sabato 29 gennaio 2011

Fratelli Bastardi

Quella mattina mi svegliai molto presto, bevvi un caffè, mi infilai i pantaloncini, le scarpe da footing, una t-shirt ed uscii di casa che ancora era buio. L’aria era fresca e secca. Lentamente presi a correre in salita. Nei primi due chilometri mantenni un’andatura costante per permettere ai muscoli di scaldarsi, poi aumentai gradualmente. Mi piaceva correre in salita, provavo quel gusto sottile della sfida con me stesso che in qualche modo placava la mia aggressività. Mentre arrancavo, sentii l’odore della terra e dell’erba arata da poco. Continuai ad arrampicarmi con veemenza. Poi la strada scollinò e ci diedi dentro per qualche chilometro, fin quando da dietro una curva sbucarono delle mucche che mi guardavano con superiorità. Mi portai a ridosso del guardrail e continuai la mia corsa solitaria. Mentre correvo, riuscivo a mettere ordine alle cose e a scarabocchiare i ricordi. Quando arrivai in cima grondavo di sudore, avevo i polmoni che mi bruciavano, mentre il sole si alzava da dietro la montagna e filtrava sulle chiome degli alberi. In quel momento mi sentii appagato e vivo come non mai. 

Vivo, talmente vivo, come solo certo rock’n’roll sapeva esserlo, prima che lo mandassero in pensione tra galline e maiali, fienili e sterco di vacca. Il rock sta diventando noioso. Quel rock che è nato e germogliato per la strada, nelle cantine umide e gocciolanti di pioggia, grezzo e volgare, diretto come un pugno allo stomaco, quel rock che era rivolta dei giovani contro i vecchi é finito in fattorie con parquet, svuotato della sua vera natura di ribelle dissacrante. Un combattente che sta invecchiando malamente da non essere più così importante nella vita della gente, perché semplicemente non lotta più, non rompe più i coglioni al potere.

Il rock è stato affidato all’industria, ai suoi manager, a certi produttori e non vive più senza limiti e confini. Ma quel rock sta rintanato da qualche parte e chiede, ne sono certo, di essere nuovamente suonato senza compromessi, integro e puro. Di farsi nuovamente portatore della rabbia di una generazione. Il rock come è stato per Jim Carroll. Il “Catholic Boy” drogato e omosessuale, dimenticato dai più, che ha dedicato la sua vita alla causa suonando duro e usando parole taglienti e poesia da strada. Portavoce di una generazione di sbandati con un ago in vena. Benedetto da Jack Kerouac, William Burroughs e Allen Ginsberg per la sua prosa. Un rocker che faceva ballare e inginocchiare gli angeli ha ricevuto indietro meno di nulla se non quella sensazione di appagamento per avere fatto ciò che ha sempre voluto, con una dignità che non ha uguali, senza trucchi, senza inganni, schietto e diretto, in una società umiliata dal qualunquismo e incapace di ribellarsi. Dove, usando le sue parole, presente e futuro diventano cenere, e forse fulgida fiamma. 
I miei fratelli bastardi. Sono stati loro a prendersi cura di me, quando tutto mi precipitava addosso, quando rincorrevo la vita e nascondevo l’inferno sotto la camicia. Ma andavo dritto, come un bisonte impazzito, per la mia strada, per ritrovarmi alla fine solo, all’alba di un nuovo giorno, a vagare appeso alle canzoni dei Senders di “Return a’l’Envoyeur”. Quattro gatti randagi delle banlieue francesi, terra di rock per antonomasia, di una generazione perduta nei sogni di rock’n roll. Veri e autentici i The Senders! Delinquenti prestati al rock per salvarsi la pelle; una meteora di quelle che non ricorda nessuno ma, chi in quei giorni li ha incrociati sa che suonavano canzoni ispirate da Willy “il gatto blu”, canzoni che erano come battiti del cuore.


Willy mi manca maledettamente. Saperlo in giro mi rassicurava. Non tutto era perduto. Un musicista a 360 gradi come non ne esistono più. Uomo dal cuore immenso che ha vissuto il rock come pochi altri, una stella per chi è cresciuto nelle ultime file e ha dovuto sgomitare per farsi largo. Un artista che non si è mai piegato di fronte a nessuno, un esempio per tutti. 

   
Ebbi la fortuna di incrociarlo l’hanno prima che morisse in un festival blues a Mascalucia in provincia di Catania, un paesino sotto le pendici del grande vulcano. C’era un atmosfera magica che colpi molto anche lo stesso Willy ,e lo disse biascicando le parole in una pallottola di fumo. Quando sbucò da dietro il palco, accompagnato dalle note di un blues secco come un chiodo, con i suoi lunghi capelli, mi parve uno dei cavaliere della tavola rotonda. Lo guardavo ipnotizzato, avevo la bocca asciutta per l’emozione. Lui invece era rilassato e a suo agio. Non ricordo null’altro se non che quando imbracciò la Fender e si piazzò davanti al microfono e parti Savoir Affair mi fiondai sotto il palco e non capi più nulla. Mi sentii come se fossimo al CBGB’s e mi ricordai dei miei giorni disperati, di quando ero debole ed indifeso mentre lui mi cullava tra le sue braccia, insieme ad altri fratelli nati alla periferia dell’impero.

I “nati perdenti”, con la strada sempre in salita. E quando arrivava la notte ci si scaldava con quell’urlo disperato che era Born To Lose di Johnny Thunders, un altro che macinava rock’n roll a mille. Un “Keith Richard dei poveri” che non si è fatto mancare nulla nella sua esistenza fino ad auto distruggersi; troppo innamorato del rock per capire che la sua non era finzione. E dopo tutta quell’energia si restava da soli, perché alla fine si resta sempre soli, e ci si accarezzava il cuore con “Devon Song” degli Only Ones di Peter Perrett, un cantante che sembrava un incrocio tra Dylan e Lou Reed. Saliti e subito scesi dal podio grazie ad una canzone “Another Place, Another Planet “che ancora oggi resta bella e malata, figlia di quei fiori selvaggi, di quel bianco calore che erano i sogni di velluto. Musica schietta, sincera, cosi sincera da farti male, molto male se avevi il cuore a pezzi e gli occhi gonfi. 

E’ stata la musica che mi ha protetto dalla pazzia ed è venuta a stanarmi fin dentro la mia stanza anonima della mia anonima casa di periferia. Quella che bussava alla porta era una generazione cresciuta ascoltando Hendrix, Jim Morrison, Stones, Velvet , Mott The Hopple, Who, Kinks. Una generazione che prendeva in prestito la poesia di Baudelaire e di Rimbaud e la trasformava in energia, in rock’n’roll. E tutti prendevamo coscienza, per emanciparci, per crescere. La sacerdotessa del rito è stata lei, Patti Smith, la prima cantante donna che non doveva niente a nessuno, che risplendeva come una divinità anche se era vestita tutta di nero. Quando arrivò Horses le regole furono infrante, l’anarchia in musica prese per la prima volta forma e il rock ‘n roll fu libero da qualunque legame, come non era riuscito di fare neanche a Jim Morrison .

Poi a Londra accadde il miracolo. Inaspettatamente, tutto in una notte. Potevi ascoltare una miriade di gruppi punk nati dopo aver visto i Sex Pistols. Gente come i Vibrators , Stranglers, Ian Dury, i Damned, Slaughther &the Dogs, ragazzi emarginati, senza prospettive, senza futuro: unica certezza il rock’n’roll. Quei giovani proletari erano come migliaia di altri ragazzi sparsi per il mondo. Con le loro canzoni denunciavano il vuoto esistenziale e la sofferenza di un’intera generazione. Ed arrivò Joe Strummer e i Clash, e fu come vedere la luce. Finalmente uno che lottava contro la miseria e l’alienazione, uno che aveva la morale comunista e lo spirito socialista. Il mio “Che Guevara”. Finalmente qualcuno che ti faceva sentire orgoglioso di essere un proletario, che ti spingeva ad uscire dal guscio, che ti parlava sostenendo che era possibile farcela, anche se non avevi opportunità. Quelle te le dovevi prendere, ti toccavano in un modo o nell’altro. Eri un Sandinista, un guerriero di strada, un indomabile. Anche se avevi perso la tua battaglia andava bene lo stesso, avevi lottato, avevi dato tutto te stesso. Perché, da quel momento in poi, non saresti stato più un ribelle senza causa. Troppo comodo, aveva fatto questa storia del ribelle senza causa al Potere. Ora avevi un identità ben precisa e una Band che ti sosteneva. E’ grazie ai Clash che molti di noi non sono finiti a rubare autoradio per comprarsi la dose. E’ grazie a loro, ed anche agli Stiff Little Fingers, che abbiamo imparato che la musica non é solo divertimento, ma può essere anche qualcos’altro. Grazie anche ai fratelli Severini (l’unica vera Gang italiana ) che nel tempo hanno mantenuto quella fiamma sempre accesa; gli unici e soli che possono andare ad Hyde Park e cantare “London Calling” con i pugni alzati e il fazzoletto rosso al collo.

Adesso lo sento questo vento che sta cambiando. La gente che torna ad occupare le strade, a chiedere giustizia e libertà, pane e lavoro . E il sogno di un nuovo ordine mondiale continua. I ragazzi hanno riattaccato la spina. Gli amplificatori ronzano e le cantine sono piene di gente che scrive, che parla, che lotta. Il rock, come per magia, si è rimesso in sesto ed è arzillo è vivo nuovamente. Pronto per una nuova rivoluzione. Contiamoci, siamo in tanti. Fratelli Bastardi.
BARTOLO FEDERICO-

martedì 25 gennaio 2011

Tre Accordi Tre

Suoni & Parole

Chi ascolta musica con passione e dedizione, dopo anni passati a consumare vinile e cd, sa bene che il produttore è una figura carismatica per la buona riuscita del prodotto finale, anche se molti artisti preferiscono fare da sé. Il produttore nella musica moderna è necessario. Questo ruolo è quasi sempre coperto da musicisti che dopo una ”brillante” carriera, magari a corto di creatività, si dedicano a produrre la musica di altri. Con il passare degli anni, però, questa figura ha assunto un potere che a volte è diventato soffocante, oserei direi ingombrante, riuscendo ad oscurare l’artista stesso. La storia del rock è piena di furibonde litigate tra artisti e produttori, di studi di registrazione diventati ring, di rapporti d’amicizia chiusi per una take andata male o un arrangiamento non gradito. Anche se agli occhi dei più tutto ciò può sembrare esagerato, chi fa musica sa benissimo che i particolari sono importanti, direi fondamentali.
Più il nome del produttore è blasonato, più il rischio diventa palpabile. Volere o non volere, egli andrà a condizionare il lavoro finale, perché da lui dipende il suono, l’ arrangiamento dei brani, i musicisti da utilizzare, ecc.. Capirete che, per un artista, è un rapporto fiduciario che sta al limite. Perché affidare la propria arte ad una terza persona, con tutti i rischi annessi e connessi che questo comporta, è molto rischioso. La paura più grande di un musicista è quella che, alla fine del percorso, il disco sia più una creatura del suo produttore che dell’artista stesso.
Per questo motivo il producer svolge un ruolo delicato che richiede una preparazione e una sensibilità fuori dal comune. A volte ricopre anche il ruolo di analista, di tutore dell’artista. Perché molte star sono fragili interiormente e questa loro fragilità li rende più plasmabili dal meccanismo industriale. Ricordiamoci che la musica è un business, un industria che si affida a manager, funzionari, rete vendita e fatturati. Il dio denaro, alla fine, è quello che conta per il prosieguo di una carriera.
Per portare un esempio di connubio riuscito tra artista e produttore cito quello tra Willy DeVille e Jack Nietzsche. Questa è stata una collaborazione perfetta sotto tutti i punti di vista, sia umani che musicali. L’idillio tra i due ha permesso di pubblicare dischi come Cabretta (1977), Return to Magenta (1978), Coup de Grace (1981), che, solo a metterli in fila, mi vengono i brividi. Nitzsche ha anche detto che DeVille è stato il miglior cantante con cui avesse lavorato; ed essendo stato dietro il banco di regia dei Rolling Stones, di Neil Young, dei Buffalo Springfield, di Graham Parker ecc.., capirete che suona come una dichiarazione d’amore vera e propria
Ma non sempre accade ciò. Spesso, come accennavo, i rapporti sono tormentati. Come ad esempio quello che ebbe Dylan con Daniel Lanois ai tempi di Time Out Of Mind. Si dice che volarono sberle durante le sedute. Lo stesso vale anche per lo stesso DeVille e Mark Knopler. Quando incisero Miracle, Willy, alla fine del lavoro, chiuse i rapporti con Knopler. E’ evidente, quindi, quanto il ruolo di producer abbia una parte rilevante e delicata nella carriera di un’artista, sia nella sua fase iniziale che quando ha bisogno di essere rilanciata. In entrambi i casi la scelta di questa figura è fondamentale. E’ pur vero che molti artisti, appresi i meccanismi di produzione, amano fare da sé, proprio per evitare questa dipendenza e per avere la più ampia libertà di decisione sulla propria musica.
Da tempo il mercato americano delle produzioni musicali e sempre più in mano a T-Bone Burnette . Questo ex musicista è come il prezzemolo: produce qualunque genere, dal pop al rock, dal country al blues e, a quanto sembra, è molto apprezzato dai più. Ciò non significa che me lo devo fare piacere per forza poiché molti lo esaltano! Personalmente, trovo il suo modo di produrre musica freddo, chirurgico, asettico, anche se per altri è un re Mida. I dischi che lui ha prodotto li ho ascoltati quasi tutti; da Jakob Dylan a Robert Plant, da Natalie Merchant alla colonna sonora di Oh Brother Where Art Thou?, non ne ho perso nessuno (ora però qualcuno gli dica che è il momento di riposarsi un po’! ), finendo all’ultimo di Greg Allman. Come presumevo, anche in quest’ultimo caso la musica suona, per quanto mi riguarda, molle, priva di vitalità, per nulla coinvolgente. Greg ci mette la sua grande voce (anche se a tratti è un po’ stanca, dato i gravi problemi di salute che ha dovuto affrontare) per tenere vivo il tutto. Ma il gusto di Burnette per gli arrangiamenti, per il suono, è quello di sempre. Come nei suoi dischi solisti, prendere o lasciare. Anche il blues più torrido, nelle sue mani, diventa un bicchiere d’acqua fresca.
La scelta dei musicisti poi influisce tantissimo sul risultato finale. Lui usa, giustamente, quelli di cui si fida, che fa girare nei vari dischi ma alla fine, come già ho avuto modo di dire , tutte le sue produzioni, giocoforza, si somigliano. Probabilmente, se queste canzoni le avessero suonate gli Allman al completo, il risultato sarebbe stato diverso da quello che ci tocca ascoltare oggi: musica innocua, che non azzanna, che non ferisce, che non ti brucia l’anima come ci si aspetterebbe da un disco di “blues” di Greg Allman, uno che di diavoli nelle sua vita ne ha visti a go-go. Ma se questa prova dà nuova verve a Greg per poter tornare ad incidere magari con un altro produttore mi va bene lo stesso. Non dimentico mica che lui è il fratello del più grande slide-man di blues bianco di tutti i tempi: l’immenso, immaginifico, Duane Allman che con lui ha fondato quella gioiosa macchina da guerra che è l’Allman Brothers Band.
Ascoltare musica è anche cercare di sviluppare un proprio senso critico. Quindi, oltre ad essere un vero piacere, a volte richiede dei piccoli sacrifici, come quello di andare a confrontarsi anche con suoni e melodie che magari non rientrano nei parametri del nostro gusto. Questa piccola immolazione ci aiuterà a sentire con un orecchio più preparato la musica da cui traiamo più piacere. Con il tempo è chiaro che ci si forma un proprio gusto, una propria visone che però non deve essere mai presa come la verità assoluta. E’ bene sempre nutrire qualche dubbio.
Anche quando leggiamo una recensione che parla benissimo del nostro artista preferito è bene far scattare “i se e i ma”, almeno fino a quando non lo si è ascoltato e giudicato con le proprie orecchie. Fidatevi solo di loro, perché, come diceva un mio amico, quello che per te è un pavimento per un altro è il soffitto.
Per anni l’informazione in Italia si è basata sulla lettura delle riviste musicali. Quelle che mi sono passate sotto mano nel tempo, e vado a memoria, sono state: Ciao 2001, Popster, Suono, Il Mucchio Selvaggio. Dalla sua scissione è venuto fuori L’ultimo Buscadero. Da una successiva scissione del Mucchio è venuto fuori Velvet e da una terza Feedback. In ultimo Jam.
Non riconoscere i meriti del Mucchio su una gran parte di fruitori di musica in Italia sarebbe ingiusto anche se personalmente sono anni che non compro più la rivista, precisamente da quando Zambo con Marco Denti ne uscirono per dar vita a Feedback (esperienza che ebbe breve vita), poi i due confluirono nel Buscadero, che se scrivessi che mi piace mi verrebbe il naso come pinocchio.
A proposito dei giornalisti musicali si dice che siano dei musicisti mancati che riversano nello scrivere questa passione ma, come per tutte le passioni, nessuno di loro possiede la verità assoluta. Il mio consiglio al neofita, se capita da queste parti, è sempre quello di ascoltare ascoltare, ascoltare (oggi i mezzi non mancano) prima di acquistare un cd. Solo cosi si evitano scottature e, con quello che costano i dischi, la prevenzione è cosa buona e giusta.
Con l’avvento di internet si è aperta una voragine. Scovare le magagne è alla portata di tutti. Un tempo ci si doveva per forza di cose affidare totalmente alle recensioni ed era fondamentale il rapporto di fiducia che avevi con il recensore (era il tuo produttore). Per dire, non ho mai comprato un disco di cui sproloquiava il critico Paolo Carù, dal momento che i supporti fonografici sono sempre costati un occhio della testa. Comunque anche questo non ti esimeva dal prendere le cosiddette “sole”. Ma, allora, mancavano del tutto i canali per ascoltare i dischi anticipatamente. Chi non abitava, oggi come allora, nelle grandi città era destinato a ricorrere alla vendita per corrispondenza per venire in possesso dell’agognato vinile. Recarsi in un negozio di dischi e chiedere un disco di George Thorogood significava farsi prendere per matto. Ed io adoravo andare da Melluso, l’unico negozio diciamo importante che c’era nelle mia città, e chiedere di Terry Allen o di Willie Nile solo per vedere la faccia che faceva il commesso alla mie richieste. 
Di tempo, da allora, ne è passato, ma l’amore e la passione restano intatte, specie per il blues che è musica semplice ma non semplicistica, suonata prevalentemente su accordi maggiori, anche se ascoltandola può sembrare il contrario. I vecchi grandi bluesman dalle loro chitarrine (tali erano i loro strumenti rispetto ai gioielli creati in seguito, potremmo definirli addirittura giocattoli) tiravano fuori note che, prima di essere suoni delle corde, erano suoni dell’anima, del cuore. Con le loro canzoni si mettevano a nudo. Tant’è che i primi cantautori sono stati proprio loro. In tanti ci hanno provato, specie gli artisti bianchi innamorati di questa musica, a catturare quell’intensità, quell’ardore, quella desolazione, quel feeling che i bluesmen anteguerra riuscivano a spargere ma, anche negli episodi migliori, a mio avviso, al massimo si sono avvicinati senza mai riuscire ad uguagliarli.
Le loro canzoni non avevano produttori. Quelle canzoni ascoltate oggi, a distanza di ottanta e più anni, sono tali e quali a quelle che suonavano nelle strade, nelle feste o davanti alle loro case, e non hanno perso un briciolo della loro forza, della loro poesia. Per questo, definire il blues la purezza assoluta della musica non è esagerazione. Soffiate via la polvere che c’è un tesoro nascosto.

Bartolo Federico-gennaio 2011- 

lunedì 17 gennaio 2011

Bollettino Delle Emozioni(al bar da Gino)



Avevo finito il mio turno di lavoro alla ditta di pulizie e, siccome non mi andava di rientrare, telefonai dal bar di Gino al mio amico Toni, il poeta, che tra l’altro somiglia pure a Manero e di lavoro fa il psichiatra, per una partitina a tresette. – Accipicchia!- , mi fa ansimante, - non hai un cazzo da fare e rompi i coglioni mentre sto a cavallo di sta puledra. Ma va bene, perdio, il tempo che finisco sta cavalcata e arrivoooo.- Dopo un’ora circa se ne spunta che mi ero fatto già due birre grandi alla spina e un pacco di patatine maxi fritte unte d’olio, che mi leccavo le dita per la goduria.
Dicevo, se ne spunta con un ghigno che era tutto un programma. Si siede e fa:- Senti questa di Pedro. - Chi!! -, feci io. - Il Salinas, se no chi cazzolata. E prese a recitare dei versi, mentre con l’altra mano teneva il mio boccale di birra. Se lo scolò in un botto. La poesia gli prosciugava la bocca e anche quella cavalcata di prima, blaterò finito di bere.

- Ma dove sei stato, che è da un pezzo che non ci si vede-, mi dice.

- Beh sai un po’ qua un po’ là, insomma ora ti racconto. C’è sta mia zia Amalia, che è una scassa bruni per eccellenza, non fa altro che dire che passo le giornate a grattarmi le palle e, siccome è lei che mi scuce i soldi quando sono in bolletta (quindi sempre), mi sono comprato un pacco di riviste e qualche libro, tanto per farle vedere che mi sto acculturando.
Ho preso a leggere un certo Celine e delle riviste di musica che sono di una noia mortale, ma meglio quelle che la saga del cavaliere pedofilo ho pensato. Mentre ero intento ad apprendere (beh ogni tanto staccavo e mi tracannavo una birroccia scura), è venuto il figlio di mia sorella e mi ha regalato un pc (Babbo Natale gliene aveva portato uno nuovo). Lui, spocchioso, mi dice: - Zio ti farò navigare!-Mentre pensavo che dovessimo prendere il Ferry Boat e mi stavo vestendo per uscire, lui, di rimando, mi ha spedito in quel posto, perché non capivo una nespola. Ha montato il pc nella stanza da pranzo e, tutto soddisfatto, perché la zia Amalia gli aveva dato trecento euro (furbo il ragazzino), mi fa con quella spocchia dell’età: - Ora tieniti pronto che ti faccio vedere il mondo -. Mi sono avvicinato guardingo ed ho scrutato nel video, ma non ho visto nulla perché il pc era spento. Mi ha detto: - Abbi pazienza, zio, tra poco, quando si connetterà avrai tutto in un clic- . Roba da matti, che, se non era mio nipote ma Marchionne, gli avrei fatto fare un T.S.O e l’avrei lasciato lì per sempre. 

Come dicevo, lo sai che ho sta passione per la musica che mi prosciuga tutto il grano e per questo sto sempre in bolletta. E che cazzo posso farci se ho sta passione! Bene, mi sono letto sto pacco di giornali, poi ho fatto un giro su internet imparo in fretta sai, e, dappertutto, c’erano le classifiche dei migliori album dell’anno trascorso, dei migliori film, dei migliori libri, dei migliori dei migliori... A leggerle mi è venuto un mal di testa colossale che mi sono fatto due birre rosse una dietro l’altra. 


E siccome sono stronzo, e so farmi del male da solo, che faccio: ordino per corrispondenza i cd che non avevo comprato, o cosi pensavo. Tu lo sai bene che in questa città non ci sono più negozi di musica per cui non avevo alternativa. Ma mi piace tanto il rock’n’roll. Non l’avessi mai fatto. 


Quando il postino mi ha suonato per la consegna ed ho dovuto scucire tutto il grano che avevo da parte, sono entrato in coma etilico per due giorni, che per riprendermi mi hanno fatto le endovene di vitamine. Non ti dico poi di zia Amalia! Quando mi ha visto in quelle condizioni voleva cancellarmi dal testamento. Ma superato questo intralcio sono stato giorni e giorni ad ascoltare i cd ed ero cosi incazzato che ho chiesto informazioni tramite internet su dove abita un cero T. Bone Burnett, che se lo capito a tiro gli do un calcio nelle palle che glielo faccio ricordare per tutta la vita, dato che è un pezzo che gliele ho promesse. 

- Scusa ma chi è sto Burnett. Gino un altro giro due piccole doppio malto paga Toni.
- Devi sapere che sto tizio un tempo era un musicista che figurati è andato in tour anche con lo zio Bob (guarda che onore!), ma poi lo zio Bob, intelligente per com’è, non lo ha più voluto tra i piedi. Non sbaglia mai un colpo lo zio. Sto tizio con la faccia di un angioletto di Michelangelo che con il rock non centra proprio, si è messo a fare dei dischi.

 La malasorte che mi perseguita é che in quel periodo, era il 1983, lavoravo in una radio privata e me li sono dovuti pure comprare! Le riviste musicali lo gonfiavano a dismisura, quasi fosse un genio. Tu sai com’è il pubblico che segue le riviste: si beve tutto, per cui telefonavano in radio per poterlo ascoltare, mica c’era Internet. Sto tizio era veramente di una noia mortale. Il culmine lo raggiunse nel 1986. Sempre per il motivo di cui ti dicevo, comprai l’album omonimo, mi sistemai il disco sul piatto e presi ad ascoltarlo. Dopo le prime due canzoni stavo già in una fase depressiva che neanche con l’elettroshock mi sarei ripreso e maledicevo me stesso per non essere andato al mare con Luisa, la mia ex. Ma lo sai quanto mi piace ascoltare la musica! Quando girai il disco e arrivammo alla cover di “Time” di Tom Waits non c’è la feci più, mi alzai dalla sedia, strappai il disco dal piatto e lo distrussi; dopo piansi per i soldi spesi e vomitai per la musica al punto che mi ricoverarono d’urgenza per come ero disidratato. 

Adesso questo fa il produttore. Il problema è che produce dischi di artisti che mi piacciono come John il Coguaro. Pensa che non mi ricordavo neppure che lo avevo già comprato sto cd di Mellencamp (No Better Than This), che l’ho riordinato pensando mi fosse sfuggito. L’ho riascoltato con buona lena. Nonostante tutto sono arrivato alla fine, per rispetto di John, ma la prossima volta che si fa produrre da sto tizio con il piffero che mi compro un suo cd! Dov’è il Coguaro?! Tutto suona piatto, monocorde, perfetto per la filodiffusione o il mattino di Radio Capital. Nessuna emozione, dicasi una neanche di seconda mano, ho provato. Nel pacco che mi è arrivato c’era pure Ryan Bingham, a mio parere artista sopravvalutato. Sto ragazzotto ha una bellissima voce ma le canzoni dove sono. Se nei precedenti lavori Ryan è stato prodotto da Marc Ford che ha coperto le lacune con un suono tagliente e diretto, da grande rocker che è (un ex Black Crowes mica roba da ridere), in questo “Junky Star”, presentato in pompa magna, tutto suona scontato, da compito in classe. D’altronde il suo produttore fa suonare tutti i dischi uguali, senz’anima, li ascolti una volta, ma di risentirli non ti viene la voglia. Questa è musica da salotto, da plaid sulle ginocchia e camini accessi, perfetta per chi ama i dischi di Elton John o Billy Joel e compagnia bella. Il suo è un “rock” che non si sporca mai le mani e neanche il cuore.T Bone Burnett gode della stima dei musicisti con cui lavora e i dischi che ha prodotto sono numeri uno in tutte le classifiche dei dotti e illuminati giornalisti del settore, quindi il problema sono io che non ci capisco nulla. Però merda di vacca questo insiste! Adesso ha prodotto il nuovo di Greg Allman è mi gioco la qualunque (non Cetto ) che il blues di Greg sarà cosi soporifero, mainstream, che farà sembrare “Sailing” di Christopher Cross un pezzo degli Stooges. 

Vabbò, ma la botta più grossa l’ho presa con Springsteen,Gino qui ci vuole doppio malto con soda. Grazie, pago io, metti in conto. A parte il costo esorbitante, che alla fine pesa sul giudizio, queste operazioni sono pura speculazione. Può darsi che l’autore sia in bolletta, visto che le vendite dei suoi ultimi cd non è che siano andate un granché (“Magic” e “Working on a Dream”), di conseguenza la casa discografica doveva raggranellare un bel po’ di dollaroni freschi e fumanti, ed allora eccoti servito “The Promise” che, al di là del mutuo che devi accendere, è una mezza delusione. Non per la parte video, perché quella è storia. Springsteen nel 1978 ha fatto il miglior tour della sua vita ma i cd, quando li ho ascoltati ho provato imbarazzo di fronte a certe canzoni. Comunque, è anche vero che suoni e colori sono in linea con la sua produzione post “Nebraska”. A proposito Toni, ti ricordi quel piccolo negozio di dischi N.EU. (come la band tedesca), quello di Enzo Russo, Ebbene, dopo che uscii’ “Born In The U.S.A”. Chi andava a comprare i suoi dischi erano bancari in libera uscita, avvocati rampanti, figli di papà palestrati, tutto l’opposto dello zoccolo duro che lo aveva sostenuto. Il sabato mattina arrivavano con le loro moto Bmw, vestiti di tutto punto, Clark, panta Armani, giubbini di pelle e occhiali da sole griffati atteggiandosi da consumati rocker, da saputelli, per avere ascoltato uno due dischi rock (tra cui Vasco Rossi). Da quel momento in poi Bruce è diventato il loro idolo. Suonerà nei grandi stadi e il grande pubblico ,che è quello che conta, lo acclamerà come fosse un messia. Io lo preferivo quando anche lui era un visionario ribelle: la sua musica ti incendiava l’anima e dal cuore ti grondava sangue a grappoli con quei soli torcibudella. La E-Street era una gang di delinquenti, di veri combattenti di strada venuti dai bassifondi newyorkesi per predicare il sacro verbo del rock’n’ roll: insomma la sua fotocopia . Vero e sincero fino alle lacrime, il suo cuore pulsava per gli ultimi della fila. E quelle immagini del 1978 non smentiscono. Dopo di ché, per quanto mi riguarda, è un'altra storia. Buona per essere raccontata da riviste patinate, da MTV, o per scrivere libri da giornalisti in giacca e cravatta. La sua musica diventerà altro. Gli verrà a mancare quella tensione emozionale, quell’ ardore da ultima spiaggia che ti faceva sentire tutt’uno con lui. Spuntarono i sintetizzatori e canzoni che ancora oggi non riesco a digerire (tipo “Dancing in the dark” “Cover Me” e compagnia bella). Il suo canto si vestì di una drammaticità che troppe volte mi sembrò eccesiva , da risultarmi ostile. Ma Bruce e la sua band sono saliti sul gradino più alto del podio. Ancora oggi riempiono gli stadi e la E-Street non è più una gang ma un orchestra precisa, puntuale, organizzata per il Karaoke collettivo quali sono i suoi show. Lui siede alla destra di Obama, sempre dalla parte giusta comunque, e tutti sono felici e contenti. A mio parere quello che gli è mancato dopo “Nebraska” è stato il blues. il maledetto blues quel tormento ossessivo e miagolante che ti indica la direzione quando al buio hai smarrito la strada di casa. Ma anche qui ho torto, perché “The Promise” è nelle preferenze di chi di rock se ne intende. D’altronde lui lo aveva detto che se ne andava per vincere. Sono io che non l’ho capito e sono rimasto un perdente, per giunta anche ubriaco. Sai che ti dico Toni, mi tengo stretta la copia del 1978 di “Darkness On The Edge Of Town” in vinile e ci scoliamo un’altra birra . Adesso, comincio a sentirmi un po’ meglio. Dopo aver tolto il carico, ho lo stomaco libero per ricominciare a bere. Intanto che tu ordini, telefono alla zia Amalia per dirle che ritardo, se no quella chiama i pompieri, i vigili urbani e la protezione civile per cercarmi. Per me gin e coca questo giro. 

Qualcosa di buono in questo pacco mi è arrivato. Niente di rivoluzionario, intesi , ma onesto e sincero come è sempre stato Peter Wolf, anche quando girava con la sua vecchia band, la J.Geils Band, perché non tutto è andato perduto. C’é chi ancora tiene la barra del timone sulla rotta dei sogni, con coerenza e passione: un matto come Peter è quello che ci vuole, perché solo un matto dal cuore d’oro può dedicare una canzone a Willy De Ville,The Night Comes Down. Da quando è morto nessuno si è preso la briga di onorarlo per quello che merita. Pensa hanno fatto tributi anche a Cristina D’Avena, ma a Willy nulla! Ora tutti questi musicisti che se vanno in giro pieni di boria a fare gli smargiassi che si comprassero “Coup De Grace” e se lo mettessero sul comodino, come l’immaginetta della Madonna, per capire come si fa un disco di rock’n’roll che suoni con l’anima e il cuore e tutto il resto. Ma dove lo si trova un altro che canta come Willy? Neanche in un altro mondo. 

Sai Toni, se potessi farlo gli comprerei mille cd a Peter del suo “Midnight Souvenirs” per ringraziarlo di questo pensiero. Dopo me ne andrei in centro città a distribuirli ai passanti gratuitamente anche perché te lo ascolti e riascolti e ti vien voglia di metterti in macchina magari con una bella pupa a scorrazzare tutta la notte, neanche avessi vent’anni. E dato che sognare non costa nulla mi porterei anche il cd di Alejandro Escovedo per fuggire con lei fin dove le strade diventano canzoni d’amore. 

Guardavo ste classifiche e mi chiedevo: ma il rock dov’è?!. Il rock, quello che nasce nella strada, che arranca e combatte, che lotta, che si indigna. Forse è con i ragazzi di Tunisi, vestito da “Combattente”. Di certo non è in “Le Noise” di Neil Young o in “Leave Your Sleep” di Nathalie Merchant o in “High Violet” dei National. Tutti loro hanno fatto di meglio, di molto meglio, perché mi accontenti di semplici esercizi di stile. Di certo sta con gli operai della Fiat che hanno dovuto votare  al ricatto di Marchionne e di questo governo di prezzolati. Ma in questa nazione quando la finiremo di fare i codardi, di mettere la testa nel buco, di stare tutti zitti di fronte al padrone! Di avere paura. Continuiamo ad ignorare il declino morale ed economico per far piacere ad un vecchio maniaco che ci prende tutti per il culo. Ma perché m’incazzo allora per un disco che non mi piace, mentre tutto va a male e poi mi sento in colpa per questo. Alla fine la musica è il mio salvagente, la mia terra promessa. Perché di terre promesse non ce n’é. Le ancore di salvataggio sono solo ed unicamente quelle che abbiamo dentro di noi, quei sentieri che abbiamo arato, che ci hanno fatto crescere, piangere, ridere, vivere, e in quei sentieri bui e silenziosi che abbiamo formato gli anticorpi, che ci hanno portato fin qui con la testa alta e lo sguardo nel vento, come vecchi capi indiani, orgogliosi di tutta la strada che abbiamo percorso ma ancora per niente paghi. Con quella vecchia fiamma che brucia, con la voglia matta di ascoltare storie di guardare immagini di innamorarci ancora una volta della vita o semplicemente di un disco, di farci chilometri senza una meta solo per sentire il vento e guardare il sole e alla fine ci si sente leggeri, di quella leggerezza che solo i pazzi e i bambini conoscono. Perché andare avanti a volte è difficile, complicato, ma lo facciamo serrando i pugni e mettendoci tutti noi stessi, anche quando ci si sente soli o si è tali davvero. Allora facciamola tutta questa strada. Unicamente per non morire e per non smettere mai e poi mai di sognare.
Alla Vostra.

Bartolo Federico Gennaio2011