Alla seconda sorsata gli si riempirono gli occhi di lacrime. Nemmeno gli
angeli del paradiso lo avrebbero potuto consolare. Si sentiva come un bambino,
terrorizzato da quell’attacco di panico. Posò lo sguardo sui suoi pensieri e
rimase stranito, tremante, fermo in mezzo alla strada. Si era attaccato alla
bottiglia, anche se quel vino sapeva d’aceto. Ma alla fine ci si sbronza con
quel che si trova. L’alcool gli esplose dentro lo stomaco, facendolo quasi
vomitare. La strada puzzava di merda di cane. Mentre un pallido velo di fumo,
infiacchiva la luce dei lampioni. Aveva sempre fatto una gran fatica a
sbaraccarsi da quelle barriere in cui si era recintato. Anche se uno non lo sa,
o fa finta di niente, s’impara tutto da piccoli, quando si è deboli e insicuri.
Un suo zio prediletto, quello che ti porta al cinema e ti offre da fumare, gli
disse di comportarsi bene, se non voleva finire in galera. Adesso la pioggia
aveva cominciato a cadere densa. Sotto quel diluvio, i suoi spettri presero a
far rumore e a urlare violentemente. Gli parve di vedere dei corvi alzarsi in
volo. Girò lo sguardo verso il muro, e quando alzò nuovamente gli occhi, il
giorno arrivò. In una tromba di luce accecante. La vita è piena di delusioni. Di sogni rancidi, di
profili sbiaditi, di amori fasulli, di merda e morte. Dopotutto la speranza non
costa granché. Anche quella di diventare ricchi e famosi, non costa nulla. A
lui piaceva viaggiare nelle strade buie e silenziose, osservando la linea di
mezzeria. In fuga da tutto e da tutti.

“E musica che potete sentire in ogni
luogo, allo radio, nelle strade, blues, soul, country, rock, musica religiosa e
suoni del traffico, della folla, della strada e dei prati, il suono del
silenzio della gente”.

La cucina era in
miniatura e dava su un piccolo cortiletto sporco, pieno di vecchie cose
arrugginite, accatastate l’una sull’altra. Un motore diesel, dei copertoni, un
manubrio. Fusti di latta, scatole di polistirolo, sopramobili, un portacenere di
marmo, un quadretto con foto in bianco e nero. Ferri da stiro, un campanello
elettrico, caraffe di legno, quel che restava di una macchina per cucire, un
paraurti, delle scatolette di cibo per gatti. Un ventilatore a colonna, un
saldatore elettrico, un rullo per pittura, mazze da carpentiere, uno scappello
a punta. Un cane arrotolato su se stesso dormiva a ridosso di
quella catasta. Nella tromba delle scale del palazzo, i ragazzi giocavano a carte
bevendo succo di pera mischiato a gin. Prese una birra e accese lo stereo. Con
suo fratello da bambini giocavano ad ammazzare gli scarafaggi che passavano sul
davanzale del balcone della cucina. Un pomeriggio né contò più di cinquanta.
Era cresciuto in quel quartiere dove conosceva tutti, e in qualche modo in
quel luogo, si sentiva al sicuro. Ma nel tempo molte cose erano cambiate. Molti luoghi della sua memoria erano spariti per fare spazio a inutili
palazzi, e a quei centri commerciali del cazzo, che stavano sterminando il suo
passato.

Bartolo
Federico