sabato 14 febbraio 2015

Strati Di Polvere








Lascia che ti parli prima che te ne vada via per sempre. Lascia che ti tocchi prima che tutto finisca. Ho commesso un errore dietro l’altro ma siamo su questa terra per fare delle scelte, e non sempre imbrocchiamo la strada giusta. “Ti picchierò fino a sfogarmi” mi disse guardandomi dritto negli occhi. “Fai pure se questo ti farà stare meglio”. “Sei solo un alcolizzato del cazzo” gridò girando la pagina del libro. Emise un lungo sospiro e si sedette sul bordo del letto. Man mano che l’eroina gli entrava in circolo si sentiva più tranquilla. “Sembri un angelo” e le baciai i capelli, mentre lei appoggiava la testa sul cuscino. Eravamo andati in pezzi da qualche parte nascosti nel buio della notte. Eravamo una storia ideale per qualche fottuta canzone di rock’n’roll. Eravamo uno stupido errore mentre c’inzuppavamo di whiskey, in qualche bar sperduto della città. Ma ci amavamo. C’eravamo messi a nudo strato dopo strato, bugia su bugia. Mentre guardi nel vuoto dei suoi occhi... dimmi che effetto fa... La polvere copriva tutta la stanza, e aleggiava come una nuvola intorno alla lampadina dell’abat-jour accesa sul comodino. Quando lei si addormentò presi la bottiglia di Jack Daniels e mi sedetti sulla poltrona osservando le ombre intorno a me. Eravamo diretti all’inferno e avevo la sensazione che questa volta era davvero finita. Non saremmo andati molto lontano così conciati. Una calma piatta e glaciale s’impossessò di me. Forse questa era la vita di qualcun altro. E mi venne da vomitare. Senza rendercene conto c’era sfuggito tutto di mano. Anche la nostra anima, era volata via attraverso il tubo di scarico del cesso. Alle volte quei brandelli di canzoni che mi suonavano nel mio orecchio interiore, mi ricordavano che ero stato un musicista. Quando il pulsare della vita mi toglieva il fiato, e avevo cucito un sogno nel mio cuore. Quel sogno rock di Elvis. Ma anche di quei vagabondi nati dalla parte sbagliata della città. Adesso nessuno poteva più salvarmi. E non era una questione di coraggio. Mi ero amputato le ali da solo. Ero come un’incisione sul palmo di una mano. Un falsario di me stesso. Vagavo nel buio e guardando le tenebre avevo infranto ogni regola. Con gli occhi in fiamme per quanto mi faceva male richiuderli, il cuore accelerò i battiti. Fuori soffiava un vento aspro. Soffiava sulle corde di una vecchia acustica scorticata dal tempo. Sulla faccia di uomini scordati da tutti. Sulle aste dei microfoni. Su quei dischi che avevo riposto e che parlavano di fallimenti, ingiustizie, assassini e libertà. Il mondo continua a essere quel luogo dove le decisioni sono state prese molto molto tempo fa. Mentre il silenzio lentamente si è rubato tutto di noi. Anche la poesia è svanita nella noia polverosa, di chi ha paura di bruciare sotto i raggi del sole. Erano le tre del mattino. La pioggia venne giù  e mi accarezzò come un bacio tiepido. Il frastuono e la confusione dominavano su tutto. Le lacrime mi scesero copiose sulle guance. A ciascuno il suo posto. In preda alla follia. 

Bartolo Federico


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