Il giorno con il passare delle ore si era fatto sempre più caldo.
Cercavo di starmene tranquillo seduto su quella veranda da dove potevo
osservare il mare. Rimisi il libro sul tavolino e rientrai in casa, stappai una
birra e sistemai un disco sul piatto dello stereo. Glamour Girl di T-Bone
Walker mi esaminò con attenzione, mentre guardavo gli ultimi raggi di sole
pieghettare le onde. Il mare era piatto e lucido e non c’era un alito di vento.
La notte stava giungendo e tutte quelle stelle sparse nel cielo dicevano che era
quasi estate. Anche se stavo attraversando un momento difficile, mi ripetevo
che non dovevo farmi prendere la mano, che quei sogni strani che mi scuotevano
e mi turbavano fin nel profondo sarebbero andati via, prima o poi. Come ogni
cosa. Era da mesi che durante il sonno mi svegliavo di continuo e, quando non
riuscivo a riaddormentarmi, aspettavo con gli occhi sbarrati l’alba. Quella
notte, però, aveva ringhiato da subito le sue intenzioni e continuò a
tormentami la mente. Non c’è la feci più a rivoltarmi tra le lenzuola, mi
alzai, infilai le ciabatte blu, la camicia di jeans, e andai in cucina. Tirai
fuori dal frigo la bottiglia del latte, ne versai un bicchiere abbondante, ci
misi dentro due cucchiaini di zucchero e mi accomodai sulla veranda. Era una
notte strana, impregnata d’immagini chiare e inumidita da bagliori solitari.
Guardai per un pezzo il mare e il cielo, e anche quella luna che sembrava
arrivata lì per caso. Era come un urlo quel brandello di memoria che non voleva
andar via. Di fronte a me avevo case scolorite dal sole e dalla penombra, e
c’era poca gente intorno. Soffiava una leggera brezza, afferrai la Martin piena
di cicatrici che era appoggiata sul muro del terrazzino, e strimpellai. A volte sei felice. A volte piangi. Metà
di me è come l’oceano e metà è cielo. Tu hai un cuore davvero grande che
potrebbe schiacciare questa città. Ed io non posso arrendermi sempre. Tutti i
muri cadono. Talune cose sono già finite. Altre cose vanno avanti. Tu porti una
parte di me, una parte è già andata via. (Walls - Tom Petty) Le cose accadono e il mondo continua ad
andare avanti, che tu lo voglia o meno. Tanto vale prendere la vita con
distacco. Non avevo programmi a breve termine, ma non serviva farne. Mi ero
rintanato in quella casetta che mi avevano lasciato i miei genitori e che fino
ad ieri non avevo mai sfruttato a dovere. Ma volevo fare tabula rasa di
molte cose e quello era di sicuro il luogo più adatto. Il “simpatico
contafrottole” questo è più o meno il significato in slang del nome Bo
Diddley è uno di quei personaggi che ha seminato molto ottenendo il minimo
sindacale. Di lui non si ricorda quasi mai nessuno, perfino i testi di musica
lo bistrattano e lo liquidano frettolosamente. Come fosse una rogna.
Probabilmente paga per avere cambiato spesso panni e identità musicale, e non
si sa come catalogarlo. Ma, questo è certo, la storia del rock senza le sue
canzoni avrebbe avuto un altro corso. E tra il 1955 e il 1962 che Ellas
McDaniel in arte Bo Diddley, nome impostogli da Leonard Chess quando
incise il suo primo 45 giri, scrive tutti i suoi capolavori caratterizzati da
un ritmo primitivo, ma anche brutalmente gioioso. I’m a Man, Road Runner, Mona,
Story Of Bo Diddley, Cracking Up, Nursey Rhyme, Diddley Daddy, Who Do You Love
sono canzoni che verranno riprese da Jimi Hendrix, Muddy Waters, John
Fogerty, Rolling Stones, Quicksilver, Doors, e un'altra miriade di artisti.
Il creolo Diddley, nato nel Mississippi nel 1929, fu adottato dalla
famiglia McDaniel all’età di cinque anni. E come è successo a quasi
tutti quelli baciati dal talento, la chitarra che gli fu regalata dalla sorella
quando compì dieci anni la imparò a suonare da solo. E a tredici era già
all’angolo della Langley Avenue con un suo complessino. La mattina
mentre andavo al supermercato notai i tanti bar che avevano aperto nella zona e
le case di legno dei contadini diventate ormai grigie per effetto della
salsedine. Comprai della pasta, uova, biscotti artigianali, del latte, un pacco
triplo di caffè e delle verdure, qualche birra e una bottiglia di vino. Il
J&B lo presi anche ma poi lo riposai nel suo scaffale. Rientrai e mi feci
una doccia, restandomene un bel quarto d’ora seduto sotto una cascata di acqua
tiepida. Mi lavai i denti e mi rasai abbastanza velocemente. Dopo, mentre mi
rivestivo, osservai dalla finestra del salone la spiaggia ancora vuota.
Preparai il caffè, ascoltando una cassetta degli Zeppelin che avevo
registrato anni prima per portarmela in macchina. Polvere e Diamanti lo
avevo chiamato quel nastro, perché a quel tempo avevo l’abitudine di dargli un
titolo, ai miei nastri. Questa è la sequenza dei brani sul lato A: “Travelling
Riverside Blues", “Ramble On”, “Immigrant Song”,” Going To California”,
“When The Levee Breaks”, “The Rain Song”, “Battle Of Evermore”,” Over The Hill
And Far Away”, “Misty Mountain Hop”, “Babe I'm Gonna Leave You”. Dovevo
cercare la regolarità, pensare dei pensieri normali, non potevo seguitare a
essere un disadattato, un cavaliere errante, uno che rincorreva ancora quegli
spiriti furiosi che mi danzavano nella testa. Uscii di casa e feci una lunga
passeggiata sulla spiaggia che tra non molto si sarebbe animata da decine di
famiglie con bambini e ombrellone a seguito. Mal sopportavo l’ipocrisia della
gente e quelli che non si volevano annoiare mai. Conoscevo l’iniquità
dell’animo umano, e la normalità mi aveva fatto sempre paura. I Quicksilver
Messanger Service nacquero per volontà di Dino Valenti, un folk
singer già affermato della bay-area. John Cipollina e Terry Dolan lo
incontrarono nel 1963. Valenti innamorato della musica dei Jefferson
Airplane, Beatles e Grateful Dead, si era stancato di suonare da solo e
stava cercando di mettere su una rock-band. Dal momento che era alla ricerca di
musicisti, quei due tipi davvero bizzarri facevano al caso suo. Dino spiegò
quale era la sua idea al gruppo, che voleva includere anche due ragazze al
tamburino e che si dovevano anche vestire in maniera eccentrica. Stabilirono di
iniziare il giorno dopo. Johnny e Terry si portarono appresso Jimmy Murray e
Gary Duncan, due loro amici. Quando arrivarono, tutto era pronto, gli
strumenti, il manager, la sala. Mentre aspettavano che arrivasse Dino, si
fecero una pasticca di lsd. Dopo una lunga attesa, finalmente, arrivò una
ragazza che disse che Dino era stato arrestato, che lo avevano beccato mentre
fumava marijuana, ma che sarebbe stato rilasciato tra qualche giorno. Passarono
i mesi ma Dino non arrivava, perché era ancora in prigione. Nel frattempo i
ragazzi conobbero David Freiberg, un amico di Valenti, anche lui uscito
da poco di prigione e che suonava la dodici corde in modo eccellente. Ma dal
momento che David voleva suonare il basso dopo varie e animate discussioni fu
accontentato. I Quicksilver erano nati. Dino Valenti uscì dal carcere dopo un anno
e mezzo, ma ormai non c’era più posto nella band. Nel marzo del 1969 esce Happy
Trails. Il disco, eccetto “Maiden Of The Cancer Moon”, è il
risultato di alcune registrazioni live fatte nel 1968 nei due teatri Fillmore
East e West di San Francisco, ed è la prova di quanto fosse emozionante e
travolgente la Quicksilver Messanger Service dal vivo. La prima facciata
è composta da una lunga suite di venticinque minuti che prende spunto da Who
Do You Love di Bo Diddley per poi diventare, strada facendo,
qualcos’altro, in un impasto musicale fantastico. La seconda facciata si apre
con Mona sempre di Bo Diddley e, passando per la strumentale Maiden
Of The Cancer Moon, si finisce con Calvary, un pezzo scritto da Gary
Duncan. C’è di tutto intinto in questo disco, svisate, arpeggi, chitarre
distorte e laceranti, tocchi di acustica e improvvisazione. Un vero autentico
trip sonoro. Uno dei momenti migliori del rock californiano degli anni
sessanta. Stavo cercando di adattarmi alla situazione ma ero sempre animato da
una profonda sfiducia verso il genere umano. Mi sedetti in un bar sotto un
pergolato e ordinai da bere. Dal cestino poggiato sul tavolino presi dei
fazzolettini e mi asciugai il sudore sulla fronte. Mentre aspettavo osservai
dei ragazzini che indisturbati giocavano al videopoker. Il cameriere mi allungò
il bicchier gelato con la vodka alla pesca che mandai giù in un botto, solo per
il gusto di sentirmi le budella bruciare. Non mi andava d’ingannare nessuno, ma
ogni domanda che mi facevo restava senza risposta, e questo non era un buon
modo per andare avanti. Pensieri cupi si accavallarono nella mente mentre
rientravo a casa. Mi fermai sotto una palma ormai morta, perché attaccata dal
punteruolo rosso, un insetto che al suo interno compie tutto il suo ciclo
vitale, e mi accesi una sigaretta. Il nome The Byrds in americano non ha
alcun significato razionale, invece il suono dei Byrds rimane ancora
oggi un mistero. Innovatori, eccentrici, geni, alieni chi lo sa. Forse solo
musicisti. “Se vuoi diventare una stella
del rock&roll, ascolta quello che devo dirti, prendi per un po’ una
chitarra elettrica ed impara a suonarla, e quando i tuoi capelli sono lunghi
abbastanza e hai i blue jeans ben attillati, allora sei a buon punto ed è tempo
che tu vada giù in città dove troverai un agente. Vendi la tua anima alla
compagnia discografica che aspetta di vendere la sua merce di plastica. In una
settimana o due, se c’è la farai, le ragazze ti prenderanno da parte, il prezzo
che tu hai pagato per la tua ricchezza e la tua fama è un gioco strano. Sei un
po’ pazzo, il denaro che ti arriva e l’urlo della folla. Non scordare chi sei:
tu sei una stella del rock & roll.” (So you want to be a rock and roll star) Nell’estate del 1964
Jim McGuinn stava suonando al Troubadour di Los Angeles e si stava
divertendo improvvisando imitazioni delle canzoni dei Beatles. Seduto
tra la folla c’era Gene Clark, un ragazzo apache del Missouri a cui
quell’esibizione fece venir voglia di formare una rock’n’roll band. The Jet
Set, con al basso David Crosby, incisero due brani sulla raccolta Early
L.A., pubblicata dalla casa discografica Elektra. McGuinn, Clark e
Crosby, giusto per affinare l’intesa, si esibirono in qualche locale dove
reclutarono un virtuoso del mandolino, un certo Chris Hillman, e un
batterista alla sua prima esperienza, Michael Clarke. Dopo un periodo in
cui si chiamarono The Beefeaters, il gruppo prese il nome di The
Byrds. Con la produzione di Jim Dickson incisero ai World Pacific Studios l’album Preflyte,
che vedeva composizioni scritte da Clark McGuinn e Crosby. Per la prima volta
una band di rock eseguiva canzoni di musica folk e questo cambiò le cose per
sempre nel rock’n’roll. “Mr Tambourine Man” è il brano di Dylan
che li avrebbe, da lì a breve, catapultati nel mondo delle rockstar. La notte
del 20 agosto 1965 la FM’s di L.A., San Francisco e San Diego iniziarono
a trasmettere le loro canzoni due volte ogni ora. Ho avuto sempre un debole per
Clark, uno che voleva starsene lontano dal caos e che non voleva
essere una rock’n’roll star. La sua Here Without You è una
delle mie canzoni preferite di sempre. Il
giorno serve a farmi sentire solo. Di notte non posso far altro che sognarti.
Ragazza, sei ogni istante nella mia mente. E’ così difficile starmene qui senza
di te. Parole nella mia testa continuano a ripetere quello che hai detto quando
stavo con te. Mi chiedo se sia vero che tu provi le stesse cose. E’ così
difficile, qui, senza di te, stare qui, senza di te.” Il
pomeriggio la strada sterrata vicino casa era inondata da un sole
incredibilmente luminoso. Il ventilatore sul tre piedi ruotava cigolando.
Quando ci stavano i miei genitori era una casa aperta a tutti. Per questo loro
ci tenevano così tanto. Gli era costato molto economicamente, ma ne era valsa
la pena. In tutte le stanze c’era ancora qualcosa che parlava di loro. Quella
notte avevo dormito molto e mi sentivo migliore. Era un pomeriggio caldo e
senza particolari pretese. La vita non mi aveva fabbricato felice. E in
qualche modo sarei sopravvissuto.
Bartolo Federico
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