceneriti. E di quella bambina preda
del buio che in pantaloncini corti e maglietta scollata sulla schiena, cerca
quello che è rimasto di lei. Solo guardando in basso si scopre la verità, il
reale significato della vita. E il male per Lou Reed resta sempre fuori dalla luce del sole. Per farla
breve ho il morale a terra. Ma mi comporto come una persona normale. Vado a
lavoro, parlo, ascolto. Voglio continuare a dare agli altri, l’impressione di
essere perfettamente integrato. Ma è vero il contrario. Mi sento sommerso sotto
tonnellate di pioggia. Annaspo e vaneggio, mentre mi dirigo verso il nulla.
Avendo in qualche modo imparato a riconoscere le bugie, non mi fa più neanche
tanto male. E poi ho sempre i miei dischi e alcuni libri, come ancore di
salvataggio. Ricorda che la città è un posto
divertente. Qualcosa come un circo o una fogna. E adesso, la città è una fogna
per me, tesoro. (Coney Island Baby) I segni delle
sconfitte alle volte non vanno mai via. Facciamo finta di non saperlo ma
andiamo tutti quanti verso gli stessi posti, facciamo le stesse cose, che
qualcuno prima di noi ha già fatto. E allora perché spargiamo tutto questo
dolore? Perché non ci meravigliamo più di nulla? Ce ne restiamo avvinghiati a
quelle cose che ci hanno scaldato il cuore. Canzoni, poesie, e amori che ci
hanno ferito profondamente, lasciandoci attoniti con la testa sul cuscino.
Sembra strano ma quando eravamo deboli, eravamo forti. Poi abbiamo trovato la
nostra ragione d'essere, e allora giù a bere un altro bicchiere, per celebrare
il nostro decadimento. Abbiamo cercato di tenere tutto il piacere del mondo
stretto nella morsa delle nostre dita, di approfittarne in quei giorni quando
il presente, il futuro, il passato, non erano niente. E a quelle parole che
rotolavano dentro di noi, gli siamo andati contro, le abbiamo sfilacciate,
ammucchiate, e nella notte dato fuoco. Mentre c'incendiavamo di musica. Fin
quando stremati lo abbiamo confessato all'alba di un giorno qualunque, a questo
stupido mondo, che era proprio quello che stavamo cercando. Quel qualcosa che
ci meravigliasse un po'. E' di artisti che ha bisogno il mondo, perché in loro
sopravvivono le nostre paure e la nostra beatitudine. Ma come sempre gettiamo
tutto noi uomini, con il nostro sonnecchiare sprecone. Schiviamo tutto noi
uomini, con la nostra arroganza. Sparpagliati come stelle nel cielo corriamo
nella notte, cercando di scimmiottare i nostri eroi. Ma siamo uomini soli. Un
po' come i cani. Teneri e fedeli. La vita è piena di delusioni, di sogni
rancidi, di profili sbiaditi, di amori fasulli, di merda e morte. Ma tutto
sommato la speranza non costa nulla. Anche quella di diventare ricchi e famosi,
non costa nulla. Gli Spirit suonavano musica davvero difficile da
etichettare. Erano tra i pochi a sapere mescolare il pop, (uno dei più grandi
riff rock rimane la loro I Got A Line On You) con spunti jazzistici,
musica psichedelica e limpide armonie vocali. Musicisti eccelsi, impeccabili,
ma non per questo privi di cuore. Ed
Cassidy aveva suonato la batteria con Thelonious
Monk, Gerry Mulligan, Art Pepper, Cannonball Adderley. Quando a Los Angeles incontra Randy California, un chitarrista
fantasioso e originale che aveva accompagnato Hendrix e Jimmy James The
Blue Flames, insieme a Mark Andes,
John Locke e Jay Ferguson, danno vita a uno dei gruppi più atipici della scena
rock americana. The Family That Plays Together venne fuori nel dicembre
del 1968, e conteneva sette canzoni
che suonano ancora misteriose e inquietanti, ambigue e tenebrose. Ma anche
oniriche e rilassanti. Riuscendo ad aprirsi un varco in quei frammenti di luce
che in un modo o nell’altro, ci tengono vivi. Alle volte non riesci a respirare
e quel morso che ti attanaglia, non si placa in alcun modo. Nella strada una
voce roca e profonda, fece oscillare gli ascoltatori. Con gli occhi chiusi David Johansen sta cantando Somebody Buy Me A
Drink. Dopo una carriera da
rocker di razza (il suo Live It Up è uno dei più grandi dischi dal vivo
di musica rock) e aver mutato pelle diventando l’intrattenitore Buster
Poindexter, nell’anno duemila registra insieme al suo gruppo gli Harry Smiths (dal nome del fautore
dell’Anthology Of American Music) un
omaggio al blues, la musica con cui è cresciuto nelle strade nel Bronx. Un
viaggio nel fango del Mississippi fumando a testa bassa, e cantando canzoni
impregnate del sudore di tutti quelli che sono fuggiti su strade polverose, con
il demonio alle calcagna. Canzoni che azzardano e si stagliano fiere
all’orizzonte, dove un bagliore le illumina di passione. Blues selvaggi per
cuori impavidi, cantati da una voce piena di pathos e ruggine. Anche se uno fa
finta di niente s’impara tutto da piccoli, quando si è deboli e insicuri.
David si fermò ansimando come un cane. In quel grande vuoto poteva anche
marcire di malinconia. E allora si mise a canticchiare Sunny. Quella
canzone lo faceva sentire meglio. Il suo cuore riprese lentamente a battere. La
musica lo ripuliva, e quel sogno era come un’ambulanza che lo soccorreva. Così
riprese a camminare a testa alta, con il passo di chi non ha più paura. “E
musica che potete sentire in ogni luogo, alla radio, nelle strade, blues, soul,
country, rock, musica religiosa e suoni del traffico, della folla, della strada
e dei prati, il suono del silenzio della gente”. Questo scriveva
il chitarrista Mike Bloomfield nelle
note di copertina di A Long Time Comin’
l’album d’esordio targato 1968,
degli Electric Flag. Con Michael c’è
anche il vecchio amico Nick Gravenites,
Buddy Miles, Barry Goldberg, e Harvey
Brooks. Una sezione di fiati completa l’ensemble, per un progetto
stilistico ambizioso. La band è davvero esplosiva, soprattutto dal vivo. Si
esibiscono con buon successo al festival di Monterey, e partecipano alla colonna
sonora del film The Trip. Ma in
studio forse per colpa di certi arrangiamenti, non riescono a essere
convincenti. Sicuramente Bloomfield
è l’esatto opposto di una rockstar. Un uomo stracarico di tormenti interiori.
Un carattere schivo e taciturno, che lo mette in difficoltà a stare sotto le
luci della ribalta. Soffre anche di una grave forma d’insonnia, tanto che
comincia a farsi di eroina. Prima di formare gli Eletric Flag tra il 1964 e il 1965, suona in studio con Bob Dylan in Highway 61 Revisited. In
seguito farà parte della Butterfield
Blues Band, e dopo aver accompagnato per un pezzo di strada Eddie Vinson, forma i Flag. A Long Time Comin rappresenta uno
spaccato di quell’epoca del rock, quand’era più facile tuffarsi su qualche
strada, e dare gas ai propri sogni. Ci sono dentro queste canzoni i frastuoni
ossessivi della città del vento, e i suoi rumori. E anche i miei giorni
innocenti. La musica è condivisione. E’ come una buona bottiglia di vino, del
buon cibo, una scopata coi fiocchi. Cose che vanno godute fino in fondo. Non
riesco a farmela passare però quest’angoscia, che mi fa sentire un relitto. Non
posso pensarci a come sarà stato. A come si saranno sentiti quei ragazzi al Bataclan, mentre gli sparavano addosso.
Mi ha cambiato per sempre quella notte, quel rantolo d’umanità che serbavo me
l’ha portato via. Penso a tutte le occasioni che si sono persi, alle cose che
non riusciranno a fare, perché qualcuno in nome di non si sa che cosa, si è
preso il loro tempo. Una volta la terra è stata un paradiso terrestre.
Sono rimasto avvolto nel buio mentre aspettavo i primi raggi del sole. La mia
cucina è in miniatura e dà su un piccolo cortiletto sporco e pieno di vecchie
cose arrugginite, accatastate l’una sull’altra. Un motore diesel, dei copertoni, un manubrio. Fusti di latta, scatole
di polistirolo, sopramobili, un portacenere di marmo, un quadretto con foto in
bianco e nero. Ferri da stiro, un campanello elettrico, caraffe di legno, quel
che resta di una macchina per cucire, un paraurti, delle scatolette di cibo per
gatti. Un ventilatore a colonna, un saldatore elettrico, un rullo per pittura,
mazze da carpentiere, uno scappello a punta. Un cane arrotolato su se stesso,
dorme sempre a ridosso di quella catasta. Nella tromba delle scale del
palazzo, da ragazzo giocavo a carte, bevendo succo di pera mischiato a gin.
Presi una birra e accesi lo stereo. Con mio fratello da bambini, giocavamo ad
ammazzare gli scarafaggi che passavano sul davanzale del balcone della cucina.
Un pomeriggio né contai più di cinquanta. Ero cresciuto in quel quartiere dove
conoscevo tutti, e in qualche modo in quel luogo mi sentivo al sicuro. Ma nel
tempo molte cose sono cambiate. Molti luoghi della mia memoria sono spariti,
per fare spazio a brutti palazzi, e a inutili centri commerciali che stanno
sterminando tutto il mio passato. Alle prime note di God Bless The Child, alzai il volume dello stereo. Aveva sempre uno
strano effetto quella canzone su di me. Rimasi a guardare fuori dalla finestra
la strada che si faceva buia. Quando la musica terminò, stappai la birra e mi
sedetti sul bordo del letto. Dopo mi distesi e mi addormentai di colpo. Certo
che non sarebbe male se ci fosse qualcosa che ci facesse distinguere da subito,
i buoni dai cattivi. Ma alle volte basterebbe guardarle da vicino le cose,
per vederle. Il mio quartiere è abitato da operai, gente umile, alla buona. Fin
da piccolo ho imparato frequentando quelle strade, che c’erano solo due modi
per cavarsela nella vita. O ci penetravi inzuppandoti fino alla testa, col
rischio di soffocare, oppure era meglio risalire il fiume spingendo lentamente
la canoa, in modo tale da potere vedere i giorni che passano. Lo avevano
svenduto in nome del progresso il quartiere, quei fantocci dei politici. I
piccoli negozi avevano chiuso, ed erano arrivati i cinesi ad arraffare tutto
quello che potevano, per aprire i loro punti vendita e riempirli del loro
ciarpame. Ma la sera al bar da Gino, arriva ancora gente di ogni risma.
Musicisti, pittori, scrittori, mattoidi, ubriaconi, malviventi, truffatori, e
borsaioli. Randagi e qualche depresso. Adesso c’è anche un gruppo
d’intellettuali che ci fa base. Molti però non ci vanno più perché tra un
bicchiere e un altro, questi fighetti del sapere, con quell’aria del cazzo che
si ritrovano, sembra che li canzonano. Non so perché ma mi ricordano tanto quei
finti sovversivi degli anni settanta, oggi ricchi e famosi, alla corte del
potere politico-televisivo. Grandi facce di merda. La vecchiaia avanza
prendendomi per il culo. Anzi ci prendiamo a vicenda per il culo, tanto per
spassarcela un po’. L’altra volta ho infranto la mia pigrizia, e sono andato al
bar per incontrare qualche vecchio amico. L’atmosfera era malinconica, come una
ballata dei Tindersticks. Sono
tornato a casa molto presto. Al ritorno un marocchino si è avvicinato per
vendermi qualcosa. Per la prima volta in vita mia l’ho scansato. Lui mi ha
guardato e ha scosso la testa. Avrà pensato ma cosa ho fatto? E ha continuato a
guardarmi, fin quando non ho girato l’angolo. Quando sono rientrato a casa
accovacciato sul divano, mi sono chiesto a che punto ero con la mia
intolleranza. C’è stato un tempo in cui la terra promessa per il rock era la
Francia. Parigi ha accolto tutti quei bastardi che il music business cacciava a
pedate. Accadeva nel 1980 quando il
punk la più grande rivoluzione culturale di massa, si stava spegnendo sotto le
grandi luci del mondo, e i due amici Patrick
Mathé e Louis Thevenon gestori del negozio di dischi Music Box,
e della piccola etichetta Flamingo Records, decidono di trasformarsi in New
Rose Records, etichetta che prese il nome da una canzone dei Damned.
Tra nuove band e gruppi musicali francesi la New Rose, ha dato
un’opportunità a questi fuggitivi del rock: Willie Alexander, Alex Chilton,
Sky Saxon, Roky Erickson, The Real Kids, Charlie Feathers, Tav Falco, True
West, Calvin Russell, Gun Club, Dead Kennedys, Cramps, Green On Red, Giant
Sand, The Primevals, Alejandro Escovedo, Bo Diddley, Alvin Lee, Robert Gordon,
Elliott Murphy The Slickee Boys, Paul Roland, Dr Feelgood, That Petrol Emotion,
The Chesterfield Kings, Maureen Tucker, The Inmates, Percy Sledge, Johnny
Thunders l’anima maledetta delle New York Dolls, e molti altri
ancora. Stamattina mi sono alzato e fuori pioveva. La pioggia picchettava
sulla veranda noiosamente. Me li ricordo bene quei giorni quando anch’io volevo
tutto e subito. Con gli anni però ho dovuto imparare ad avere pazienza, a
tessere la tela, ad aspettare il momento propizio. Ma non vado orgoglioso di
questo. Perché le cose più belle sono quelle che hai lasciato scritto da
qualche parte, sul muro dei ricordi. Un caldo e umido pomeriggio di settembre,
io e lei in una piccola stanza d’albergo. La radio accesa che suonava Bermuda
di Rocky Erickson. Abbiamo fatto l’amore con voracità e trasporto,
standocene aggrappati l’uno all’altro come ad uno scoglio. Poi abbiamo dormito
a lungo. Lei aveva diciannove anni, io venti. E’ sempre quello che non
hai previsto che ti mette al tappeto. Il vicolo è
stracolmo di spazzatura, di bottiglie di liquore, e piatti sporchi. Ma anche di
gente che barcolla e cade. Il rock della New
Rose ha i denti macchiati di sangue, e la faccia spigolosa. Il più delle
volte soffre di nausea, e sente il corpo fluttuare. Vaneggia ed è costretto a
mentire, per sfuggire a chiunque voglia ingabbiarlo. Le chitarre ringhiano e
prendono fuoco. Dietro le sbarre di una prigione qualcuno strizza gli occhi, e
con la mano si tocca quel rozzo tatuaggio rammendato sul braccio.
Rock’n’roll Heart c’è scritto. Nient’altro. Non mi piace l’opera e non mi piace il balletto e i film
della nouvelle vogue francese mi urtano be’, sarò stupido, visto che so di non
essere brillante ma dentro di me ho un cuore da rock and roll sì, sì, sì, nel
profondo ho un cuore da rock and roll.
(Lou Reed) E’ tremendo osservare come ce ne sono di cose e persone
smarrite nei ricordi, che non si muovono più. Quando uno invecchia non sa più
chi risvegliare. Ascolti e vai! Sali in cima e scendi, guardi dappertutto. Come
un uccello rapace, ti fiondi sulla preda. Un passo, due passi, adagio, non vedi
nessuno. Bentornate angosce. Si cade a pezzi come rottami. Niente di grave. La
gente sbraita e rompe le palle. Ma siamo tutti tremendamente soli in questo
mondo.
Bartolo Federico
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