Bisognerebbe bruciare il passato e lasciare solo cenere dietro di sé.
Riaprire il fiotto dei sogni e partire dal primo che si è fatto quando si era
ancora giovani e innocenti. Cercare nuove direzioni, nuovi punti di arrivo e,
quindi, nuovi punti di partenza. Squadrai il cielo sopra la mia testa che
restava fuligginoso, mentre sgocciolava fallimenti, rovine e grandi dubbi che
mi incrostavano l’anima. Avrei voluto dormire ascoltando il vento capriccioso e
saziarmi di un lungo sonno ristoratore. Avrei voluto vivere nell’esercizio
della mia solitudine, senza quell’ansia che mi distruggeva l’esistenza. Ma non
riuscivo a darmi risposte. Così quel brandello di dignità che mi attraversava
mi aiutava a tenermi a galla. Anche se era diventato parecchio complicato stare
sulla stessa barca con quella parte di me che non amavo più. Il pericolo era di
fraternizzarci. Non ci avrei messo poi molto a tradirmi.
Scesi dall’abitacolo e tornai sui miei passi verso il mio stambugio. Ero
pallido e stanco. Avevo lasciato la casa di Luisa dopo averci fatto l’amore con
rabbia e avidità. Ma il morso delle mie vergogne mi condizionava da sempre la
vita. Ero un precario dei sentimenti come del lavoro. Cosa avevo da offrirgli se
non la mia stessa confusione? Probabilmente era il momento di fare quella
puntata balorda e giocarmi i numeri alla ruota del lotto rimanendo in attesa
del miracolo di diventare ricco. Ma non avevo mai creduto abbastanza che
questo potesse accadermi da dedicargli tempo e denaro. Però non c’era nulla di
male a immaginarmi nelle vesti del vincente. Il risultato fu così buffo ai miei
occhi che scoppiai a ridere sconciamente. Lì da solo in mezzo alla strada.
Rientrai in casa e bevvi un sorso a canna dalla bottiglia di gin che era
riversa sul tavolo della cucina. Afferrai dallo scaffale nel reparto operai
della musica “Willy And The Poor Boys” dei “Creedence Clearwater Revival”,
anno 1969. Tirai un altro sorso a canna e cominciai a sentirmi
meglio. La musica, da subito, mi catapultò sulle sponde del grande fiume che
attraversa l’America, mentre la voce di John Fogerty, lacerata e colma
d’anima, mi travolgeva. Quella voce, che pare sia sempre sul punto di
spezzarsi, sprigiona un’energia e una passione che ti afferrano le pareti dello
stomaco, facendotele arricciare. C’è tutto in quelle semplici canzoni: voglia
di vivere, di combattere e fierezza di essere duri e puri. Tutte cose che
quelli come me non sentono più da molto tempo ormai. Persone che avevano
confidato nel potere magico della musica per crearsi l’esistenza. Che su tre
accordi hanno adagiato i propri sogni, e con molta probabilità hanno perso più
di un occasione nella vita. Che sul treno dei finti sorrisi non ci sono mai
voluti salire per restare fedele a se stessi. Persone che hanno pianto come
bambini, con l’angoscia nel cuore, cozzando la testa contro le pareti del
mondo. Uomini che si sono trascinati nel buio della notte. E che, sbandati e
confusi, non hanno trovato più la strada di casa.
“My my, ehi ehi, il rock and roll è qui e ci resterà. E’ meglio bruciare
fino in fondo,che dissolversi nel nulla. My my ,ehi ehi. E’ uscire dal blu ed
entrare nel nero. Ti danno questo, ma paghi per quello. E una volta che sei
andato non puoi più tornare. Quando sei uscito dal blu. Ed entrato nel nero.”MY
MY, EHI EHI” (OUT OF THE BLUE)- Neil Young-
Sono poche le cose che ci legano al passato, ma alla fine sono proprio
quelle che fanno più male. Mi sdraiai sul letto, nella penombra con un
bicchiere sul petto, ascoltando “Live Rust” di Neil Young, anno 1979.
Un doppio album dal vivo registrato nel 1978 al Cow Palace di San
Francisco, dove Young con la sua chitarra acustica prima si
scioglie dentro le sue ballate dolenti e, poi, insieme ai Crazy
Horse, dà vita ad un set elettrico ad alta intensità emotiva: Like A
Hurricane, Cortez The Killer, My My Hey Hey, Cinnamon Girl, Powderfinger, sono
proiettili devastanti che mi hanno lasciato segni profondi sulla pelle, sui
nervi, nella pancia dell’anima. Almeno fin quando non è sopraggiunta la
rassegnazione. Live Rust è il disco con cui mi avvicinai a questo pazzo furioso
che fin li avevo tenuto a debita distanza. Perché ero giovane e ribelle,
e i Clash erano il mio unico credo. La sua musica, in quei giorni, era
il punto di riferimento di una generazione che in qualche modo consideravo già
vecchia. Ma era nella natura delle cose e della vita dovermi incrociare con
quest’uomo. Un inquieto sognatore notturno, la cui esistenza è costellata di
fantasmi.“Quando lei se ne andò, lui morì, ma continuò a fingersi vivo.
Quando lo vedrai, capirai che niente può liberarlo. Fatti da parte, cedigli
strada: è il solitario.(The Loner). Sdraiato sul letto pensai
a Luisa e al suo corpo caldo e vibrante mentre facevamo l’amore. Mi sentii come
se avessi lasciato le mie tracce sul bagnasciuga, e al mio ritorno non c’era
più nulla.
La mattina del giorno dopo decisi di fare un giro in macchina sulla statale
113. Quando avevo bisogno di raccattare i cocci, quello era il mio luogo
preferito. La 113 è una strada lunga e silenziosa, che cammina a ridosso del
mare. E’ un percorso dai lunghi rettilinei, quasi sempre deserti. Come
una canzone dei Velvet Underground. Il vento che era venuto giù faceva
increspare le onde, intanto che un flebile sole si faceva largo tra le nuvole
nere che schiamazzavano nel cielo. Quel paesaggio rendeva la strada svogliata,
al pari di quei grigi villini per le vacanze di cui era attorniata. Ad un
tratto mi si parò davanti, con la sua bicicletta e lo zaino legato al
portapacchi, uno che veniva da un’altra era. Arrancava lentamente, senza una
meta da raggiungere, quel figlio dei fiori. Come il vento, andava dove credeva.
Lo superai, osservandolo dallo specchietto retrovisore rimpicciolirsi. Mi
sembrò che avesse la faccia serena.
1967 a San Francisco.
Andava in scena la rivoluzione. Ventimila anime che inseguivano un sogno comune
si erano riunite al Golden Gate Park, in quella che fu definita
l’estate dell’amore, per ascoltare gratuitamente i Grateful Dead e i Jefferson
Airplane. In città erano giunti da New York, Jack Kerouac, Allen Ginsberg
e Gregory Corso appena uscito dal carcere, per unirsi al poeta e letterato Kenneth
Rexroth. Gli hippy prendevano allucinogeni e si decoravano i capelli
con i fiori, mentre a Berkeley i movimenti studenteschi si scontravano
con la polizia reclamando diritti civili. Nella vicina Oakland dei duri,
quali erano Eldridge Cleaver, Huey Newton e Bobby Seale, fondarono
l'organizzazione radicale delle Pantere Nere. ”Guardate cosa sta
accadendo fuori nella strada: è la rivoluzione, dobbiamo fare la
rivoluzione! Hey, sto danzando giù nella strada, è la rivoluzione, dobbiamo
fare la rivoluzione. Non è sorprendente tutta la gente che incontro? E’la
rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione. Una generazione è invecchiata una
generazione ha trovato la sua anima. (Volunteers, Jefferson Airplane).
La prima volta che i Jefferson Airplane cantarono questa canzone fu
nella radura di Woodstock il 21 agosto 1969, davanti a 500.000 persone,
con rabbia e passione. Nel novembre dello stesso anno venne pubblicato Volunteers,
un disco che è anche un manifesto politico, apertamente sovversivo. We Can’t
Be Together apre l’album e spara subito a zero contro le repressioni
anti-libertarie dell’America di Nixon e di Kissinger. I Jefferson Airplane,
per non disgregare il messaggio politico, cercarono di unire coerentemente
parole e musica, in questo aiutati dalla presenza di ospiti illustri. In The
Farm Jerry Garcia suona la pedal steel, creando un’atmosfera prettamente
rurale. Wooden Ships, regalata dal duo Crosby e Stills, presenti
entrambi, è sinistra nel suo incedere e parecchio inquietante. Jorma
Kaukonen incrocia la chitarra con quella di Jerry Garcia in Hey
Fredrick, mentre Grace Slick canta con profonda emozione. L’incedere
country di A Song for All Season sembra anticipare di qualche
anno Sweet Virginia dei Rolling Stones, forse per la presenza nel disco
del pianista Nicky Hopkins, poi alla corte delle pietre rotolanti, che
ricama e caratterizza le canzoni con il suo distintivo suono. Questo disco,
comunque sia, suggella la comunanza d’intenti e quel senso di fratellanza che
avevano in quegli anni tutti i musicisti della Baia. Volunteers è la fine di un
epoca ed è come una capsula del tempo. La si può schiudere e tornare ai giorni
in cui era bello sperare che la musica potesse cambiare il mondo. Viaggiando,
fatti di benzedrina, su camion che ti avevano raccattato nella notte da qualche
parte in mezzo al deserto.
“Questa generazione non ha mete da raggiungere: raccogliete il grido. Hey, adesso è il momento per voi e per me. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Su, venite, stiamo marciando verso il mare. E’ la rivoluzione, dobbiamo fare la rivoluzione! Chi vi spazzerà via? Saremo noi. E chi siamo noi? I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika I volontari d’Amerika” (Volunteers -Jefferson Airplane)
Andai all’edicola e comprai un quotidiano. Poi mi diressi all’ufficio di
collocamento e mi misi in coda, in fila indiana, con il numerino in mano,
aspettando il mio turno. Nell’attesa sfogliai le pagine politiche del giornale.
Sempre la stessa tiritera, bugie su bugie. Tirai dritto e andai alla pagina
della musica. Lessi una recensione inconcludente dell’ultimo album di Leonard
Cohen e mi chiesi perché certi giornalisti dovevano campare alla grande,
pagandosi regolarmente il mutuo, scrivendo corbellerie su corbellerie. Mentre
altri, che di meriti potevano riempire il giornale, dovevano vivere nel limbo.
La spiegazione me la diedi da solo. Erano anche loro figli del vento, nati
senza la lingua a pennello.
Sentii puzza di merda nell'aria. Allora pensai a Luisa e solo a lei.
Bartolo Federico
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