Lento
ed inesorabile fu il declino. Dapprima lo aveva scrutato con sospetto,
poi si era lasciato andare finendo sempre più giù, dove il blu diventa
nero, dove il nero è l’unico colore per chi dorme sul letto del demonio.
Seduto al crocicchio aspettava paziente bevendo gin e masticando
tabacco, mentre corvi neri mulinavano sulla sua testa. Se n’era andato
da molto tempo e, a furia di stare da solo, aveva finito col non fidarsi
più di nessuno, neppure di se stesso. Tuttavia, quel fuoco profondo
dentro di sé gli aveva riportato tutto in superficie, per cui certe cose
andavano risolte: non poteva lasciar perdere, non se lo sarebbe mai
perdonato. Era stato un bel ragazzo Rosario da giovane, uno di quelli
per cui le donne facevano a gara ad uscire con lui. Nel quartiere lo
chiamavano “Sarino faccia d’Angelo” , anche se a guardarlo oggi non lo avrebbero riconosciuto neppure i suoi vecchi amici: Rocco, Gaspare, Bruno, Lillo,
ragazzi con gli occhi scuri e profondi come il mondo, carichi di
speranza con cui aveva condiviso tutto, dalle prime seghe dietro il muro
del torrente sbirciando i giornali porno, ai pochi soldi che riuscivano
a raccattare per andarsene con l’autobus al mare, sulla spiaggia di
Mondello, la località della Palermo “bene”. Si recavano la
domenica mattina e ci restavano tutto il giorno, ed era in quelle
giornate che si sentivano di appartenere al mondo dei vivi, sdraiati
sulla sabbia a guardare le belle donne , divertendosi a chi gli veniva
per prima duro. Sarino osservava quel mondo e pensava che ci sarebbe
entrato dalla porta principale. Era convinto che un giorno avrebbe avuto
il macchinone, la barca a vela e cenato al “Charleston” con
ostriche e Champagne, non come a casa sua che se gli andava bene c’era
un uovo fritto e l’ insalata di pomodoro. Non lo avrebbero riconosciuto i
ragazzi con quella brutta faccia scura, la pelle flaccida, magro da
fare paura, con le borse sotto gli occhi, i capelli grigi e lo sguardo
febbrile che sembrava un condannato a morte. Gli mancavano i suoi amici e
tutto quello che aveva lasciato, anche se quel tutto alla fine
coincideva col nulla e gli mancava adesso anche quel senso del pudore
che lo aveva abbandonato da troppo tantissimo tempo. Seduto nell’ombra
tentava di spiegarsi quei pensieri, quelle strane sensazioni che lo
inquietavano che lo avevano reso vulnerabile. Lui che non aveva paura di
nulla. Neppure di Dio.
Guardò
verso il cielo e sputacchiò il tabacco che fini sulla punta di una
scarpa. Quel buco tra le nuvole gli parve la sua tomba che lo scrutava ,
che lo braccava. Ridacchiò nervoso ed accarezzò la pistola, e si sentì
nuovamente sicuro, invincibile, come quando la usò per la prima volta in
pieno centro a Palermo. Aveva sedici anni e l’aria da duro ma,
nonostante la giovane età, era alto e con le spalle larghe, costruitesi
nei cantieri a spalare terra e a trasportare cemento con la carriola.
Due braccia forti e un fisico scolpito che avrebbe potuto fare il
tuffatore se solo fosse nato dieci chilometri più avanti e non allo Zen.
I boss lo avevano notato e tenuto sott’occhio: uno come lui non passava
inosservato. Per tastare la sua affidabilità gli avevano prima
assegnato lavoretti di poco conto, come la vedetta. Perlustrava tutto il
giorno una strada e, se scorgeva qualcosa di anomalo, doveva solo
avvertire il capo. In seguito, quando prese la patente, gli fecero fare
l’autista delle femmine dei capoccia. Le accompagnava a fare compere o
ad incontrarsi in luoghi segreti con il loro uomo, se era latitante.
Qualche tempo dopo lo passarono alle estorsioni. Era ormai un uomo di
fiducia, rispettava le regole e non discuteva mai un ordine. Se l’era
meritato quel posto, anche perché aveva il cuore di pietra contro chi si
azzardava a protestare anche minimamente al pagamento del pizzo. Infine
lo istruirono a sparare nelle campagne di Bagheria. Ogni giorno si
allenava per ore tirando alle lattine di birra ed in seguito alla
sagoma. Ed è lì che mostrò il suo talento, non sbagliava mai un colpo .
Quando
gli fu assegnato il suo primo lavoro da sicario, il Boss in persona lo
andò a prelevare alla sala giochi. Sarino lo vide entrare e gli bastò un
cenno degli occhi per capire che voleva parlargli in privato. Senza
troppa premura, salutò i ragazzi ed uscì dalla sala. Si accomodò in
macchina e restò in silenzio. Il boss guidò in lungo e in largo per la
città. Giunti a Piazza Politeama, posteggiò la vettura e scesero.
Camminarono per via Ruggero Settimo guardando le vetrine dei negozi,
sempre senza parlarsi, ma non era in imbarazzo per quel silenzio, sapeva
che qualcosa bolliva in pentola, doveva solo attendere. Cosi fu. Ad un
tratto il Boss lo prese sotto braccio e, proferendo a bassa voce, gli
spiegò la questione nei minimi dettagli. Due giorni dopo “Faccia d’Angelo”
portò a termine il suo compito con precisione chirurgica. Scese dalla
moto guidata dal complice, si avvicino all’uomo che gli avevano mostrato
nelle foto e gli sparò in mezzo agli occhi. Dopo che cadde in terra lo
osservò per un attimo gli puntò nuovamente il revolver alla tempia e
fece nuovamente fuoco. Il sangue della vittima gli schizzò sui vestiti
insieme a qualche brandello di materia cerebrale. Restò freddo e
indifferente, poi, con molta calma, mentre i passanti scappavano
terrorizzati, rimontò sulla moto e partì a tutta velocità.
Divenne
un sanguinario, una macchina telecomandata da Cosa Nostra, pronto in
qualsiasi momento ad entrare in azione. Si arruolò per un periodo nella
legione straniera dove perfezionò le tecniche di guerriglia, mentre il
suo mito si espandeva oltre confine, a un punto tale che altre
organizzazioni mafiose richiesero i suoi “servizi”. Dopo quell’uccisione
si distaccò dai ragazzi, sapeva che la sua vicinanza li avrebbe potuti
mettere in pericolo, loro rappresentavano la sua famiglia e lui da quel
momento era un possibile obiettivo.
Aveva
piovuto abbondante durante l’inverno in Sicilia e il ciglio della
strada era cosparso di fiori. Il rumore di passi lo mise in allerta, si
spostò a ridosso del muro e osservò tre uomini aprire il cancello
automatico ed entrare nella villa, ma erano troppo brilli e fatti di
coca per accorgersi di quell’ombra nel buio. Li sentiva ancora oggi: il
rumore di quei passi sulla scala che scricchiolava sotto il peso del
corpo del suo patrigno. Un uomo dalla stazza enorme, un bruto che viveva
di espedienti e alla sera si beveva al bar tutto il denaro che riusciva
a raggranellare durante il giorno Non era stato il suo primo delitto.
Quello era avvenuto molto tempo prima, appena dodicenne, nel silenzio di
una notte senza memoria. Il patrigno tornava a casa sempre ubriaco
fradicio. Lui e sua madre erano terrorizzati da quell’uomo al punto che
iniziavano a tremare non appena lo sentivano salire per la scala di
legno che portava a quel minuscolo pertugio chiamato casa. Sotto il suo
peso la scalinata ondeggiava paurosamente e data la sua mole faceva una
fatica boia a salire. Ad ogni gradino superato bestemmiava da fare
schifo. Raggiunto il piccolo ballatoio, ansimando come un animale,
apriva la porta con un calcio e, una volta dentro, sera per sera, senza
motivo, li massacrava di botte. Una volta, furono talmente violente le
bastonate che la madre rischiò di morire tant’é che finì in ospedale,
quasi in coma, ma, nonostante ciò, la donna non ebbe il coraggio di
denunciarlo.
Mentre era in convalescenza in ospedale, ci pensò lui a sistemare le cose. Non era più in grado di sopportare la disperazione che gli leggeva negli occhi. La quinta notte che trascorse da solo pioveva e faceva freddo. Aspettò accovacciato nel buio del piccolo ballatoio, attese paziente che il patrigno raggiungesse quasi la cima e a quel punto gli si piazzò davanti. Tenendosi con le braccia da parete a parete gli sferrò un calcio a piedi uniti in pieno petto. L’energumeno dapprima vacillò, cercando un appiglio, poi cadde pesantemente all’indietro rotolando per tutta la scala, finendo a sbattere la testa sul muro del portone d’ingresso. Morì sul colpo con l’osso del collo spezzato. Attese una manciata di minuti per vedere se arrivava qualcuno, dato il frastuono che la caduta aveva provocato, ma, come immaginava, nessuno si fece vivo. Scese le scale, si avvicinò per la prima volta a quell’uomo e, guardandolo con spregio, lo prese per i capelli e gli sputò in faccia. Poi risalì nuovamente le scale rientrò in quel buco e si mise a dormire. Lo trovarono all’alba accartocciato su se stesso, nell’androne di quella fatiscente abitazione . La sua morte divise il quartiere: per alcuni fu una disgrazia, per altri un segno di Dio. Non è facile allontanarsi da Dio, anche quando vai in rovina, anche quando ti ritrovi oltre la linea in cui batte il sole. Dentro di te sai che non puoi sfuggirgli, lo sai bene. Anche se il mondo dimenticasse i tuoi orrori, Lui non poteva farlo. Era davanti a Lui che ti saresti presentato un giorno. Come per chiunque era solo una questione di tempo.
Mentre era in convalescenza in ospedale, ci pensò lui a sistemare le cose. Non era più in grado di sopportare la disperazione che gli leggeva negli occhi. La quinta notte che trascorse da solo pioveva e faceva freddo. Aspettò accovacciato nel buio del piccolo ballatoio, attese paziente che il patrigno raggiungesse quasi la cima e a quel punto gli si piazzò davanti. Tenendosi con le braccia da parete a parete gli sferrò un calcio a piedi uniti in pieno petto. L’energumeno dapprima vacillò, cercando un appiglio, poi cadde pesantemente all’indietro rotolando per tutta la scala, finendo a sbattere la testa sul muro del portone d’ingresso. Morì sul colpo con l’osso del collo spezzato. Attese una manciata di minuti per vedere se arrivava qualcuno, dato il frastuono che la caduta aveva provocato, ma, come immaginava, nessuno si fece vivo. Scese le scale, si avvicinò per la prima volta a quell’uomo e, guardandolo con spregio, lo prese per i capelli e gli sputò in faccia. Poi risalì nuovamente le scale rientrò in quel buco e si mise a dormire. Lo trovarono all’alba accartocciato su se stesso, nell’androne di quella fatiscente abitazione . La sua morte divise il quartiere: per alcuni fu una disgrazia, per altri un segno di Dio. Non è facile allontanarsi da Dio, anche quando vai in rovina, anche quando ti ritrovi oltre la linea in cui batte il sole. Dentro di te sai che non puoi sfuggirgli, lo sai bene. Anche se il mondo dimenticasse i tuoi orrori, Lui non poteva farlo. Era davanti a Lui che ti saresti presentato un giorno. Come per chiunque era solo una questione di tempo.
Ebbe
tutto Sarino: soldi, donne e potere, la bella vita che aveva sognato.
Poi, quando dopo un omicidio eccellente l’aria si fece troppo calda,
l’organizzazione lo spedì in America al servizio delle famiglie che
comandavano a New York. Lì le cose cambiarono di molto. Era un ricercato
e doveva vivere nell’anonimato più totale. Troppi segreti celava per
potersene andare per i fatti suoi. Si stabilì nel quartiere italiano, in
un appartamento senza pretese perché, anche se possedeva una montagna
di denaro, non poteva usarlo senza dare nell’occhio. Il suo nome era
ormai tra quelli dei mafiosi più pericolosi . A New York viveva come un
eremita. Quando c’era da fare un “lavoro” veniva contattato
tramite una cassetta di sicurezza dove trovava le indicazioni e il
denaro contante. Portata a termine l’operazione restava da solo al
chiuso di quell' appartamento che stava diventato un supplizio.
Era un uomo schivo Sarino, ma leale, non metteva nessuno a rischio che non facesse parte del giro. Per questo motivo non s’innamorò mai, aveva appreso bene che non era possibile tenere una relazione. Questo lo avrebbe reso debole e un facile bersaglio. Ma la solitudine lo stava consumando a piccoli bocconi, tanto che cominciò a bere e fumare hascisc. Quando si annega ci si appiglia a qualunque cosa. Quella sera si era scolato due bottiglie di vino rosso ed era uscito, aveva voglia di camminare. Aveva saputo che sua madre era morta tramite un messaggio che aveva trovato nella cassetta di sicurezza. Avrebbe voluto correre da lei, metterle un fiore sulla tomba, ma era rinchiuso in quel carcere all’aperto che per lui era diventata da anni New York. Camminava col suo tormento e si chiedeva il perché di tutto questo. Era a secco di energia, si stavano spalancando le feritoie della sua corazza, si erano rimossi quei brandelli di vita che possono essere la nostalgia o il rimorso. Così quando passò dal quel locale e decise di entrarci per continuare a bere non pensava che l’imponderabile era lì che lo attendeva. Si accomodò nel salottino buio ordinando dello scotch liscio. Il locale era pieno di gente, sul piccolo palco un quartetto di jazz stava suonando. Non aveva mai provato interesse per la musica, se si sforzava non riusciva neanche a ricordare una canzone, ma il suono di quel sassofono, quei colori, l’intensità di quella musica, man mano che prestava la sua attenzione, si insinuavano dentro di lui profondamente, provava emozioni che non sapeva di possedere.
Tutto in una volta sentiva la tristezza, la disperazione, ma anche la gioia. Cos’erano quelle sensazioni, da dove arrivavano, chi era stato per tutto questo tempo, dove aveva vissuto, perché non voleva che smettessero di suonare? Era come se si fosse iniettato una droga che faceva male, che lo feriva nel profondo, ma nello stesso tempo era anche una coltre calda, come le carezze di sua madre quando era tornata dall’ospedale. Lei glielo aveva letto negli occhi, sapeva quello che era accaduto ed appena entrata in casa lo aveva abbracciato a lungo, tenendolo stretto a se, e lui si era rannicchiato impaurito tra le sue braccia. Cosa avrebbe fatto Dio di lui, un uomo che lo aveva sfidato, vilipeso, una pietra senza muschio, un tronco senza radici, un pazzo scellerato che aveva fatto un patto con il Diavolo e che adesso chiedeva clemenza. Che avrebbe fatto Dio di lui che aveva sempre vissuto nel male, nell’’oscurità delle tenebre, che aveva provocato dolore e morte? Se lo domandava giacché sapeva che il sangue era difficile da pulire.
Era un uomo schivo Sarino, ma leale, non metteva nessuno a rischio che non facesse parte del giro. Per questo motivo non s’innamorò mai, aveva appreso bene che non era possibile tenere una relazione. Questo lo avrebbe reso debole e un facile bersaglio. Ma la solitudine lo stava consumando a piccoli bocconi, tanto che cominciò a bere e fumare hascisc. Quando si annega ci si appiglia a qualunque cosa. Quella sera si era scolato due bottiglie di vino rosso ed era uscito, aveva voglia di camminare. Aveva saputo che sua madre era morta tramite un messaggio che aveva trovato nella cassetta di sicurezza. Avrebbe voluto correre da lei, metterle un fiore sulla tomba, ma era rinchiuso in quel carcere all’aperto che per lui era diventata da anni New York. Camminava col suo tormento e si chiedeva il perché di tutto questo. Era a secco di energia, si stavano spalancando le feritoie della sua corazza, si erano rimossi quei brandelli di vita che possono essere la nostalgia o il rimorso. Così quando passò dal quel locale e decise di entrarci per continuare a bere non pensava che l’imponderabile era lì che lo attendeva. Si accomodò nel salottino buio ordinando dello scotch liscio. Il locale era pieno di gente, sul piccolo palco un quartetto di jazz stava suonando. Non aveva mai provato interesse per la musica, se si sforzava non riusciva neanche a ricordare una canzone, ma il suono di quel sassofono, quei colori, l’intensità di quella musica, man mano che prestava la sua attenzione, si insinuavano dentro di lui profondamente, provava emozioni che non sapeva di possedere.
Tutto in una volta sentiva la tristezza, la disperazione, ma anche la gioia. Cos’erano quelle sensazioni, da dove arrivavano, chi era stato per tutto questo tempo, dove aveva vissuto, perché non voleva che smettessero di suonare? Era come se si fosse iniettato una droga che faceva male, che lo feriva nel profondo, ma nello stesso tempo era anche una coltre calda, come le carezze di sua madre quando era tornata dall’ospedale. Lei glielo aveva letto negli occhi, sapeva quello che era accaduto ed appena entrata in casa lo aveva abbracciato a lungo, tenendolo stretto a se, e lui si era rannicchiato impaurito tra le sue braccia. Cosa avrebbe fatto Dio di lui, un uomo che lo aveva sfidato, vilipeso, una pietra senza muschio, un tronco senza radici, un pazzo scellerato che aveva fatto un patto con il Diavolo e che adesso chiedeva clemenza. Che avrebbe fatto Dio di lui che aveva sempre vissuto nel male, nell’’oscurità delle tenebre, che aveva provocato dolore e morte? Se lo domandava giacché sapeva che il sangue era difficile da pulire.
Dopo
quella sera, Rosario tornò spesso al club, tanto da farsi anche amico
di molti musicisti che lo rispettavano perché era pieno di passione, che
traspariva da tutto il suo corpo quando ascoltava il jazz. La sua vita
era mutata. New York non era più una prigione. Il giorno lo trascorreva
quasi sempre al negozio di musica. Aveva acquistato lo stereo,
insonorizzato la stanza ed era riuscito a comprare tutti i dischi che
man mano desiderava in vinile. Si era innamorato perdutamente del suono
del sassofono. John Coltrane e Charlie Parker erano i suoi preferiti,
conosceva tutto di loro, si era documentato attraverso i libri che aveva
imparato a leggere e i giorni colavano via. Non aveva il minimo sentore
di quello che gli sarebbe caduto addosso. Si sentì male durante la
notte, prese a vomitare sangue, era a pezzi. L’indomani, quando andò dal
dottore in una clinica privata,lo sottoposero a tutti gli accertamenti e
il responso fu: cancro. Gli restavano ,ad esagerare, sei mesi di vita .
Rifiutò tutte le cure, prendeva solo la morfina quando il dolore si
faceva insopportabile . Ogni giorno andava un infermiera che lo
controllava e che pagava profumatamente per il suo silenzio. Era
invecchiato tutto in una volta, stava diventando uno scheletro, non
usciva quasi più ma continuava ad ascoltare il jazz, l’unica cosa che lo
rasserenava. Si era comprato anche un sassofono che teneva sempre con
sé e che soffiava leggermente quando sentiva di avere un po’ di forza
in più. Di colpo non voleva morire, lui che con la morte ci andava a
letto.
Pioveva
sulla città gocce grandi come palle da biliardo. Era uscito per fare
delle piccole compere, entrò nell’edificio e salì le scale. Arrivato
alla porta del suo appartamento vide il segnale. Uscì nuovamente e andò
alla cassetta di sicurezza. Prese il plico, lo nascose dentro la giacca,
richiuse la cassetta e tornò a casa. Lesse gli ordini: lo volevano in
Sicilia per un lavoro che solo lui poteva portare a termine. Ma Sarino
non era più in grado di farlo, non perché avesse il cancro, ma perché
adesso era un altro uomo, era un’altra persona che nessuno conosceva,
che nessuno aveva mai visto, non era più in grado di sparare solo perché
gli era stato ordinato. Adesso desiderava solo di starsene sospeso, con
la musica, tra le nuvole per afferrare tutto quello che si era perso,
anche le cose più insignificanti, che poi sono quelle che ti aiutano a
resistere.
Ripiegò
il plico e lo bruciò nella scodella. Raccattò tutte le cose che poteva
portarsi e quella sera stessa andò via da New York. Prese un aereo
diretto a Parigi e si sistemò in una pensione. Non gli restava molto da
vivere e nella sua faccia cinerea si poteva leggere il rimpianto e
l’amarezza per non avere mai saputo chi fosse. Ma un soldato non può
disobbedire agli ordini, la reazione di Cosa Nostra a quello sgarro fu
spropositata. Neanche lui si aspettava una cosa del genere. Tutti in un
giorno furono ammazzati i ragazzi come scarafaggi: Rocco ,Gaspare, Bruno, Lillo,
persone innocenti che avevano avuto la sfortuna di essergli stati
amici. Anche se non lo vedevano da anni era sempre nei loro pensieri,
nei loro cuori. Gli mancava Sarino enormemente come loro mancavano a lui
. Ma la mafia è una bestia crudele che ti spreme dalla coda, per
succhiarti il cervello che colpisce chiunque con inaudita ferocia.. Che
non ha rispetto per nessuno, se non per i suoi sporchi traffici. Questo
aveva imparato.
Un
paio di giorni dopo aver appreso la notizia, affittò una macchina e
viaggiò fino a Milano. Lì cambiò auto fino a Firenze dove sostituì
ancora la vettura. Quando stava per arrivare a Villa San Giovanni, dal
ponte dell’autostrada vide la costa della sua terra ma non provò nessuna
emozione. S’imbarcò sul traghetto e raggiunse la Sicilia. Arrivò a
Palermo nella notte. Prima di lasciare Parigi aveva aperto dei conti
correnti a nome delle famiglie dei ragazzi dove aveva depositato tutti i
suoi soldi. Stava a loro accettarli o meno . Nessuno sapeva che un
giorno a Pippo “u Surici “ aveva salvato la vita e da allora gli
era debitore. Sarebbe passato ad incassare la ricompensa. Gli bussò alla
porta in piena notte che quasi schiattava dalla paura. Quando aprì non
lo riconobbe subito. Sarino restò fermo sull’uscio, poi prese a
parlargli e fu allora che “u Surici” capì chi era e
l’abbracciò. Sarino gli spiegò cosa avrebbe dovuto fare, poi si
allontanò nel buio. Il giorno dopo verso le nove di sera al posto
convenuto Pippo si presentò puntuale e gli fornì le informazioni
richieste. Tutto era rimasto tale e quale a quando aveva lasciato
Palermo. Rosario gli disse che aveva apprezzato quanto fatto e gli
allungò del denaro che lui rifiutò dicendo che i ragazzi non si
meritavano quella fine. Si salutarono e andò via. Raggiunse Carini
dall’autostrada. Una volta uscito dallo svincolo attraversò il paese ed
arrivò nella zona dove c’erano le ville dei capi cosca,lo conosceva bene
quel posto per averlo in passato frequentato. Era estate, il caldo era
soffocante. Prima d’imboccare la stradina che portava alla villa
posteggiò la macchina e s’incamminò a piedi. Si nascose nell’agrumeto,
dietro il muro a secco, ed aspettò.
Il Boss era abitudinario, non aveva nessun timore ad uscire da solo, le famiglie erano in pace non correva pericoli. Alle cinque del mattino il cancello automatico della villa si spalancò ed il Capo uscì in pantaloncini e maglietta per la sua consueta camminata mattutina. Rosario aspettò che il cancello si richiudesse. Mentre il capo prese a camminare verso l’agrumeto, gli sbucò dal buio e l’affiancò. I due si guardarono negli occhi per un lungo istante e mentre il "morto che camminava" capì cosa stava per succedere, un rumore sordo squarciò il silenzio, la pallottola gli spappolò il cervello e cadde riverso in terra. Rosario trascinò con fatica il corpo dietro il muro a secco, lo ricopri con rami e foglie di limone, prese il telecomando dal piccolo borsello che portava al collo e si diresse alla villa. Da fuori con un colpo preciso uccise il pitbull, ed entrò. Passò veloce il terrazzino, arrivò alla porta di casa . Salì le scale con movimenti rapidi e silenziosi, raggiunse il piano notte, sgusciò nella stanza da letto,dove la moglie del boss dormiva con il televisore acceso, si avvicinò , prese il cuscino, lo appoggio delicatamente sul volto della donna e gli sparò. Uscì dalla stanza e si diresse dove dormivano i tre figli, li sentì russare. Non si accorsero nemmeno di morire.Rifece il percorso inverso , raggiunse la macchina, imboccò l’autostrada ed uscì ad Alcamo est. Salì fino al paese e proseguì per la strada provinciale che portava a Sciacca. Arrivò in quel luogo che conosceva perché aveva accompagnato le donne dei boss quando faceva l’autista. Era un radura circondata dai vigneti, ma non era visibile quello spiazzo dalla strada, ci potevi arrivare solo se conoscevi il luogo.
Scese dalla macchina lasciando lo sportello aperto,dal sedile prese il sassofono si sentiva terribbilmente stanco, il dolore si faceva fortissimo. Si portò fino al centro della spiazzo, tirò fuori la pistola dalla cinta e la lanciò il più lontano possibile. S’inginocchiò in terra, ne raccolse un pugno s’imbrattò il viso e ne assaporò un po’: in quel momento per la prima volta sentì l’odore delle zagara, del gelsomino, dell’uva, dell’erba fresca, si rannicchiò in posizione fetale sotto il sole che sorgeva e si strinse forte al cuore il sassofono. Restò in quella posizione due giorni e due notti come un animale braccato che si leccava le ferite, ebbe gl’incubi e tutti quelli che aveva ammazzato lo andarono a trovare. Li chiamò per nome uno ad uno, mentre finalmente il suo essere prendeva forma .Poi sognò i ragazzi in un punto irraggiungibile che gli sorridevano e fu allora, che Faccia d'Angelo chiuse gli occhi per la prima volta nella sua vita. Dolcemente.
Il Boss era abitudinario, non aveva nessun timore ad uscire da solo, le famiglie erano in pace non correva pericoli. Alle cinque del mattino il cancello automatico della villa si spalancò ed il Capo uscì in pantaloncini e maglietta per la sua consueta camminata mattutina. Rosario aspettò che il cancello si richiudesse. Mentre il capo prese a camminare verso l’agrumeto, gli sbucò dal buio e l’affiancò. I due si guardarono negli occhi per un lungo istante e mentre il "morto che camminava" capì cosa stava per succedere, un rumore sordo squarciò il silenzio, la pallottola gli spappolò il cervello e cadde riverso in terra. Rosario trascinò con fatica il corpo dietro il muro a secco, lo ricopri con rami e foglie di limone, prese il telecomando dal piccolo borsello che portava al collo e si diresse alla villa. Da fuori con un colpo preciso uccise il pitbull, ed entrò. Passò veloce il terrazzino, arrivò alla porta di casa . Salì le scale con movimenti rapidi e silenziosi, raggiunse il piano notte, sgusciò nella stanza da letto,dove la moglie del boss dormiva con il televisore acceso, si avvicinò , prese il cuscino, lo appoggio delicatamente sul volto della donna e gli sparò. Uscì dalla stanza e si diresse dove dormivano i tre figli, li sentì russare. Non si accorsero nemmeno di morire.Rifece il percorso inverso , raggiunse la macchina, imboccò l’autostrada ed uscì ad Alcamo est. Salì fino al paese e proseguì per la strada provinciale che portava a Sciacca. Arrivò in quel luogo che conosceva perché aveva accompagnato le donne dei boss quando faceva l’autista. Era un radura circondata dai vigneti, ma non era visibile quello spiazzo dalla strada, ci potevi arrivare solo se conoscevi il luogo.
Scese dalla macchina lasciando lo sportello aperto,dal sedile prese il sassofono si sentiva terribbilmente stanco, il dolore si faceva fortissimo. Si portò fino al centro della spiazzo, tirò fuori la pistola dalla cinta e la lanciò il più lontano possibile. S’inginocchiò in terra, ne raccolse un pugno s’imbrattò il viso e ne assaporò un po’: in quel momento per la prima volta sentì l’odore delle zagara, del gelsomino, dell’uva, dell’erba fresca, si rannicchiò in posizione fetale sotto il sole che sorgeva e si strinse forte al cuore il sassofono. Restò in quella posizione due giorni e due notti come un animale braccato che si leccava le ferite, ebbe gl’incubi e tutti quelli che aveva ammazzato lo andarono a trovare. Li chiamò per nome uno ad uno, mentre finalmente il suo essere prendeva forma .Poi sognò i ragazzi in un punto irraggiungibile che gli sorridevano e fu allora, che Faccia d'Angelo chiuse gli occhi per la prima volta nella sua vita. Dolcemente.
Bartolo Federico
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