Bisognerebbe bruciare il passato e lasciare solo cenere dietro di sé.
Riaprire il fiotto dei sogni e partire dal primo che si è fatto quando si era
ancora giovani e innocenti. Cercare nuove direzioni, nuovi punti di arrivo e,
quindi, nuovi punti di partenza. Squadrai il cielo sopra la mia testa che
restava fuligginoso, mentre sgocciolava fallimenti, rovine e grandi dubbi che
mi incrostavano l’anima. Avrei voluto dormire ascoltando il vento capriccioso e
saziarmi di un lungo sonno ristoratore. Avrei voluto vivere nell’esercizio
della mia solitudine, senza quell’ansia che mi distruggeva l’esistenza. Ma non
riuscivo a darmi risposte. Così quel brandello di dignità che mi attraversava
mi aiutava a tenermi a galla. Anche se era diventato parecchio complicato stare
sulla stessa barca con quella parte di me che non amavo più. Il pericolo era di
fraternizzarci. Non ci avrei messo poi molto a tradirmi.
Scesi dall’abitacolo e tornai sui miei passi verso il mio stambugio. Ero
pallido e stanco. Avevo lasciato la casa di Luisa dopo averci fatto l’amore con
rabbia e avidità. Ma il morso delle mie vergogne mi condizionava da sempre la
vita. Ero un precario dei sentimenti come del lavoro. Cosa avevo da offrirgli se
non la mia stessa confusione? Probabilmente era il momento di fare quella
puntata balorda e giocarmi i numeri alla ruota del lotto rimanendo in attesa
del miracolo di diventare ricco. Ma non avevo mai creduto abbastanza che
questo potesse accadermi da dedicargli tempo e denaro. Però non c’era nulla di
male a immaginarmi nelle vesti del vincente. Il risultato fu così buffo ai miei
occhi che scoppiai a ridere sconciamente. Lì da solo in mezzo alla strada.
“My my, ehi ehi, il rock and roll è qui e ci resterà. E’ meglio bruciare
fino in fondo,che dissolversi nel nulla. My my ,ehi ehi. E’ uscire dal blu ed
entrare nel nero. Ti danno questo, ma paghi per quello. E una volta che sei
andato non puoi più tornare. Quando sei uscito dal blu. Ed entrato nel nero.”MY
MY, EHI EHI” (OUT OF THE BLUE)- Neil Young-
Sono poche le cose che ci legano al passato, ma alla fine sono proprio
quelle che fanno più male. Mi sdraiai sul letto, nella penombra con un
bicchiere sul petto, ascoltando “Live Rust” di Neil Young, anno 1979.
Un doppio album dal vivo registrato nel 1978 al Cow Palace di San
Francisco, dove Young con la sua chitarra acustica prima si
scioglie dentro le sue ballate dolenti e, poi, insieme ai Crazy
Horse, dà vita ad un set elettrico ad alta intensità emotiva: Like A
Hurricane, Cortez The Killer, My My Hey Hey, Cinnamon Girl, Powderfinger, sono
proiettili devastanti che mi hanno lasciato segni profondi sulla pelle, sui
nervi, nella pancia dell’anima. Almeno fin quando non è sopraggiunta la
rassegnazione. Live Rust è il disco con cui mi avvicinai a questo pazzo furioso
che fin li avevo tenuto a debita distanza. Perché ero giovane e ribelle,
e i Clash erano il mio unico credo. La sua musica, in quei giorni, era
il punto di riferimento di una generazione che in qualche modo consideravo già
vecchia. Ma era nella natura delle cose e della vita dovermi incrociare con
quest’uomo. Un inquieto sognatore notturno, la cui esistenza è costellata di
fantasmi.“Quando lei se ne andò, lui morì, ma continuò a fingersi vivo.
Quando lo vedrai, capirai che niente può liberarlo. Fatti da parte, cedigli
strada: è il solitario.(The Loner). Sdraiato sul letto pensai
a Luisa e al suo corpo caldo e vibrante mentre facevamo l’amore. Mi sentii come
se avessi lasciato le mie tracce sul bagnasciuga, e al mio ritorno non c’era
più nulla.
La mattina del giorno dopo decisi di fare un giro in macchina sulla statale
113. Quando avevo bisogno di raccattare i cocci, quello era il mio luogo
preferito. La 113 è una strada lunga e silenziosa, che cammina a ridosso del
mare. E’ un percorso dai lunghi rettilinei, quasi sempre deserti. Come
una canzone dei Velvet Underground. Il vento che era venuto giù faceva
increspare le onde, intanto che un flebile sole si faceva largo tra le nuvole
nere che schiamazzavano nel cielo. Quel paesaggio rendeva la strada svogliata,
al pari di quei grigi villini per le vacanze di cui era attorniata. Ad un
tratto mi si parò davanti, con la sua bicicletta e lo zaino legato al
portapacchi, uno che veniva da un’altra era. Arrancava lentamente, senza una
meta da raggiungere, quel figlio dei fiori. Come il vento, andava dove credeva.
Lo superai, osservandolo dallo specchietto retrovisore rimpicciolirsi. Mi
sembrò che avesse la faccia serena.
“Questa generazione non ha mete da raggiungere: raccogliete il grido. Hey, adesso è il momento per voi e per me. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Su, venite, stiamo marciando verso il mare. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Chi vi spazzerà via? Saremo noi. E chi siamo noi? I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika” (Volunteers -Jefferson Airplane)
Andai all’edicola e comprai un quotidiano. Poi mi diressi all’ufficio di
collocamento e mi misi in coda, in fila indiana, con il numerino in mano,
aspettando il mio turno. Nell’attesa sfogliai le pagine politiche del giornale.
Sempre la stessa tiritera, bugie su bugie. Tirai dritto e andai alla pagina
della musica. Lessi una recensione inconcludente dell’ultimo album di Leonard
Cohen e mi chiesi perché certi giornalisti dovevano campare alla grande,
pagandosi regolarmente il mutuo, scrivendo corbellerie su corbellerie. Mentre
altri, che di meriti potevano riempire il giornale, dovevano vivere nel limbo.
La spiegazione me la diedi da solo. Erano anche loro figli del vento, nati
senza la lingua a pennello.
Sentii puzza di merda nell'aria. Allora pensai a Luisa e solo a lei.
Bartolo Federico
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