Il rock è uno sbuffo di vento, dentro la nebbia. L’innocenza
perduta. Ma soprattutto il coraggio. Quel coraggio di andare fino in fondo alle
cose. Attraversai la stanza e rimasi fermo davanti alla libreria, mi chinai
nella fila sottostante dei dischi e scartabellai le copertine. Trovai degli
spartiti per chitarra infilati in una custodia, e un vecchio disegno, che
ritraeva lo strano profilo di un uomo con un buffo naso. Il vento fece cigolare
le finestre. Mi versai della vodka ghiacciata in un bicchiere a palla, e me ne
stetti assorto seduto sul divano. Bere alle volte migliora la visione delle
cose. Non appena accesi lo stereo A Apolitical Blues s’infilò con
prepotenza dentro la stanza, grattando e fumando, la musica del diavolo. Lo
fece poco prima che quella mezza luna gialla, sparisse dalla mia
visuale. "Be' il mio telefono squilla e mi hanno detto che era
il presidente Mao. Non ditegli niente, non ho voglia di parlarci adesso. Ho il
blues apolitico, il più terribile dei blues" Ci sono posti
perfetti per certo rock’n’roll. Come quegli hotel che sorgono nelle zone
malfamate delle città, che hanno camere con le crepe nel tetto, e porte
fatiscenti. Luoghi abitati da fuggiaschi, alcolisti cronici, attricette,
puttane, spacciatori, e qualche sbirro in cerca d’informazioni. Ma anche da
scrittori e romantici dal cuore gracile, come il Willie Nile dell’esordio(1980)
e di Golden Down(1981), due dei miei
dischi preferiti di sempre. Un songwriter Willie
Nile influenzato da Springsteen
e Tom Waits, che sotto la luna vagabonda
di una New York deserta suona un rock poetico, elettrico e spigoloso. Una luce
nel cielo secco e nero, per quegli angeli vagabondi che girano la notte a vuoto
in cerca di un po’ di calore, di sole, e che al mattino non ricordano mai i
sogni che hanno fatto. Posti perfetti quei motel per far venir fuori canzoni
dure e piene di dubbi, ma anche ballate che parlano di quegli angeli che pur
con gli occhi scivolati all’indietro, non hanno smesso di farsi domande. Across the river, arcoss the bay people
starving, every day nearly naked, pale and wan with crowds of people, looking
on. Hearts and pounding, heads are still as tears begin to fall, I'm dreaming.
(Across The River) Una pioggia
furiosa batteva sui tetti delle case, andai in bagno e con l’acqua gelida mi
lavai la faccia. Dalla finestra osservai il cielo farsi ancora più scuro,
mentre dallo stereo la voce di Lowell
George attaccò Dixie Chichen.
Alle volte certi dischi rispecchiano il tuo stato d’animo, altri ti spingono
verso le tue radici. Con i Little
Feat sono diventato adulto, e ci ho regolato un sacco di conti
interiori. Nei giorni in cui anch’io mi sono alzato al mattino con la gola
raschiata dalle troppe sigarette, e un freddo nelle ossa, che non se ne andava
in nessuna maniera. Ma quelle canzoni sembrano ancora possedere la chiave della
serratura. Non sai mai il perché questo accada ma serpeggiando, sterzando e
stridendo, sanno come arrivare in cima alle scale del tuo cuore. Sailin’ Shoes (1972) e Dixie Chichen(1973)
suonano quel blues&roll maledetto, che ti fa tremare come una foglia nel
buio della notte. Ha con sé quel furibondo richiamo della strada, che con le
sue speranze e i suoi desideri, conficca i suoi speroni nella profondità della
tua anima. Hanno il ritmo dello sferragliare dei treni, e il sapore delle cose
perdute. E’ come se tutto il sangue caldo del Mississippi, scorresse dentro il
corpo di Lowell George. E poi quando arriva Roll Um Easy una di quelle ballate dolenti e drogate di
romanticismo mistico, i falliti del mio stampo sentono di poter riprendere a
sognare. Oh
I am just a vagabond. A drifter on the run. And eloquent profanityIt rolls
right off mq tongue. And I have dined in palaces. Drunk wine with Kings and
Queens. But darlin', oh darlin'. You're the best thing I’ve ever seen.
(Roll Um Easy) Da ricordare anche il doppio album Waiting For Columbus del 1978,
registrato al Rainbow Theatre di Londra. Un album che sta sul podio dei
migliori dischi degli anni settanta, insieme At Fillmore East degli Allman
Brothers Band anno di grazia 1971. Waiting For Columbus è uno di quei
live che se non lo hai mai ascoltato, ti sei davvero perso qualcosa nella vita.
Sul palco i Little Feat suonano da paura, stirando le versioni dei loro
classici in maniera impressionante. Quello che viene fuori è una musica solida,
diretta, e mai troppo innocente, come non lo è mai il blues e la malinconia.
Nonostante tutto questo tesoro musicale Lowell
George, è uno di quei musicisti di cui si parla sempre troppo poco. E non
c’è peggio di un agonia troppo lunga, per finire del tutto dimenticati. Con
l’età che avanza sono diventato debole e vulnerabile, come lo era Lowell George quando devastato dai suoi
vizzi nel 1979, pubblicò quel bellissimo disco solista che è Tank’s, I’ll Eau It Here. Ma si era
spinto davvero oltre Lowell, per
riuscire a venirne fuori integro. Nel maggio di quello stesso anno un attacco
cardiaco si portò via un uomo sincero e vero, un musicista eccellente, un
bambino sperduto nella grande terra desolata del rock’n’roll, che sapeva
scrivere grandi canzoni con gli occhi e il cuore pieni di pioggia, e una
malinconia indelebile cucita nell’anima. E’ una strada faticosa quella del
rock. Non basta avere una voce, o sapere suonare in maniera iperbolica il
proprio strumento. Ci vuole passione, lo splendore di un rigagnolo, la visione
di un risveglio, qualcosa che brucia, che cade a pezzi dentro di te. Per
suonare il rock’n’roll ci vogliono uomini pieni di paura, ricoperti di polvere
e fango, che come granelli di sabbia sanno riempire la vita di chi li ascolta.
Il cielo era ancora scuro, e i guai cascano sempre indosso a chi c’è già
dentro. Poi però si trasformano in incubi, che ti perseguitano. Il bassista era
stato in galera, e questo creava dei problemi a quel coglione del manager.
Anche se l’accusa di omicidio era regredita in legittima difesa, non era
bastato a tranquillizzarlo. Per questo quella chiamata d’ingaggio tardava ad
arrivare. Ma nessun componente della band, desiderava prenderne un altro.
Perché quel basso sapeva suonare lacrime e sangue. E questo per un gruppo di
rock’n’roll è qualcosa di magico. Bob bevve del gin e modulò la canzone che
stava provando in tonalità di Re minore. Suonò un accordo di Do, poi un Sol, e
nuovamente un Re minore. Il testo scorreva bene dentro gli accordi. Doveva solo
provare una variazione di note per il ritornello. Né parlò con il sassofonista
che provò quel cambio. La sensazione fu grandiosa. Aveva cominciato a usare la
cocaina per tenersi sveglio. E perché secondo il credo comune di chi la usa, lo
faceva trombare come un indemoniato. E visto che lui voleva scopare a più non
posso, s’ingozzava di roba. Una sera una banale discussione con il suo
spacciatore, era finita in lite. Sembrava che tutto fosse rientrato, invece
quel pusher lo aveva aspettato sotto casa armato di coltello. Era stata solo
una mano iellata, la sua. Non voleva certo ammazzarlo. Ma si era ritrovato in
un colpo solo nella merda fino al collo. Viviamo in un modo dove si adorano le
proprie menzogne. Popolato da gente che sputa su qualsiasi cosa volti loro le
spalle. Un mondo smarrito. Adesso Bob se ne stava fermo in quel caos. Depresso,
incazzato e brillo. Ma la musica come sempre si prendeva tutto, anche quel
mezzo sorriso, e tutti i suoi sogni. Solo la musica lo faceva vibrare, come i
pazzi di Jack Kerouac. Sai che
ho fumato un sacco di erba. Sai che ho spuntato un sacco di pillole. Ma non ho
mai toccato niente che il mio spirito potrebbe uccidere. (Hoyt Axton- The
Pusher) Ci credeva nel potere redentore del rock’n’roll. Era la sua
arma di difesa per arginare quei deliri che alle volte lo opprimevano, fino a
farlo quasi soffocare. Alzò il volume e le casse scricchiolarono. La pazienza è
una cosa che s’impara. La vita ti allena ogni giorno. Ma se si perde
l’entusiasmo, non si va da nessuna parte. Gli era già successo altre volte. Nel
1974 Nick Drake morì per un’overdose di Typatasol un antidepressivo.
Così affermò l’autopsia. Ma forse fu soltanto il suicidio di un ragazzo che
ascoltava silenzioso, il ronzare del giorno. Che guardava il mondo con stupore
e perplessità, con quegli occhi chiari che ormai erano diventate fessure troppo
strette. La depressione è un’arma micidiale. E nella stanza di Nick filtrava da
ogni angolo, pronta a balzargli addosso in qualunque momento. Raccatta una
manica di matti il rock’n’roll. Spudorati che aspettano solo che accada
qualcosa di nuovo, che li faccia sbalordire, confondere, eccitare. E quei loro
occhi tristi, sono celle di luce. Occhi che pungolano e strattonano. Forza e
dolore. Urla nervose in stanze buie. Dove tutti però vogliono vedere che
succede. I Modern Lovers capitanati
da un giovanissimo Jonathan Richman,
erano quattro fanatici ammiratori dei Velvet
Underground e del rock anni 50. Il loro primo disco The Modern Lovers registrato nel 1973 e prodotto da John Cale (che nel 1975 produrrà anche Horses di Patti Smith) vide la luce nel 1976, con etichetta “Home of the Hits”. Era di colore nero
con scritte blu. Roadrunner era la
prima canzone del disco, e suonava senza tregua nel juke-box della boutique di Malcolm McLaren. Fu adottata dal gruppo
dei Sex Pistols prima che il loro
"Never Mind The Bollocks"
con il suo fragore, scompigliasse il mondo del rock. Si sa che la giovinezza è
un lusso è quando si è turbolenti e colmi di talento come quei ragazzi, può
capitare di tutto. Col senno del poi converrebbe a tutti noi, giocarselo meglio
quel tratto di vita. Nel 1974 i Modern Lovers non esistevano più, si erano già
sciolti come neve al sole. Per i soliti motivi per cui litiga una rock’n’roll
band. Così quando nel 1976 quel vinile arrivò nei negozi di dischi tutti gli
elementi della band erano già impegnati su nuove strade, con altri sogni sotto
il cappello. Jerry Harrison si era
trasferito nei Talking Heads, David Robinson aveva formato i Cars, Ernie Brooks sbarcava il lunario suonando nelle band di David Johansen, ed Elliott Murphy. Nel 1973 Jonathan
Richman e i suoi amici giocando a fare le stelle, scivolarono e svanirono
per sempre nel dimenticatoio. Ma quando si è giovani si è troppo distratti,
ingenui, e coglioni. E non si sa che le cose possono cambiare bruscamente, in
modo repentino e irrecuperabile. In quel periodo se accendevi la radio e giravi
la manopola, potevi sentire gente come i Doors,
gli Stones, Hendrix, The Who, Stooges, New York Dools, Lou Reed. Poesia e rock
messi insieme. Tutti vogliono aver successo con la propria arte. Pure i Moden Lovers che suonavano canzoni
torbide, anfetaminiche, spiazzanti e convulse, che alle volte ruotavano anche
su un solo assillante accordo, cercavano la popolarità. Ma con canzoni che ti
fanno barcollare e cadere verso l’ignoto, avvolte dentro atmosfere che tinteggiano
la mediocrità della vita, non si va lontano. Ma fu per quel suono rudimentale,
noir e disadorno, che negli anni a venire Jonathan Richman e i Modern Lovers,
diventano fonte d’ispirazione per una miriade di band che attraverseranno i
sotterranei del rock. Dalle Violent
Femmes, ai Feelies, passando per
i Minutemen, Pavement, Sonic Youth, Died
Pretty, Jazz Butcher, Sebadoh, Gang Of Four, Pere Ubu, e molti altri
ancora. Tutti loro devono qualcosa a Jonathan
Richman, se non altro perché questo ragazzo si è sempre rifiutato di fare
parte di quel sistema usa e getta, caro all’industria discografica. Troppo duro
e puro per diventare un mostro di cartapesta da adorare. La mia abitazione è
situata in periferia, a nord della città. Una casa piccola e modesta, che i
miei genitori hanno comprato con grandissimi sacrifici. Il giorno del mio
quattordicesimo compleanno, mio padre firmò il contratto. E per la prima volta
in vita sua delle cambiali, che non lo fecero più dormire la notte. Anche se le
finestre e le facciate degli edifici limitrofi erano ancora tutti da dipingere,
e fuori dai terrazzini c’erano appesi stracci, camicie stinte, pantaloni fuori
moda, lenzuola, tovaglie da tavola, e bavette per bambini, quella fu una vera e
propria svolta per la mia famiglia. Nessuno poteva mandarci via da quella casa, com’era successo altre volte. Un edificio abitato da gente comune, dalla
vita anonima. Quando da ragazzo salivo le scale del palazzo, potevo sentire
l’odore del cibo spandersi nei pianerottoli, le grida dei bambini, e le urla
disperate delle loro mamme. Un trambusto continuo a qualsiasi ora del giorno.
Adesso che è l’una di notte, e le luci nelle case del quartiere sono tutte spente,
sdraiato sul letto ascolto in cuffia “I
Wanna Sleep In Yours Arms”. Poi quando le cuffie hanno cominciato a darmi
fastidio, me le sono tolte rimanendo a scrutare il vuoto. Fuori dalla finestra
vedo solo un buco nero, come il mio cuore. Senza volerlo in un giorno
qualunque, è andato tutto a puttane.
Nell’anno 1976, Keith Relf cantante
e fondatore del gruppo degli Yardbirds, è morto fulminato dalla corrente,
mentre provava a casa sua una nuova chitarra elettrica. Tommy Bolin chitarrista
che aveva sostituito Ritch Blackmore nei Deep Purple, moriva all’Hotel Newport
di Miami in Florida, poco dopo un concerto. La causa è da addebitare a un
cocktail di droghe e alcool. Aveva 25 anni.
Anche se ci sentiamo come un guscio silenzioso e vuoto, quello è il momento in cui bisogna parlare con l’anima. È l’anima non è responsabile di nulla. La musica serve per comunicare. Il rock’n’roll è nato per questo. Per fare incontrare tutti quei disadattati che girano solitari per il mondo. È per loro che si è messo a nudo e ha manifestato la sua rabbia, la sua integrità, la sua passione, la sua fragilità. Il rock appartiene alla gente. È l’ancora di salvezza, prima del possibile naufragio. Dobbiamo liberarci di tutte queste etichette che gli mettono sopra, e anche di certi pseudo musicisti, che si credono intelligenti e visionari. Squallidi figuri. È pericoloso non meravigliarsi più di nulla. Dobbiamo continuare a fare resistenza. La musica è tutto quello che ci resta. La nostra energia vitale. Se non altro lei non ti giudica mai. La musica deve continuare a viaggiare, infettarsi, mescolarsi, e ricordarci che chiunque può salire su un palco, se ha qualcosa da dire. Chiunque. Mentre il frigo rumoreggia, posso contare su quelle cose che ho conservato nella nebbia e nel silenzio di me stesso. Le ho custodite per quei momenti in cui non voglio essere visto da nessuno. I tempi cambiano ma non sono sicuro neanche di questo. Patti Smith vide i Television esibirsi il 3 febbraio 1974 al Townhouse Theatre di New York, e definì quell’esperienza indimenticabile. Il loro disco d’esordio Marquee Moon del 1977 è un album introspettivo e inquieto. Un manifesto di quegli anni in cui la musica perlustrava altre strade, e nessuno cercava di soffocarla. Raccoglie dentro di se l’anima di quelli che sono fuggiti lungo tragitti secondari con il cuore pulsante, e le mani tremanti. Hanno un’aria matura queste canzoni, come se qualcosa di perfetto fosse sceso all’improvviso su questa terra. Qualcosa che è rimasta per sempre anche quando la luce si è spenta. Musica suonata per sottrazione, ossuta ed efficace. Non ci sono fronzoli, assoli riempitivi, e pose da star. E la musica non si perde mai dentro se stessa. Avevo solo quattordici anni allora, ma dischi così belli non ne ho più sentito. Sto pensando troppo e sono così confuso cantava Jonathan Richman nel 1998, in un album prodotto da Rick Ocasek dei Cars.
Anche se ci sentiamo come un guscio silenzioso e vuoto, quello è il momento in cui bisogna parlare con l’anima. È l’anima non è responsabile di nulla. La musica serve per comunicare. Il rock’n’roll è nato per questo. Per fare incontrare tutti quei disadattati che girano solitari per il mondo. È per loro che si è messo a nudo e ha manifestato la sua rabbia, la sua integrità, la sua passione, la sua fragilità. Il rock appartiene alla gente. È l’ancora di salvezza, prima del possibile naufragio. Dobbiamo liberarci di tutte queste etichette che gli mettono sopra, e anche di certi pseudo musicisti, che si credono intelligenti e visionari. Squallidi figuri. È pericoloso non meravigliarsi più di nulla. Dobbiamo continuare a fare resistenza. La musica è tutto quello che ci resta. La nostra energia vitale. Se non altro lei non ti giudica mai. La musica deve continuare a viaggiare, infettarsi, mescolarsi, e ricordarci che chiunque può salire su un palco, se ha qualcosa da dire. Chiunque. Mentre il frigo rumoreggia, posso contare su quelle cose che ho conservato nella nebbia e nel silenzio di me stesso. Le ho custodite per quei momenti in cui non voglio essere visto da nessuno. I tempi cambiano ma non sono sicuro neanche di questo. Patti Smith vide i Television esibirsi il 3 febbraio 1974 al Townhouse Theatre di New York, e definì quell’esperienza indimenticabile. Il loro disco d’esordio Marquee Moon del 1977 è un album introspettivo e inquieto. Un manifesto di quegli anni in cui la musica perlustrava altre strade, e nessuno cercava di soffocarla. Raccoglie dentro di se l’anima di quelli che sono fuggiti lungo tragitti secondari con il cuore pulsante, e le mani tremanti. Hanno un’aria matura queste canzoni, come se qualcosa di perfetto fosse sceso all’improvviso su questa terra. Qualcosa che è rimasta per sempre anche quando la luce si è spenta. Musica suonata per sottrazione, ossuta ed efficace. Non ci sono fronzoli, assoli riempitivi, e pose da star. E la musica non si perde mai dentro se stessa. Avevo solo quattordici anni allora, ma dischi così belli non ne ho più sentito. Sto pensando troppo e sono così confuso cantava Jonathan Richman nel 1998, in un album prodotto da Rick Ocasek dei Cars.
Siamo stati troppo accondiscendenti con chi tiene le redini del
gioco. Ci siamo fatti infinocchiare dalle loro bugie, per poi sentirci soli di
fronte alle nostre piccole verità. Tutti vogliono fare soldi, anche con il
rock’n’roll, potete crederci. E come una vecchia troia lui batte il tempo, solo
per il bisogno di sorprenderci, di salvarsi, e di andare contro qualsiasi
discriminazione. La musica deve rimanere libera di brancolare nel buio, di
contorcersi, perdere l’equilibrio, cadere e rialzarsi. Il rock deve continuare
a sopravvivere. In un modo o nell’altro. Quando mi svegliai la luce fuori era
ancora grigia, e la stanza silenziosa. Il mio cane mi ha visto muovermi e
battendo la coda si è avvicinato, leccandomi il viso. Mi sono alzato e ho messo
la caffettiera sul fuoco. Dopo ho acceso lo stereo, e ho fatto partire una
canzone che mi era tornata in mente nella notte. Frankie Teardrops dei Suicide.
Dalla finestra adesso entrava un pallidissimo sole. Frankie lacrimevole.
Frankie ventenne. È sposato e ha un bambino.
E
ha un lavoro in una fabbrica.
Lavora
dalle sette alle cinque.
Lo
fa per sopravvivere. Beh, bravo Frankie
Frankie Frankie.
Ma
Frankie non ce la fa
,
perché la situazione sta facendosi troppo dura.
Frankie non riesce a fare abbastanza soldi. Non riesce a comprare
abbastanza cibo.
E
Frankie sta per essere sfrattato. Oh, bravo Frankie
Oh,
Frankie, Frankie
Oh, Frankie, Frankie
Frankie
è così disperato. Sta per uccidere sua moglie e i suoi figli.
Frankie
sta per uccidere suo figlio.
Frankie
ha impugnato una pistola.
L'ha puntata verso il bambino di sei mesi nella culla.
Oh
Frankie
(urla)
Frankie sta guardando sua moglie. Le ha sparato
(urla)"Oh
cosa ho fatto? "
Bravo
Frankie Frankie lacrimevole.
Frankie
si è puntato la pistola alla testa.
(urla).
Frankie è morto. (urla). Frankie giace all’inferno. (urla). Siamo tutti
Frankie. Giacciamo tutti all’inferno. (urla)
S’incontrarono a New York nel 1971 al Project un locale d’avanguardia culturale, Alan Vega e Martin Rev. Il primo è uno scultore, il secondo un musicista jazz. Il rock’n’roll che è musica che abbatte ogni barriera, fece il miracolo di metterli insieme. Volevano fare una rivoluzione quei due, mettere gli uni di fronte agli altri. Cantavano la paura della guerra, le psicosi della vita quotidiana, le nevrosi, e la rabbia. Con un sintetizzatore, un piano, e un organo suonati da Rev, e il canto spettrale e schizzato di Vega. Il duo esordisce nel 1977 con un disco che è il più triste dei dischi punk di quel periodo. Frankie Teardrops è una sorta di Sister Ray dei Velvet Underground, un pezzo angosciante che parla di un operaio che spara alla moglie e al suo bambino, prima di uccidersi. Finalmente la “pop art” guardava la classe operaia, e quelli che avrebbero voluto una vita meno domestica. Gente pronta a scappare da qualunque parte del mondo, se non avesse avuto una fifa da morire. Senza chitarra e batteria quest’esordio resta a mio parere il più futuristico, il più folle, dei dischi, che ho sentito e amato. La vita è come un frammento di luce che finisce per oscurarsi in fondo alla notte. E questa vita in qualche modo, c’è la stanno rapinando con un tempo triste, che fa disgusto, anche a starsene fuori a trotterellare per strada. Sembra una lenta agonia. Ma non si può continuare a giocare con le carte degli altri, perché sono sempre truccate. Bisogna trovare un modo per sopravvivere. Dobbiamo cominciare a dare peso alla nostra esistenza. Ci sono cose cui solo noi possiamo rispondere. Bisogna ricominciare a cercare quella luce. Bisogna ricominciare a sognare. In un modo o nell’altro.
S’incontrarono a New York nel 1971 al Project un locale d’avanguardia culturale, Alan Vega e Martin Rev. Il primo è uno scultore, il secondo un musicista jazz. Il rock’n’roll che è musica che abbatte ogni barriera, fece il miracolo di metterli insieme. Volevano fare una rivoluzione quei due, mettere gli uni di fronte agli altri. Cantavano la paura della guerra, le psicosi della vita quotidiana, le nevrosi, e la rabbia. Con un sintetizzatore, un piano, e un organo suonati da Rev, e il canto spettrale e schizzato di Vega. Il duo esordisce nel 1977 con un disco che è il più triste dei dischi punk di quel periodo. Frankie Teardrops è una sorta di Sister Ray dei Velvet Underground, un pezzo angosciante che parla di un operaio che spara alla moglie e al suo bambino, prima di uccidersi. Finalmente la “pop art” guardava la classe operaia, e quelli che avrebbero voluto una vita meno domestica. Gente pronta a scappare da qualunque parte del mondo, se non avesse avuto una fifa da morire. Senza chitarra e batteria quest’esordio resta a mio parere il più futuristico, il più folle, dei dischi, che ho sentito e amato. La vita è come un frammento di luce che finisce per oscurarsi in fondo alla notte. E questa vita in qualche modo, c’è la stanno rapinando con un tempo triste, che fa disgusto, anche a starsene fuori a trotterellare per strada. Sembra una lenta agonia. Ma non si può continuare a giocare con le carte degli altri, perché sono sempre truccate. Bisogna trovare un modo per sopravvivere. Dobbiamo cominciare a dare peso alla nostra esistenza. Ci sono cose cui solo noi possiamo rispondere. Bisogna ricominciare a cercare quella luce. Bisogna ricominciare a sognare. In un modo o nell’altro.
Bartolo Federico
Non occorre alcun commento. Basta solo leggere quello che proponi e col sottofondo giusto (Willie Nile d'annata). Colgo l'occasione per inviarti sentiti e fraterni auguri di Buon Natale e di un fine anno di pace e serenità.
RispondiEliminaGrazie Gaetano, per il tuo apprezzamento. Auguri anche a te, un abbraccio di cuore.
RispondiElimina..bisogna ricominciare a sognare..già.
RispondiEliminaCarissimi auguri di buone feste!
Ciao Hyde,è sempre più dura la vita. Almeno per alcuni. Un abbraccio.
RispondiEliminasi, è vero...
EliminaIo non ho mai smesso di sognare anche se è sempre più dura . Auguro a tutti che questo periodo di festa sia pieno di cose che vi piace fare , ciao
Eliminaun abbraccio affettuoso, anche a te. ciao Anto.
RispondiElimina