Quando al mattino mi alzai soffiava un vento gelido di tramontana,
le previsioni del tempo davano un peggioramento nella serata, con vere
bombe di pioggia in arrivo. Dall’armadio tirai fuori il trench nero e la
sciarpetta di seta in fantasia cachemire che era stata di mio nonno, m’infilai gli occhiali e nel momento in cui Frankie Lee Sims aveva cominciato a cantare Raggedy And Dirty, spensi lo stereo dall’interruttore della luce. Una diavoleria escogitata da Sal,
quando ancora frequentava il regno dei vivi. Scesi le scale
dell’appartamento e, una volta in strada insieme a quella nuova
indecifrabile tristezza che da giorni mi aveva imprigionato il cuore,
m’incamminai. Il rumore delle macchine fece presto a prendere il sopravvento sui miei pensieri.
Osservai i passanti infagottati in quegli enormi piumini da neve che
procedevano silenziosi con il viso fasciato da grandi sciarpe di lana, e
mi parevano come spettri. Pensai che la mia casa era davvero così piena
di musica, da potermi considerare quasi come un suo ospite. Il vento
fischiava rude, ma la città pareva la solita. Mi diressi verso l’entrata della metropolitana.
Ci nutriamo di convinzioni banali e misere ma nello stesso tempo
essenziali per tirare avanti… e ci scordiamo di quei brividi che ci
hanno reso la vita un po’ meno amara. Scesi i gradini della metro e afferrai per un soffio il treno della linea A. Ognuno di noi ha le sue rogne ma vallo a sapere quando iniziamo a perdere terreno, e tutto tracolla. Chissà cosa gli era successo a Jeffrey Lee Pierce?
Qual era stata la ferita che non si era più rimarginata e lo aveva
fatto cadere insieme ai suoi demoni, nelle profondità più nere di noi
stessi. Un eroe ribelle e drogato che ha attraversato
la storia del rock, lasciando un segno profondo. Lui più di tanti
funamboli rompicoglioni della sei corde, è da considerarsi un vero uomo di blues. Ma com’è successo per tanti altri rinnegati del rock, dal cuore puro e furibondo, è stato dimenticato in fretta. Sparito per sempre sotto un cumulo di polvere e macerie. Se chiudo gli occhi e come se lo vedessi ancora con quell’aria goffa e smarrita, fermarsi e intonare un paludoso blues di Charley Patton. L’esordio folgorante di “Fire Of Love” (1981) con la sigla The Gun Club, è un disco di canzoni
che hanno dentro quella fiamma che brucia, e che non si placa. Che ti
arrivano come un pugno in pieno viso, perché hanno il piglio della ribellione e dell’anticonformismo. Perfette
per uomini che si sentono soffocati da un mondo che ti afferra e ti
rovescia, sul lato opposto dei tuoi sogni. Zeppe di quel vento ululante
che ti fa ghiacciare il cuore nella notte, e di quel blues ancestrale che ha popolato le strade del Mississippi. Un disco che resta una pietra miliare, e che ebbe la forza di aprire le porte a tanti punk verso la “musica del diavolo”.
Allora il resto del mondo però non contava niente. Il rock mi tranciava
la pelle, l’anima, in quella disperazione mattutina dopo una notte
balorda e disperata. Fu però con “Miami” del 1982 che Lee Pierce conquistò una visibilità più ampia. Un disco notturno e denso di emozioni,
spudorato per quella spontaneità ad esporsi nei suoi sentimenti, senza
alcuna barriera di protezione. Che ad ascoltarlo oggi a distanza di tre
decadi, ti mette paura, tanta è l’intensità di quella sventagliata di rock viscerale, che sorregge il suo canto tormentato e lirico. C’è lo spirito di Hank Williams che aleggia nelle canzoni, mentre Jeffrey si avvicina allo spirito anarchico e medianico di Jim Morrison. Chris Stein è il produttore di questo lavoro un ex membro dei Blondie, gruppo da Jeffrey molto amato per via della cantante Deborah Harry, anche lei qui presente. Chris con la sua produzione tende soprattutto a far risaltare la sua voce, e quel canto sferragliante e infettato di voodoo, fumo e sporco fino al midollo del rock’n’roll selvaggio dei migliori Creedence Clerwatwer Revival. In “Miami” ci sono canzoni di un uomo che nonostante tutto riesce a sopportare ancora il dolore.
Anche se la droga e l’alcool stanno diventando fin troppo importanti
nella sua vita ma, in fondo è la storia che lo insegna, è sempre dai
sobborghi che sono arrivate le star del rock. Disperati, omosessuali, delinquenti, tutti con quel dono magico di avere carisma e talento.
“Don’t let her take her love to town They will never fill her hear. She needs a passion like her fathers used to be I know because I’m like the train shooting down the main line. I know because. I’m the Indian wind along the telegraph lines. She’s like heroin to me. She’s like heroin to me. She’s like heroin to me. She can’t miss a vein” (She’s Like Heroin To Me).
Durante una pausa per le registrazioni del disco Jeffrey si accese uno spinello e si sedette sul divano. Indossava degli logori stivali texani e un jeans sdrucito. Dalla bottiglia di whisky bevve un sorso come solo un dannato sa fare. Quella notte il tempo non faceva presagire nulla di buono. “Pioggia e freddo intenso” avevano recitato quelli del bollettino meteorologico. Quasi una metafora della sua vita. Lui se ne stava in silenzio per quella semplice ragione, ché le parole alle volte non servono a nulla. Nelle sue visioni la vedeva protendersi e chiamarlo. Lo pregava di proteggere il suo ricordo, di difenderlo. Chiuse gli occhi. La vide camminare verso di lui. Voleva stare con lei, ricongiungersi a lei. Dopo un altro lungo sorso afferrò la chitarra e per scaldarsi le dita, suonò una sequenza di accordi. Su quegli stessi accordi ciondolando la testa, intonò una nuova canzone. Tutti i presenti si commossero ad ascoltarlo mentre bisbigliava i versi di Mother Of Earth ancora avvolti dentro una melodia traballante.
“Sono andato giù nel fiume della tristezza Sono andato giù nel fiume del dolore nell’oscurità, li ho sentiti chiamare il mio nome Oh, madre terra. Il vento è caldo, ho provato a fare del mio meglio, ma non riesco. E i miei occhi si sono chiusi su questa grande terra“ (Mother Of Earth).
Era il blues che risuonava dentro di lui, e sarà sempre il blues a tingere di scuro le sue canzoni: anche quando una lap steel s’intrometterà per addolcirne i suoni, sarà sempre il blues demoniaco e disperato della sua anima che tirerà pugni e vagherà per le strade. Quanti colori, note, combinazioni, si possono ottenere da una chitarra? E quante melodie vengono fuori dagli stessi accordi? Ma i blues sono sempre diversi, pure se sembrano uguali. Perché parlano degli esseri umani, e dei loro bisogni. Perché anche i solitari vivono una loro vita, amano e soffrono, anche se non riescono a spiegarlo. Un viaggio quello di Jeffrey colmo di una malinconia indelebile ma, i sentimenti che proviamo sono più potenti delle parole. “Torna da me amore”. “Sono qui, sono stanco di queste lacrime”. Quando sussurra con l’anima sanguinante queste parole abbaiando dentro il microfono, capisci quanto era fragile e vulnerabile. Le sue canzoni risuonano ancora oggi impetuose per quei selvaggi che hanno il diavolo alle spalle, e l’anima incendiata. Ci sono persone la cui vita sembra un lungo tormento. Poi un bel giorno decidono di morire, come se non ci fosse nulla di meglio da fare, niente per cui valga la pena di andare avanti. Anche per mia madre è andata così. Avrei voluto incontrare Jeffrey per potergli dire che nella vita tutti noi bariamo, perché altrimenti non avremmo via d’uscita. Tutti noi c’è ne stiamo ammassati nella stessa barca, logori, ammaccati, trattati senza troppi riguardi. La destinazione è per tutti la stessa. Gli avrei voluto raccontare che le sue canzoni avevano attraversato la mia vita, e che mi avevano dato una speranza. Avrei voluto vedere se la sua espressione del viso sarebbe cambiata, e se si sarebbero increspate le ciglia. Comunque vadano le cose, tutti nessun escluso, abbiamo sempre bisogno di sentire un altro punto di vista. A mia madre però, non ho avuto il coraggio di dirglielo. Quella mattina era il mio giorno libero dal lavoro. A una fermata qualunque del metrò scesi e, camminando senza meta per la città, mi sentivo come un cane che aveva preso troppe botte e non si fidava più di nessuno. Andando in giro mi resi conto che quello che attraversavo era un mondo d’infelici, di gente sconsolata, che aveva paura di tutto. Tutte persone in esubero. La loro scomparsa sarebbe stata solo una semplice, banale formalità. Nelle maggior parte dei negozi, stavano appesi i cartelli con la scritta “Affittasi/Vendesi”. Una donna di mezza età mi chiese dei soldi. Il sole nel cielo era come oscurato da grossi vetri, spessi e scuri. La vita però non ha prezzo. E l’amore dovrebbe vincere sempre. Qualcuno dice che se conosci il nemico, non ti troverai in pericolo. Il fatto è che questo nemico che ci annienta, non lo puoi colpire, non lo puoi distruggere. Davanti al municipio una manifestazione di disoccupati invadeva i marciapiedi, e parte della strada viaria. Gli automobilisti però sembravano comprensivi con quelle persone. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli che ho incrociato, erano spenti e bui. Occhi dove non si scorgeva nulla. Forse servirebbe un vero cambiamento. Una rivoluzione. Ma non sono più così sicuro neanche di questo. Un anziano signore che rovistava tra le cassette della frutta stipate al lato di un cassonetto girò la testa, e adocchiandomi mi disse: “non è che abbia una grande pensione figliolo”. Lo disse mentre il vento agitava gli alberi. È un blues spietato quello in cui ci hanno ficcato quelle teste di cazzo dei nostri governanti. Dei gran figli di puttana. Nessuno escluso. Quando rientrai a casa l’orologio a muro segnava le due e venti del pomeriggio, e mi sentivo affranto per tutto quello che stava accadendo. Alle volte capita che ci ricordiamo di ogni cosa che ci è successa. Guardai a lungo la mia chitarra ma, siccome non riesco più a scrivere una canzone, l’ho lasciata in pace. Le chitarre hanno un cuore grande, sanno sempre come prenderti. Dovrei smettere anche di ascoltare certe canzoni, perché sanno come ferirmi. Accidenti se lo sanno. Alle volte mi chiedo cosa non abbia funzionato in me, e perché ho perso quel treno. Chissà, se ci fossi salito, a quale stazione sarei sceso? Perché alla fine torniamo sempre da dove siamo partiti. È troppo tardi però per crederci ancora. È troppo tardi per i rimpianti, perché ci sono cose che non si possono più fare. E’ vero comunque che le porte più difficili da chiudere, sono quelle che si trovano sul proprio pianerottolo. E’ l’anno 2018 ma niente è cambiato per quelle orde di poveri, che si muovono silenziosi nel mondo. Mangiai poco e di controvoglia, ero di cattivo umore, così negli scaffali dei dischi rintracciai gli X, la banda di John Doe e Exene Cervenka. Mi accesi una sigaretta e mi sedetti sul divano, cercando quantomeno di non ascoltare più me stesso. E’ del 1980 “Los Angeles”, l’album prodotto da Ray Manzarek, l’ex tastierista dei Doors. E’ in questi solchi che riaccade il miracolo di risentire quel binomio di rabbia e poesia, che fu prerogativa di Dylan, Jim Morrison, Patti Smith, Lou Reed, Jimi Hendrix. “Los Angeles” è un viaggio nell’incubo urbano, nell’emarginazione sociale, nella crisi dei valori umani… ma è anche la grande voglia di non arrendersi, avendo chiara la consapevolezza che il momento più duro, è sempre quello del risveglio. In alcuni pezzi di questo disco, con il suo inconfondibile suono, la tastiera di Manzarek si presta a colorare il buio dopo la pioggia. Musica che ha infilato la chiave nell’interruttore del mio cuore. Qui, oltre alla forza dirompente del punk, ci sono quei duetti bellissimi tra John ed Exene che cantano nove canzoni malvagie e feroci, fino a raschiarsi le corde vocali, fino a cadere sanguinanti in fondo alla notte. Non importa quanto sia sbagliata la strada che imbocchiamo, tanto le cose più belle sono quelle che ancora dobbiamo scrivere. Procediamo curiosi nella terra di nessuno cambiando continuamente tragitto, una volta a destra, un’altra volta a sinistra, acceleriamo, freniamo, cercando di capire quello che nessuno ci spiega. Nella musica punk c’è sempre stata una specie di ruvida tenerezza. In quella sfrontatezza c’era molta sincerità. Quello che non capiva, il punk lo intuiva. Poi, come in una sorta di autoindulgenza non sapendo barare, se n’è tornato in quelle strade buie e solitarie, dove è difficile giungere. Quando la musica è finita ho rimesso a posto il disco. Ho buttato via il caffè che era rimasto, ho rassettato la cucina e ho pulito i miei stivali. Poi ho fatto una doccia e mi sono rasato, cosa che non faccio mai nel pomeriggio… ma mi era venuta voglia. Piccole cose semplici di un uomo solo, che non fanno male a nessuno.
“Don’t let her take her love to town They will never fill her hear. She needs a passion like her fathers used to be I know because I’m like the train shooting down the main line. I know because. I’m the Indian wind along the telegraph lines. She’s like heroin to me. She’s like heroin to me. She’s like heroin to me. She can’t miss a vein” (She’s Like Heroin To Me).
Durante una pausa per le registrazioni del disco Jeffrey si accese uno spinello e si sedette sul divano. Indossava degli logori stivali texani e un jeans sdrucito. Dalla bottiglia di whisky bevve un sorso come solo un dannato sa fare. Quella notte il tempo non faceva presagire nulla di buono. “Pioggia e freddo intenso” avevano recitato quelli del bollettino meteorologico. Quasi una metafora della sua vita. Lui se ne stava in silenzio per quella semplice ragione, ché le parole alle volte non servono a nulla. Nelle sue visioni la vedeva protendersi e chiamarlo. Lo pregava di proteggere il suo ricordo, di difenderlo. Chiuse gli occhi. La vide camminare verso di lui. Voleva stare con lei, ricongiungersi a lei. Dopo un altro lungo sorso afferrò la chitarra e per scaldarsi le dita, suonò una sequenza di accordi. Su quegli stessi accordi ciondolando la testa, intonò una nuova canzone. Tutti i presenti si commossero ad ascoltarlo mentre bisbigliava i versi di Mother Of Earth ancora avvolti dentro una melodia traballante.
“Sono andato giù nel fiume della tristezza Sono andato giù nel fiume del dolore nell’oscurità, li ho sentiti chiamare il mio nome Oh, madre terra. Il vento è caldo, ho provato a fare del mio meglio, ma non riesco. E i miei occhi si sono chiusi su questa grande terra“ (Mother Of Earth).
Era il blues che risuonava dentro di lui, e sarà sempre il blues a tingere di scuro le sue canzoni: anche quando una lap steel s’intrometterà per addolcirne i suoni, sarà sempre il blues demoniaco e disperato della sua anima che tirerà pugni e vagherà per le strade. Quanti colori, note, combinazioni, si possono ottenere da una chitarra? E quante melodie vengono fuori dagli stessi accordi? Ma i blues sono sempre diversi, pure se sembrano uguali. Perché parlano degli esseri umani, e dei loro bisogni. Perché anche i solitari vivono una loro vita, amano e soffrono, anche se non riescono a spiegarlo. Un viaggio quello di Jeffrey colmo di una malinconia indelebile ma, i sentimenti che proviamo sono più potenti delle parole. “Torna da me amore”. “Sono qui, sono stanco di queste lacrime”. Quando sussurra con l’anima sanguinante queste parole abbaiando dentro il microfono, capisci quanto era fragile e vulnerabile. Le sue canzoni risuonano ancora oggi impetuose per quei selvaggi che hanno il diavolo alle spalle, e l’anima incendiata. Ci sono persone la cui vita sembra un lungo tormento. Poi un bel giorno decidono di morire, come se non ci fosse nulla di meglio da fare, niente per cui valga la pena di andare avanti. Anche per mia madre è andata così. Avrei voluto incontrare Jeffrey per potergli dire che nella vita tutti noi bariamo, perché altrimenti non avremmo via d’uscita. Tutti noi c’è ne stiamo ammassati nella stessa barca, logori, ammaccati, trattati senza troppi riguardi. La destinazione è per tutti la stessa. Gli avrei voluto raccontare che le sue canzoni avevano attraversato la mia vita, e che mi avevano dato una speranza. Avrei voluto vedere se la sua espressione del viso sarebbe cambiata, e se si sarebbero increspate le ciglia. Comunque vadano le cose, tutti nessun escluso, abbiamo sempre bisogno di sentire un altro punto di vista. A mia madre però, non ho avuto il coraggio di dirglielo. Quella mattina era il mio giorno libero dal lavoro. A una fermata qualunque del metrò scesi e, camminando senza meta per la città, mi sentivo come un cane che aveva preso troppe botte e non si fidava più di nessuno. Andando in giro mi resi conto che quello che attraversavo era un mondo d’infelici, di gente sconsolata, che aveva paura di tutto. Tutte persone in esubero. La loro scomparsa sarebbe stata solo una semplice, banale formalità. Nelle maggior parte dei negozi, stavano appesi i cartelli con la scritta “Affittasi/Vendesi”. Una donna di mezza età mi chiese dei soldi. Il sole nel cielo era come oscurato da grossi vetri, spessi e scuri. La vita però non ha prezzo. E l’amore dovrebbe vincere sempre. Qualcuno dice che se conosci il nemico, non ti troverai in pericolo. Il fatto è che questo nemico che ci annienta, non lo puoi colpire, non lo puoi distruggere. Davanti al municipio una manifestazione di disoccupati invadeva i marciapiedi, e parte della strada viaria. Gli automobilisti però sembravano comprensivi con quelle persone. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli che ho incrociato, erano spenti e bui. Occhi dove non si scorgeva nulla. Forse servirebbe un vero cambiamento. Una rivoluzione. Ma non sono più così sicuro neanche di questo. Un anziano signore che rovistava tra le cassette della frutta stipate al lato di un cassonetto girò la testa, e adocchiandomi mi disse: “non è che abbia una grande pensione figliolo”. Lo disse mentre il vento agitava gli alberi. È un blues spietato quello in cui ci hanno ficcato quelle teste di cazzo dei nostri governanti. Dei gran figli di puttana. Nessuno escluso. Quando rientrai a casa l’orologio a muro segnava le due e venti del pomeriggio, e mi sentivo affranto per tutto quello che stava accadendo. Alle volte capita che ci ricordiamo di ogni cosa che ci è successa. Guardai a lungo la mia chitarra ma, siccome non riesco più a scrivere una canzone, l’ho lasciata in pace. Le chitarre hanno un cuore grande, sanno sempre come prenderti. Dovrei smettere anche di ascoltare certe canzoni, perché sanno come ferirmi. Accidenti se lo sanno. Alle volte mi chiedo cosa non abbia funzionato in me, e perché ho perso quel treno. Chissà, se ci fossi salito, a quale stazione sarei sceso? Perché alla fine torniamo sempre da dove siamo partiti. È troppo tardi però per crederci ancora. È troppo tardi per i rimpianti, perché ci sono cose che non si possono più fare. E’ vero comunque che le porte più difficili da chiudere, sono quelle che si trovano sul proprio pianerottolo. E’ l’anno 2018 ma niente è cambiato per quelle orde di poveri, che si muovono silenziosi nel mondo. Mangiai poco e di controvoglia, ero di cattivo umore, così negli scaffali dei dischi rintracciai gli X, la banda di John Doe e Exene Cervenka. Mi accesi una sigaretta e mi sedetti sul divano, cercando quantomeno di non ascoltare più me stesso. E’ del 1980 “Los Angeles”, l’album prodotto da Ray Manzarek, l’ex tastierista dei Doors. E’ in questi solchi che riaccade il miracolo di risentire quel binomio di rabbia e poesia, che fu prerogativa di Dylan, Jim Morrison, Patti Smith, Lou Reed, Jimi Hendrix. “Los Angeles” è un viaggio nell’incubo urbano, nell’emarginazione sociale, nella crisi dei valori umani… ma è anche la grande voglia di non arrendersi, avendo chiara la consapevolezza che il momento più duro, è sempre quello del risveglio. In alcuni pezzi di questo disco, con il suo inconfondibile suono, la tastiera di Manzarek si presta a colorare il buio dopo la pioggia. Musica che ha infilato la chiave nell’interruttore del mio cuore. Qui, oltre alla forza dirompente del punk, ci sono quei duetti bellissimi tra John ed Exene che cantano nove canzoni malvagie e feroci, fino a raschiarsi le corde vocali, fino a cadere sanguinanti in fondo alla notte. Non importa quanto sia sbagliata la strada che imbocchiamo, tanto le cose più belle sono quelle che ancora dobbiamo scrivere. Procediamo curiosi nella terra di nessuno cambiando continuamente tragitto, una volta a destra, un’altra volta a sinistra, acceleriamo, freniamo, cercando di capire quello che nessuno ci spiega. Nella musica punk c’è sempre stata una specie di ruvida tenerezza. In quella sfrontatezza c’era molta sincerità. Quello che non capiva, il punk lo intuiva. Poi, come in una sorta di autoindulgenza non sapendo barare, se n’è tornato in quelle strade buie e solitarie, dove è difficile giungere. Quando la musica è finita ho rimesso a posto il disco. Ho buttato via il caffè che era rimasto, ho rassettato la cucina e ho pulito i miei stivali. Poi ho fatto una doccia e mi sono rasato, cosa che non faccio mai nel pomeriggio… ma mi era venuta voglia. Piccole cose semplici di un uomo solo, che non fanno male a nessuno.
Nessun commento:
Posta un commento