mercoledì 29 febbraio 2012
domenica 26 febbraio 2012
Bollettino Delle Emozioni 3. (Al bar da Gino)
Erano
le due o forse le tre del pomeriggio di un domenica pigra e silenziosa e me ne
stavo a cazzeggiare sbracato sul divano mentre la zia Amalia dormiva, russando
sulla sua poltrona della salute, accucciata in un plaid a quadri rossi e neri. Mi ero stappato da poco una birra, ci
si consola come si può, e stavo ascoltando in cuffia Peggy – O, tratta dal Dave’s
Picks Vol 1 dei Grateful Dead, che è un cofanetto in edizione limitata a 12.000
copie, composto da tre cd avvolti in una confezione extra lusso. Sarò sincero,
l’ho trafugato ma non vi dico dove, mica ho lo stipendio milionario dei nostri
ministri, burocrati fasciiiiinooosi. Di tanto in tanto, mi vien voglia di
ascoltare quel freak di Jerry Garcia e il suo errante manipolo di musicanti, magari
quando non sono troppo scarburati e la musica viene fuori più concreta e
fluente. Come accade, per l’appunto, in questo live.
Dicevo,
ero immerso in quella magia onirica, quando sul display del telefonino comparve
la busta del messaggio con il nome del mittente “Tonyilpoeta”. Lo aprii e lessi
pigramente “passo a prenderti tra dieci
minuti. Andiamo da Gino, mi è venuta voglia di una cioccolata calda”. Per
rompere i cabasisi Tony era perfetto, che cazzo gli saltava in mente alle due o
forse le tre del pomeriggio di una fottuta domenica lo sapeva solo lui e quelle
sue strane voglie. Stavo per rispondergli di andarsene a cagare,ma ci ripensai;
dopotutto, uscire non era una cattiva idea. Bevvi la birra d’un fiato e mi
infilai gli stivali texani in finto rettile, spensi la tele che parlava da sola
e che la zia aveva sintonizzato su un programma inutile, condotto da un
altrettanto inutile presentatore. Andai in bagno feci un po’ d’acqua e,dopo,
senza far rumore, mi apprestai ad uscire da casa. Avevo quasi guadagnato la
porta quando ad un tratto sentii urlare, Baaaaart!! Era la zia Amalia in preda
ad un attacco isterico, non le risposi neppure, aprii la porta e mi tuffai giù
per le scale. Appena fuori dal portone, il poeta sopraggiunse con la sua Opel
Corsa grigio topo metallizzato, saltai sull’auto che era ancora in movimento nell’istante in
cui la zia, affacciata sul balcone, inveiva contro di me e Tony, avendo
riconosciutone la macchina.
Se
la rideva allegramente il signorino, mentre gli raccontavo l’accaduto e ci dirigevamo da Gino. Sul cd dell’autoradio suonava una
certa Catherine McLellan, e siccome Tony si fissa con una canzone,
chiacchieravamo col sottofondo continuo di Black
Crow. Al poeta piacciono un sacco le voci femminili, al contrario di me che
ci vado sempre cauto. A dire il vero, però, quel disco, Silhouette, non era per
niente male con quella voce e quel suono riconducibili a Lucinda Williams che è
una delle mie cantanti preferite. Vedendomi un tantinello preoccupato per aver
lasciato sola la zia con l’attacco isterico, il poeta, che era in vena ironica,
mi fece tra il serio e il faceto: “Non preoccuparti , ora le passa, lo sai
com’è fatta la vecchia e adesso che sei fuori il Signor Santino” (il mio vicino
di casa che voleva sposare la zia da tempo immemore) “avrà modo di consolarla. I due ganzi si faranno una bella trombatina e
al tuo rientro sarà quieta come un angioletto”. Aveva davvero un ottimo humor
tutto inglese, quel giorno, il poeta. “Adesso che ne pensi”, continuò
distratto,” se passiamo a prendere Ang?”. Nulla in contrario, risposi, ci
veniva proprio sulla strada quindi provai a chiamare, ma il suo cellulare
squillò a vuoto. “Starà suonando la chitarra e non lo sente squillare” esclamai
ad alta voce. Ang è un ragazzo americano, viene da Pittsburg, e si porta dietro
una storia difficile. Per sopravvivere fa il professore di lingue in una scuola
media cittadina, frequentata da ragazzi stronzetti che non hanno voglia di
imparare nulla. Il più delle volte, finite le lezioni, passa la sua giornata da
solo nella cantina a provare e riprovare le canzoni di Dylan e dei Felice
Brothers, che poi è la stessa cosa. “Chiama ancora, Bart”, mi fa il Kevin
Costner dell’Annunziata, come l’aveva battezzato Elsa la sua nuova fiamma.
Selezionai nuovamente il numero e il telefono riprese a squillare tre, quattro,
cinque, sei, sette volte. Stavo per staccare quando una voce impastata di sonno
rispose “yesss”. “Che fai dormi?” gli faccio ridendo. “Ah, sei tu, Uncle Bart”.
“Preparati”, imposi,”che stiamo passando a prenderti, sono insieme ad Uncle Tony”.
“Ok”, mi fa di rimando, con il suo
accento italo americano che sembra di ascoltare Rocky Roberts quando cantava Stasera mi butto. “Sono già pronto”, mi
rispose.
Balla
con i lupi ancorò l’auto sotto casa e, dopo neanche cinque minuti d’attesa, Ang
fece la sua comparsa. Scompigliato per la fretta di uscire e ancora con la
faccia del sonno, era contento di vederci. Mentre ci avviavamo al bar, ci rivelò
che stava dormendo profondamente perché si sentiva molto stanco. Quella mattina si era fatto un lungo giro con la bici
che lo aveva letteralmente stroncato. Ci svelò che quando il telefono vibrò e
vide sul display il suo nome pensò che stesse sognando e continuò a dormire. Al
mio secondo tentativo guardò nuovamente il display che lampeggiò ancora una
volta il suo nome. Stretto da un sonno pesante, non riusciva a comprendere come
era possibile che fosse lui stesso a chiamarsi. In realtà aveva memorizzato il
mio numero di cellulare con il suo nome. Ridemmo grassamente spaparanzandoci
sui sedili. Gilda, la rossa, passò proprio mentre stavamo per entrare al bar. Abbigliata
di tutto punto, con una mini vertiginosa, mi squadrò salutandomi con un sorriso
Durban’s e tirò dritto. Era stata sempre una bella figa, la Gilda, con un
debole sin da bambina per il sottoscritto. Ogni tanto, a dire il vero, ci
eravamo fatti una montatina, di quelle che non sto qui a raccontarvi nei
particolari. L’unica cosa che posso dire che non era per niente male. Anzi, a
pensarci, mi viene duro anche adesso.
Il
bar era pieno per tre quarti, “Masi Ferru”(Tommaso Ferro), si stava scaldando
al biliardo americano in cui era un vero talento. Lo salutammo e ci rispose di
par suo con un cenno del capo. Quell’uomo era davvero scorbutico. ma quasi imbattibile
al biliardo. Stava in attesa di qualcuno che volesse scommettere con lui anche
se erano rari i frequentatori abituali a sfidarlo. Aspettava paziente qualche
babbeo di passaggio che capitava sempre, essendo il bar ubicato su una via
abbastanza trafficata. Il più delle volte, però, giocava in trasferta dove non
era conosciuto. Masi il pollo se lo cucinava a dovere, facendogli vincere un
paio di partite con relativa facilità; poi, quando il grullo pensava che era
fatta, lo spennava fino all’ultimo centesimo. Ci sedemmo al tavolino che dava
sulla strada e chiamammo Gino per l’ordinazione. Finalmente Tony ebbe la sua
cioccolata calda,mentre io ed Ang ci spillammo una birra rossa da tre quarti di
litro. Fu a quel punto che Tony con un aria da consumato oratore, alla Vittorio
Gassman per intenderci, tirò fuori dalla tasca del cappotto la sua nuova poesia
e ce la lesse:
Dalle tue
braccia/ e dal tuo seno/ m’hai visto
fuggire;/ da una felicità immaginata,/dall’innocente bellezza/ del nostro
istante migliore./ Un cupo dolore ti preferivo,/ l’inconsapevole conato d’aggirare/ la
giovanile illusione/ che, adesso che
nulla più/ a me si muove,/ quasi,/ vorrei,/ di nuovo,/ cullare./ Ragazza nel sole,/ ora che il tuo volto
riappare,/ le tue mani riconquistando/ la loro forma spaziale/ dentro ogni
affiorato ricordo,/ il dolore s’accresce/ al suono della tua voce,/ anch’essa
risorta/ e che nessuno, mai,/ mi disse che, un giorno,/ sarei tornato a
sentire,/ nella tua viva assenza,/ forte,/così.- Suggestioni di Barzin - (Tonyilpoeta)
Eccolo, un altro caduto nella rete di Barzin, dentro quelle note per un amante assente. Un disco che ha la
forza di trafiggerti e di esporti ai quattro venti. Pieno zeppo di ballate
grigie e secche, come un drappello di
cani randagi. Ma anche di pudore. Dedicate a tutti quelli che sono annegati nella notte,
lottando contro la pioggia e il vento. Perché ci sono cose nascoste che uno
pensa di non avere, talmente nascoste che alla fine ci si ritrova vuoti e non
si smette di tremare. Ma quelle tracce
di sangue che hanno rigato l’anima non si possono raschiare. E nemmeno quel fremito che quello sguardo
profondo ha lasciato. Prima che se ne andasse per sempre.
I’m Lonesome,
cantava Ernie Chaffin nel 1957. Guardai fuori la strada e mi persi per un
attimo dentro i miei pensieri. Ehi fratello, i pesci piccoli se la prendono
sempre nel culo! La voce squillante di Lillo il ferroviere mi fece sobbalzare.
Era un uomo distinto e posato, un uomo tutto d’un pezzo. Come me, amava i treni
e le storie di quegli uomini che avevano attraversato l’Italia in cerca di
fortuna. Aveva lavorato come cuccettista,
per tutta la vita sul treno del Sole,quello che partiva da Palermo alle due del
pomeriggio e arrivava a Milano alle dodici del giorno dopo, se tutto andava
bene. Tante volte c’ero salito anch’io quando mi spostavo in cerca di lavoro. Me
le ricordo ancor nitidamente quelle notti su quei lettini pidocchiosi, stretti e
angusti. Anime intorpidite a faccia in
su. Uomini soli gettati nel fondo della notte, fra bagagli grandi come case e
puzza di piedi. Uomini in fuga dalla miseria e dalla mediocrità. Eppure, è in
quei viaggi che mi sentivo come un vero bluesman e quella comunanza mi rendeva il
viaggio meno duro, meno amaro da sopportare. O, forse, in quel tempo mi accompagnava
la speranza. Era davvero come vivere in una canzone di Charlie Patton. Osservavo
curioso gli altri viaggiatori appisolati
sui sedili, facce sconosciute, sorrisi spenti, occhi sconsolati, che guardavano
assorti il paesaggio scorrere dal finestrino opaco per la sporcizia. E quando calava
il tramonto eravamo fermi ancora alla
stazione di Napoli Centrale. Allora dalle buste di cartone marrone , tiravamo
fuori i panini imbottiti con la mortadella o con il salame, che erano avvolti
nella carta stagnola. E dopo, anche le arance sanguinelle e c’era sempre qualcuno
che aveva portato il thermos con il
caffè caldo. Passeggeri pronti a dividere tutto quello che avevamo con chi
magari non aveva nulla. L’ altruismo dei poveri. Uomini, ragazzi, anziani,
volti con cui ho diviso per una notte i sogni e che non ho incrociato mai più. Adesso
anche loro fanno parte dei miei fantasmi. Che non sempre sono dei morti. Come
lo Springsteen lacerante di Nebraska.
Al tavolo della briscola, Peppe Triglia si era
infervorato uscendo fuori dai gangheri, bestemmiando e gettando le fiches addosso
al suo compagno per una mano sbagliata. Ci pensò subito Gino a riportare le
cose nella giusta dimensione. Si avvicinò al tavolo e con molta calma gli mise
una mano sulla spalla, facendogli segno di andare via. Triglia chiese scusa a
tutti e tornò a sedersi. Un attimo prima, Tony aveva chiesto a Nello, il figlio di Gino, di mettere nel lettore cd il nuovo di Andre Williams: “Hoods & Shades”,
che gli avevo passato.
La musica quietò definitivamente gli animi. Cappe&Ombre è un disco di blues paludoso, con quel pizzico di follia che non guasta mai. Cantato, ma anche parlato, dalla voce espressiva e profonda dell’autore che sciorina un blues sghembo come il fil di ferro. Le canzoni sono scolpite da riff di chitarra “mojo”, a volte amplificati con il wha wha, che sono un piccolo piacere. La combriccola che lo accompagna è di tutto rispetto. Jim White (DirtyThree), Greasy Carlisi (Robert Gordon), Jim Diamond (Dirtbombs) e Don Was suonano perfetti per un pomeriggio al bar, se ve lo fanno mettere.
La musica quietò definitivamente gli animi. Cappe&Ombre è un disco di blues paludoso, con quel pizzico di follia che non guasta mai. Cantato, ma anche parlato, dalla voce espressiva e profonda dell’autore che sciorina un blues sghembo come il fil di ferro. Le canzoni sono scolpite da riff di chitarra “mojo”, a volte amplificati con il wha wha, che sono un piccolo piacere. La combriccola che lo accompagna è di tutto rispetto. Jim White (DirtyThree), Greasy Carlisi (Robert Gordon), Jim Diamond (Dirtbombs) e Don Was suonano perfetti per un pomeriggio al bar, se ve lo fanno mettere.
Le ore erano volate in un botto, lasciammo Ang che erano ormai le dieci della sera. Sotto
casa, non appena sceso dall’auto, il professore tirò fuori dalla borsa che
teneva a tracolla un cd. “Prendilo, è
per te, Bart”, disse, “me lo ha spedito mia madre” e me lo porse con una
gentilezza che mi commosse. Guardai l’involucro e lessi il nome Drew Nelson. Non
mi diceva nulla ma lo accettai di buon grado. Quando rientrai zia Amalia dormiva sul divano con la testa
appoggiata sulla spalla del signor Santino, anche lui sprofondato nelle braccia
di Morfeo. Spensi la tele e pure il lampadario, accesi la lampada del comò e
stesi sui micetti un piumone.
Devo tornare sulle strade secondarie, quelle battute dal
vento tignoso, su quei paesaggi di polvere e nulla, rimuginai. La prima canzone
che apre Tilt -A - Whirl, il cd di Drew Nelson,
si intitola Promised Land, proprio come quella là, e tira un rock che ti
ritrovi per un attimo con il piccolo uomo di Asbury Park sulla radio della
macchina a scolarti la vita in una scuffia di luce. Ci sono dentro questo disco
tutte quelle cose con cui ho sempre fatto i conti, la gente senza lavoro, i veterani
di guerra lasciati a marcire da soli sullo sfondo di una città troppo crudele
per prendersene cura. Amanti abbandonate, immigrati clandestini. Tutti senza
una direzione. Anime perse che nell’ombra svaniscono, ma tenute insieme, questa
volta, da un manipolo di canzoni belle e vere, cantate da una voce sincera,
forte e convincente, che vanno a scavare
sotto la pelle, abbigliate con chitarre elettriche ed acustiche puntellate da
un organo che è un brivido profondo. Canzoni che hanno fatto grande la
provincia americana partendo dal primo Bruce e finendo allo Steve Earle di memoria
rock.
St. Jude, una accorata supplica al santo amico della
gente disperata, amplifica la nostalgia per quei sentieri per pochi, delle
insegne dei motel, di quell’umanità che, come per miracolo, è ancora in piedi,
nonostante il fallimento della propria vita. Adesso, ho con me la musica per
prendere tutte le deviazioni volute, tra visioni e turbamenti. Il treno del
rock si è nuovamente fermato proprio
davanti casa mia e i miei fantasmi sono tutti lì, ammucchiati sulle carrozze, e mi stanno facendo strada, un'altra volta,
verso la direzione dei miei sogni. E mi sento come un debuttante dai capelli
grigi.
Bartolo Federico -
Febbraio 2012
mercoledì 22 febbraio 2012
sabato 11 febbraio 2012
Howlin Rain – The Russian Wilds-
Ha ragione Paolo Vites, quando afferma che il miglior rock è targato anni 70.Quei dischi sono ancora oggi un godimento per le orecchie e per il cuore. Per puro caso cado dentro i solchi di questo, “The Russian Wilds” e nelle grinfie di questa band gli Howlin Rain,(che nome bellissimo) che camminano proprio su quei sentieri. Nella loro musica, si riconoscono gli Allman Brothers di Live at The Fillmore East, il Santana di Lotus e l’Hendrix di Electric Layland. In un delirio musicale selvaggio e dirompente,suonano e cantano canzoni spiazzanti che parlano della perdita, del dolore e della redenzione.Produce Rick Rubin. Già che ci penso,tutta materia con cui Vites va a nozze. Vuoi vedere che riapre il blog.
Bartolo Federico -Febbraio 2012-
mercoledì 8 febbraio 2012
sabato 4 febbraio 2012
Voglio Parlare Di Te.
La notte sembrava che stesse danzando dentro i suoi respiri, la sua collera e i miei rimpianti. Continuava a piovere senza vento e non dava accenno di smetterla. Nessuno riesce a sfuggire alla propria sorte. Neanche a Sal era riuscito di farlo. Lui che generalmente era cauto, ci aveva preso gusto a sfidarla. Altre volte ne era uscito per il rotto della cuffia, beffandola proprio ai tempi supplementari. Chissà se questo continuo sottrarsi alle sue grinfie, lo aveva illuso di potercela sempre fare. Oppure, semplicemente, non era arrivato ad innestare la marcia indietro. Ma il destino è feroce, impassibile, ti cucina a puntino con pazienza e ti fa fuori in un baleno.
Lasciai vagare i pensieri mentre attraversavo a piedi la città che era una carcassa, e sentii l’odore acre delle mie paure assalirmi. A ognuno il suo viaggio. Il mio era diventato amaro, scortato dalla pioggia e dalla tristezza. Un uomo mi urtò con durezza sul fianco, proseguendo con indifferenza per la sua strada. Mi limitai ad osservarlo con uno sguardo pensoso. Un tempo rimuginai, avrei attaccato briga. Quel senso di giustizia che avevamo entrambi, ci aveva rovinato la vita. Al contrario di tanti, credevamo di sapere da che parte stare. Per questo ci eravamo scollati dal mondo. Come fuggiaschi braccati o, probabilmente, come due coglioni qualunque. Eravamo finiti soli, a scuotere l’ombra delle nostre inquietudini. Avevo il cuore smozzicato, mentre la pioggia si infilava ovunque. Mi spinsi dentro un portone e sul secondo gradino delle scale, una ragazza intenta a fumarsi un joint, stava accovacciata in un angolo, con l’aria di chi stesse aspettando qualcuno. La guardai un istante sotto la luce smorta della lampadina a neon. Il suo volto aveva un espressione che mi ricordò Nico, la chanteuse tedesca. Quella strana creatura inquietante, figlia di quella Berlino mitica e decadente. Accennai un saluto, ma lei si limitò a lanciarmi uno sguardo, di un freddo polare.“Uno, due, tre. Se chiudi la porta la notte potrebbe durare un’eternità. Lascia fuori la luce del sole e di’ addio al mai”.(Afterhours- The Velvet Underground-)
Con Sal, ci eravamo conosciuti da ragazzi. La sua famiglia era venuta a stare nel mio palazzo, nell’appartamento proprio sotto al mio. Da principio quando ci incontravamo per le scale ci scrutavamo in cagnesco. Tutti e due introversi, di poche parole e per niente inclini ai convenevoli. Poi pian piano, non si sa per quale strana alchimia, legammo. E la nostra amicizia si consolidò a tal punto da divenire inseparabili. A volte ci sentivamo come se fossimo, Sal Paradise e Dean Moriarty, i protagonisti inquieti di “Sulla Strada”. La verità è che per due disadattati come noi, era più semplice starsene da soli che vivere in gruppo. “L’universo intero era pazzo e obliquo ed estremamente bizzarro.”(Sulla Strada-Jack Kerouac-)
Quando gli morì il padre, la madre che accudiva altri tre figli, lo rinchiuse per sette lunghi anni in collegio. Quest’evento lo sconquassò per sempre nell’animo. In seguito finita la scuola dell’obbligo, andò a lavorare e con la sua piccola paga settimanale come commesso in un negozio di elettrodomestici, dava una mano per le spese della casa. Altre volte con i suoi risparmi, mi soccorreva, per pagare i dischi che compravo per corrispondenza. A quel tempo, ero uno studente capellone e squattrinato, perso nei sogni di rock’n’roll, innamorato dei grandi spazi e di quelle strade lunghe e diritte che costeggiano il mare e che sembrano sprofondare nell’infinito del cielo. Del blues, di Elvis e di quel pazzo di Jack Kerouac.Tutte cose che nel tempo, anche lui imparò ad apprezzare. ”Manama, amico, lo facciamo; prenditi un’altra birra, amico dacci dentro, dacci dentro!” (Sulla Strada-Jack Kerouac).
Uscii dal portone, squadrando il grigiore della mia vita. Aveva smesso di piovere. L’orologio del campanile segnava le undici e trenta. Ancora troppo presto per far ritorno a casa dai miei fantasmi. Guardai quella fetta di cielo gelido sopra la mia testa. Era sgombro da nuvole, e la luna si mostrò con una cicatrice. Mi brillarono gli occhi pensando che fosse l’ombra di Sal, che se andava scorrazzando lassù. Le note del sax di John Coltrane, di “I want to talk about you” echeggiarono nell’aria.
Era un mondo disgustoso quello che appariva ai suoi occhi, per questo negli ultimi anni si era sempre più sprangato, quasi cercasse dentro se stesso un territorio più adatto per vivere. Non avevamo mai avuto certezze, ma con il passare del tempo questa condizione lo aveva reso insofferente e si era inferocito con il mondo e con la gente che lo sfruttava nel suo lavoro di operaio tuttofare. Proprio lui che aveva un cuore d’oro e neanche un milligrammo di cattiveria alla fine non si fidava più di niente e di nessuno. Con ragione si sentiva solo, debole e insicuro. Cosi con quella rabbia repressa, accumulava rancore giorno dopo giorno. Mentre quella strana nostalgia, che aveva per tutto quello che non era riuscito a fare, gli smantellava il cuore.“Quando sei in un sogno e pensi di aver capito tutti i tuoi problemi, tutte le tessere del puzzle sembrano agitarsi su e giù. E quando poi cominci a cadere e quelle orme cominciano a svanire. Be’ allora sai che stai andando giù sì, stai crollando del tutto e sai che stai andando giù, per l’ultima volta.”(Going Down - Lou Reed -)
Mi sentivo come se avessi avuto diecimila anni. La sua scomparsa mi aveva stramazzato al suolo. Qualcosa era finito, non avevo più niente dietro di me. Forse neanche la mia ombra. Mentre un alone di paura mi cerchiava il viso, sapevo che nulla sarebbe stato più come prima. Qualche nuvola smunta era sbucata nel cielo. Come avrei fatto adesso, me lo chiesi più volte, durante la mia camminata solitaria, con gli occhi appannati dalle lacrime, e la tromba semplice e piena d’umanità di Miles Davis a sorreggermi.
Bartolo Federico -Febbraio 2012-
A Sal, che è stato un dono.
mercoledì 1 febbraio 2012
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