Ci sono giorni che somigli a uno che si tiene a galla senza più
speranza. Resti come inebetito, spingendoti verso la deriva. Ma è la
disperazione che fa scattare la molla per riprendere a lottare. Frankie Lee Sims imbracciò la chitarra arrotolandosi
su se stesso come un gatto. E anche se l'alcol e l'ozio in cui era sprofondato,
lo avevano ridotto male, si sentiva in grado di aspettare un miglioramento. Con
una smorfia si bagnò l'anima in quel blues che lo affliggeva. Poi
quel blues rimbombò dentro le lattine di birra sparse sul pavimento, che
lo amplificarono. Chiuse gli occhi e avvertì il rumore di un treno, che veniva
da sud. Quando il treno si fermò sopra il ponte, sentì come se tutte le ragazze
del quartiere avessero cominciato a cantare... Vieni qui... eccoti qui... Frankie
Lee Sims, vieni qui… eccoti qui….
Frankie Lee Sims... Quando al
mattino mi alzai soffiava un vento gelido di tramontana, le previsioni del
tempo davano un peggioramento nella serata, con vere bombe di pioggia in
arrivo. Dall’armadio tirai fuori il trench nero e la sciarpetta di seta in
fantasia cachemire che era stata di mio nonno, m’infilai gli occhiali e nel
momento in cui Frankie Lee Sims aveva cominciato a cantare Raggedy And Dirty, spensi lo stereo dall’interruttore
della luce. Una diavoleria escogitata da Sal, quando ancora frequentava il regno
dei vivi. Scesi le scale dell’appartamento, e una volta in strada insieme a
quella nuova indecifrabile tristezza che da giorni mi aveva imprigionato il
cuore, m’incamminai. Il rumore delle macchine fece presto a prendere il
sopravvento sui miei pensieri. Osservai i passanti infagottati in quegli enormi
piumini da neve che procedevano silenziosi con il viso fasciato da grandi
sciarpe di lana, e mi parevano come spettri. Pensai che la mia casa era
davvero così piena di musica, da potermi considerare quasi come un
suo ospite. Il vento fischiava rude, ma la città pareva la solita. Mi diressi
verso l’entrata della metropolitana. Ci nutriamo di convinzioni banali e misere,
ma nello stesso tempo essenziali per tirare avanti. E ci scordiamo di quei
brividi che ci hanno reso la vita un po’ meno amara. Scesi i gradini della
metrò e afferrai per un soffio il treno della linea A. Ognuno di noi ha le sue
rogne ma vallo a sapere quando iniziamo a perdere terreno, e tutto tracolla.
Chissà cosa gli era successo a Jeffrey Lee Pierce? Qual era stata la
ferita che non si era più rimarginata e lo aveva fatto cadere insieme ai suoi demoni,
nelle profondità più nere di noi stessi. Un eroe ribelle e drogato, che ha
attraversato la storia del rock, lasciando un segno profondo. Lui più di tanti funamboli rompicoglioni
della sei corde, è da considerarsi un vero uomo di blues. Ma com'è successo per tanti
altri rinnegati del rock, dal cuore puro e furibondo, è stato
dimenticato in fretta. Sparito per sempre sotto un cumulo di polvere e macerie.
Se chiudo gli occhi e come se lo vedessi ancora con quell’aria goffa e smarrita,
fermarsi e intonare un paludoso blues di Charley
Patton. L’esordio folgorante di Fire
Of Love (1981) con la sigla Gun
Club, è un disco di canzoni che hanno dentro quella fiamma che brucia, e che
non si placa. Che ti arrivano come un pugno in pieno viso, perché hanno il
piglio della ribellione e dell’anticonformismo. Perfette per uomini che si
sentono soffocati da un mondo che ti afferra e ti rovescia, sul lato opposto
dei tuoi sogni. Zeppe di quel vento ululante che ti fa ghiacciare il
cuore nella notte, e di quel blues ancestrale che ha popolato le strade del
Mississippi. Un disco che resta una pietra miliare, e che ebbe la forza di
aprire le porte a tanti punk verso la musica del diavolo. Allora il resto del mondo però non contava niente. Il
rock mi tranciava la pelle, l'anima, in quella disperazione mattutina dopo una
notte balorda e disperata. Fu però con Miami che Lee Pierce conquistò una visibilità
più ampia. Un disco notturno e denso di emozioni, spudorato per quella spontaneità
ad esporsi nei suoi sentimenti, senza alcuna barriera di protezione. Che ad
ascoltarlo oggi a distanza di tre decadi, ti mette paura, tanta è l’intensità di
quella sventagliata di rock viscerale, che sorregge il suo canto tormentato e
lirico. C’è lo spirito di Hank Williams
che aleggia nelle canzoni, mentre Jeffrey si avvicina allo spirito
anarchico e medianico di Jim Morrison.
Chris Stein è il produttore di
questo lavoro un ex membro dei Blondie,
gruppo da Jeffrey molto amato per via della cantante Deborah Harry, anche lei qui presente.
Chris con la sua produzione tende soprattutto a far risaltare la sua voce, e
quel canto sferragliante e infettato di voodoo, fumo, e sporco fino al midollo
del rock’n’roll selvaggio dei migliori Creedence
Clerwatwer Revival. In Miami
ci sono canzoni di un uomo che nonostante tutto riesce a sopportare ancora il
dolore. Anche se la droga e l’alcool stanno diventando fin troppo importanti
nella sua vita. Ma in fondo è la storia che lo insegna, è sempre dai
sobborghi che sono arrivate le star del rock. Disperati, omosessuali,
delinquenti, tutti con quel dono magico di avere carisma e talento. Don't
let her take her love to town They
will never fill her hear She
needs a passion like her fathers used to be I
know because I'm like the train shooting down the mainline I
know because I'm the Indian wind along the telegraph lines She's
like heroin to me She's
like heroin to me She's
like heroin to me She
cannot miss a vein. (She's Like Heroin To Me) Durante una pausa per le registrazioni del disco Jeffrey si accese
uno spinello e si sedette sul divano. Indossava degli logori stivali texani, e
un jeans sdrucito. Dalla bottiglia di whisky bevve un sorso come solo un dannato
sa fare. Quella notte il tempo non faceva presagire nulla di buono. Pioggia e
freddo intenso avevano recitato quelli del bollettino meteorologico. Quasi una
metafora della sua vita. Lui se ne stava in silenzio per quella semplice ragione,
che le parole alle volte non servono a nulla. Nelle sue visioni la vedeva
protendersi e chiamarlo. Lo pregava di proteggere il suo
ricordo, di difenderlo. Chiuse gli occhi. La vide camminare verso di lui.
Voleva stare con lei, ricongiungersi a lei. Dopo un altro lungo sorso afferrò
la chitarra e per scaldarsi le dita, suonò una sequenza di accordi. Su quegli
stessi accordi ciondolando la testa, intonò una nuova canzone. Tutti i presenti
si commossero ad ascoltarlo mentre bisbigliava i versi di Mother Of Earth, ancora avvolti dentro una melodia traballante. "Sono andato giù nel fiume della
tristezza Sono andato giù nel fiume del dolore nell’oscurità, li ho sentiti
chiamare il mio nome Oh, madre terra. Il vento è caldo, ho provato a fare del
mio meglio, ma non riesco. E i miei occhi si sono chiusi su questa grande
terra. “(Mother Of Earth)
Era il blues che risuonava dentro di lui, e sarà sempre il blues a tingere di
scuro le sue canzoni, anche quando una lap steel s’intrometterà per addolcirne
i suoni, sarà sempre il blues demoniaco e disperato della sua anima, che tirerà
pugni e vagherà per le strade. Quanti colori, note, combinazioni, si possono
ottenere da una chitarra? E quante melodie vengono fuori dagli stessi accordi?
Ma i blues sono sempre diversi, pure se sembrano uguali. Perché parlano degli
uomini, e dei loro bisogni. Perché anche i solitari vivono una loro vita, amano
e soffrono, anche se non riescono a spiegarlo. Un viaggio quello di Jeffrey
colmo di una malinconia indelebile. Ma i sentimenti che proviamo sono più
potenti delle parole. “Torna da me
amore”. “Sono qui, sono stanco di queste lacrime” Quando sussurra con
l’anima sanguinante queste parole abbaiando dentro il microfono, capisci quanto
era fragile e vulnerabile. Le sue canzoni risuonano ancora oggi impetuose per
quei selvaggi che hanno il diavolo alle spalle, e l’anima incendiata. Ci sono
persone la cui vita sembra un lungo tormento. Poi un bel giorno decidono di
morire, come se non ci fosse nulla di meglio da fare, niente per cui valga la
pena di andare avanti. Anche per mia madre è andata così. Avrei voluto
incontrare Jeffrey per potergli dire che nella vita tutti noi bariamo, perché
altrimenti non avremmo via d’uscita. Tutti noi c’è ne stiamo ammassati nella
stessa barca, logori, ammaccati, trattati senza troppi riguardi. E che la
destinazione è per tutti la stessa. Gli avrei voluto raccontare che le sue
canzoni avevano attraversato la mia vita, e che mi avevano dato una speranza.
Avrei voluto vedere se la sua espressione del viso sarebbe cambiata, e se si
sarebbero increspate le ciglia. Comunque vadano le cose, tutti nessun escluso,
abbiamo sempre bisogno di sentire un altro punto di vista. A mia madre però, non
ho avuto il coraggio di dirglielo. Quella mattina era il mio giorno libero dal lavoro. A una fermata qualunque del metrò scesi e camminando senza
meta per la città, mi sentivo come un cane che aveva preso troppe botte, e non
si fidava più di nessuno. Andando in giro mi resi conto che quello che
attraversavo era un mondo d’infelici, di gente sconsolata, che aveva paura di
tutto. Tutte persone in esubero. La loro scomparsa sarebbe stata solo una semplice,
banale formalità. Nelle maggior parte dei negozi, stavano appesi i cartelli con
la scritta Affittasi/Vendesi. Una donna di mezza età mi chiese dei soldi.
Il sole nel cielo era come oscurato da grossi vetri, spessi e scuri. La vita
però non ha prezzo. E l’amore dovrebbe vincere sempre. Qualcuno dice che se
conosci il nemico, non ti troverai in pericolo. Il fatto è che questo nemico
che ci annienta, non lo puoi colpire, non lo puoi distruggere. Davanti al
municipio una manifestazione di disoccupati invadeva i marciapiedi, e parte
della strada viaria. Gli automobilisti però sembravano comprensivi con quelle
persone. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli che ho incrociato,
erano spenti e bui. Occhi dove non si scorgeva nulla. Forse servirebbe un vero
cambiamento. Una rivoluzione. Ma non sono più così sicuro neanche di questo.
Tornare a combattere invece di starsene inermi ad aspettare servirebbe a
cambiare lo stato delle cose? Non lo so. Non so più un cazzo di niente. Un
anziano signore che rovistava tra le cassette della frutta stipate al lato di
un cassonetto girò la testa, e adocchiandomi mi disse: “non è che abbia una
grande pensione figliolo”. Lo disse mentre il vento agitava gli alberi. È
un blues spietato quello in cui ci hanno ficcato quelle teste di cazzo dei
nostri governanti. Dei gran figli di puttana. Nessuno escluso. Quando rientrai a casa l’orologio a muro segnava le due e
venti del pomeriggio, e mi sentivo affranto per tutto quello che stava
accadendo. Alle volte capita che ci ricordiamo di ogni cosa che ci è successa. Guardai a lungo la mia chitarra, ma siccome non riesco più a scrivere una canzone, l’ho lasciata in pace. Le chitarre hanno un cuore grande, sanno sempre come prenderti. Dovrei smettere anche di ascoltare certe canzoni, perché sanno come ferirmi. Accidenti se lo sanno. Alle volte mi chiedo cosa non abbia funzionato in me, e perché ho perso quel treno. Chissà se ci fossi salito a quale stazione sarei sceso? Perché alla fine torniamo sempre da dove siamo partiti. È troppo tardi però per crederci ancora. È troppo tardi per i rimpianti, perché ci sono cose che non si possono più fare. E' vero comunque che le porte più difficili da chiudere, sono quelle che si trovano sul proprio pianerottolo. E’ l’anno 2017 ma niente è cambiato per quelle orde di poveri, che
si muovono silenziosi nel mondo. Mangiai poco e di controvoglia, ero di cattivo
umore così negli scaffali dei dischi rintracciai gli “X”, la banda di John Doe e
Exene Cervenka. Mi accesi una sigaretta e mi sedetti sul divano, cercando
quantomeno di non ascoltare più me stesso. E’ del 1980 "Los Angeles” l’album prodotto da Ray Manzarek, l’ex tastierista dei Doors. E’ in questi solchi che riaccade
il miracolo di risentire quel binomio di rabbia e poesia, che fu prerogativa di
Dylan, Jim Morrison, Patti Smith,
Lou Reed, Jimi Hendrix. Los Angeles
è un viaggio nell’incubo urbano, nell’emarginazione sociale, nella crisi dei
valori umani. Ma è anche la grande voglia di non arrendersi, avendo chiara la consapevolezza che il momento più duro, è sempre
quello del risveglio. In alcuni pezzi di questo disco con il suo
inconfondibile suono la tastiera di Manzarek si presta per colorare il
buio, dopo la pioggia. Musica che ha infilato la chiave nell’interruttore del
mio cuore. Qui oltre alla forza dirompente del punk ci sono quei duetti
bellissimi tra John ed Exene che cantano nove canzoni malvagie
e feroci, fino a raschiarsi le corde vocali, fino a cadere sanguinanti in fondo
alla notte. Non importa quanto sia sbagliata la strada che imbocchiamo, tanto
le cose più belle sono quelle che ancora dobbiamo scrivere. Procediamo curiosi
nella terra di nessuno cambiando continuamente tragitto, una volta a destra,
un’altra volta a sinistra, acceleriamo, freniamo, cercando di capire quello che
nessuno ci spiega. Nella musica punk c’è sempre stata una specie di ruvida tenerezza.
In quella sfrontataggine c’era molta sincerità. Quello che non capiva il punk
lo intuiva. Poi come in una sorta di auto indulgenza non sapendo barare, sé né
tornato in quelle strade buie e solitarie, dove è difficile giungere. Quando la
musica è finita ho rimesso a posto il disco. Ho buttato via il caffè che era
rimasto, ho rassettato la cucina e ho pulito i miei stivali. Poi ho fatto una
doccia, e mi sono rasato, cosa che non faccio mai nel pomeriggio. Ma mi era
venuta voglia. Piccole cose semplici di un uomo solo, che non fanno male a
nessuno.
Bartolo Federico
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