Il cielo sulla sua testa si era fatto rossiccio e quella stella sperduta gli parve una borchia per capelli. La notte era calata ruvida come una ballata rock di Frankie Miller.
Non c’era più niente in questo fottuto mondo che gli importasse, disse
pensieroso fissando la strada buia e rigirandosi tra le mani la
bottiglia vuota. Un vento umido proveniente dal mare saettò sul suo
viso. Era caduto ancora una volta, ma non era una novità neanche questa per uno precipitato in terra ancora prima che nascesse. Spinse il tasto del play che stranamente schioccò come un bacio sulla guancia e la canzone ripartì.
“Melinda era mia fin al momento che la trovai stretta a Jim mentre lo amava. Poi arrivò Sue mi amava intensamente questo è quello che ho pensato. Io e Sue. Ma anche questo finì. Non so cosa farò. Ma fino a che non troverò la ragazza che vuole rimanere e non giocherà alle mie spalle. Sarò quello che sono. Un uomo solitario. Un Uomo solitario”. (Neil Diamond – Solitary Man). Hai voglia a spingerli da qualche parte, a seppellirli nell’immondizia o sotto fiumi di alcool, i ricordi tornano sempre, specie quelli più dolorosi. La strada silenziosa era gialla di luna. Strinse per un attimo gli occhi che gli bruciavano maledettamente e congiunse le mani a mo’ di preghiera. Nel palazzo di fronte si accese la luce di un bagno. Si sbottonò la camicia bianca intrisa di sudore e una smorfia gli irrigidì il volto. Il pallore del suo viso celava una rabbia mortale. Era sbucata all’improvviso quella donna, alta, bella, con uno charme tale da mandarlo in tilt come non gli era capitato mai in vita sua. Forse era un fantasma sbucato da chissà dove e a cui lui non doveva dire nulla. Adesso, però, seduto nell’abitacolo, sembrava che portasse tutto il peso del mondo sulle sue spalle e, a guardarlo negli occhi, faceva davvero spavento. Con quell’aria da animale ferito sembrava una ballata aspra dei Thin White Rope.
“E qualcuno al telefono seppe le cose che io avevo sempre conosciuto Colonne sonore canticchiate ai sogni che avevo dimenticato Ho amato il telefono, parlato col segnale di linea Mentre la gente sui marciapiedi fuggiva da me”. (Thin White Rope – Diesel Man).
L’orologio a cucù sulla parete dell’ingresso misurava inesorabile il passare delle ore. Si racconta che il canto del cuculo è profetico, capace d’indicare la buona e la cattiva sorte. Poco prima che quell’uomo arrivasse, sua madre era solita chiuderlo a chiave nella viscere buie della sua stanza e solo dopo che il cuculo cantava tre volte gli riapriva la porta. Aveva otto anni, e questo succedeva ogni qual volta suo padre si allontanava per lavoro. Un commesso viaggiatore, suo papà, che ogni quindici giorni faceva il giro dei clienti fuori città assentandosi anche tutta la settimana. Aveva memorizzato le gesta di sua madre e sapeva che quel giochino, così lei lo chiamava, stava per iniziare. Poco prima che quell’uomo arrivasse si sistemava i capelli, si profumava il collo e indossava sotto la vestaglia una sottanina nera di seta. Poi accendeva il giradischi e ascoltava quella canzone. Sempre la stessa.
“Mi ricordo quando noi eravamo due bambini e puntavamo le pistole dai cavalli a dondolo. Bang bang. Io sparo a te. bang bang. Tu spari a me. Bang bang. E vincerà bang bang. Chi al cuore colpirà”. (Dalida – Bang Bang).
Lo chiamava “Bang Bang”… sì, era così che lo chiamava da sempre sua mamma. Avvicinandosi al suo viso, glielo raccomandava che quello era un segreto fra di loro e che doveva restare tale per sempre. “Ricordalo, Bang Bang, ricordalo”, gli ripeteva, “non dirlo mai a nessuno”. Lui, così piccolo, non capiva e si limitava ad annuire stringendosi forte alle sue gambe. Quando era chiuso nella stanza per non sentire i gemiti aveva imparato a svuotare la mente, a non pensare a nulla. Restava immobile seduto sulla poltroncina, inebetito chiudeva gli occhi e vedeva tutto nero… ed era come se morisse. Solo il canto del cuculo lo scuoteva. Ma era un fremito che durava un attimo. Nella penombra dell’abitacolo si guardò le mani ingiallite dalla nicotina e quelle dita diventate tozze da sembrare gonfie. Erano mani possenti, le sue, mani che avrebbero potuto uccidere. Tali e quali a quelle di suo padre. Tre uomini in abiti eleganti con cravattino e scarpe lucide lo distolsero dai pensieri. Parlottando tra loro gli passarono accanto, e gettandogli un occhiata svogliata scomparvero nella notte. Aveva come l’impressione che dovesse stare sempre in castigo tanto che non ci capiva più nulla delle cose del mondo. Troppo dure le batoste che aveva ricevuto… ma giù nei vicoli, se abbassi la guardia, ti fanno fuori in un baleno… e i teneri di cuore hanno vita breve. Accese una sigaretta, anche se si sentiva la gola grattare, e tirò una lunga boccata bruciando il filtro che divenne molle. Abbassò il finestrino e una folata di vento lo fece rabbrividire. Come una canzone dei Beasts Of Bourbon.
“Ridestato nella stanza di Johnny, Mama era proprio lì accanto al suo letto e le mie mani intorno alla sua gola, desiderando che entrambi fossimo morti. Pensi che sia pazzo, Mama, e tu? Ho appena ucciso il cagnolino di Johnny. Pensi che sia fuori di testa, e tu, Mama? Faresti meglio a farmi rinchiudere”. (Beasts Of Bourbon – Psycho).
Con le dita si trastullò per un po’ sul volante. Poi si ricordò di prendere la pillola per i nervi che teneva nel taschino della giacca. Tirò fuori l’astuccio, ne staccò una e la inghiottì. La luce dei fari di una macchina che transitava in senso opposto illuminò per un attimo il marciapiede. Qualche isolato più avanti, sepolto nel buio riconobbe un uomo. La sua faccia era indubbiamente smorta ma sinistra. Però su di lui non sortì alcun effetto. Mise il nastro di Otis Redding e Hard To Handle popolò le ombre. Era chiaro che non gli faceva bene rimuginare nel passato, ma quello torna sempre quando meno te lo aspetti ringhiandoti nell’anima. Certo, aveva fatto di tutto per dimenticare, ma alle volte dimenticare è quasi impossibile.
“Ho lasciato la mia casa in Georgia. Diretto verso la baia di Frisco. Perché non avevo niente per cui vivere. E sembra che niente incrocerà la mia strada (Otis Redding – Sittin’On The Dock Of The Bay).
Il cuculo aveva cantato tre volte e poi altre due. Le aveva contate con le dita della manina, tenendola aperta sulle ginocchia. Come pietrificato, se ne restava seduto immobile aspettando che sua madre lo facesse uscire. Dopo il primo “cucù” aveva udito dei passi nel corridoio ma era tornato subito con la mente nel vuoto, non immaginando nessuna cosa… o forse fingendo a se stesso. Finalmente la porta della stanza si schiuse. Con la coda dell’occhio vide entrare due poliziotti in divisa che si avvicinavano delicatamente. Uno di loro lo prese in braccio e si accorse che si era bagnato. Bisbigliandogli di stare tranquillo, con la sua grossa mano gli coprì il viso mentre lo portava fuori dalla stanza ma, l’odore pungente della morte è inconfondibile, lo senti anche se sei un bambino e lo avverti perché ti penetra nelle narici quasi fino a sfondartele. Velocemente l’agente percorse il corridoio, ma lui gli spostò la mano e vide il corpo di sua madre nuda riverso in terra. C’era sangue, sangue sui muri, sul pavimento, sui quadri, sulle maniglie. Persino sull’orologio a muro. C’era sangue dappertutto. Vide anche quell’uomo accasciato sulla porta della stanza da letto con un profondo taglio nel petto. L’agente lo caricò alla svelta dentro un auto cercando di tenergli con molto garbo la testa bassa, ma Bang Bang, sempre con un gesto fulmineo si divincolò e dietro la siepe incrociò lo sguardo di suo padre. Lo scorse lì, fermo, ammanettato, con gli occhi stralunati e le sue grandi mani tinte di rosso… e fu quella l’ultima volta.
“Non c’è solo odio nel mondo. Non ci sono solo buchi nel cielo. C’è solo un destino che non puoi rinnegare. Due amanti aspettano di morire. Joe si è ammalato in guerra, tra le vene e la mente. Sammy si è ammalato a causa di tutte le bugie. Due amanti aspettano di morire…C’è solo una lacrima che continua a volar via…”. (Green On Red – Two lovers Waitin’ To Die).
Anche se Bang Bang riusciva a svuotarsi la testa, quelle urla disumane non potevano essere ignorate. Suo padre li aveva uccisi con una crudeltà inaudita. Durante quei momenti aveva azionato i meccanismi che ci portano a rinchiuderci nella nostra linea di difesa. Come una pietra scagliata in uno stagno forma dei cerchi che man mano si dilatano e si estendono per poi scomparire nell’infinito. Bang Bang era scomparso da quel luogo e si era messo a volare nello spazio tra le nuvole… ma quella puzza di morte, lui, la sentì sempre incollata addosso. Pure adesso la percepiva mentre, sbucavano fuori dalle ombre anche i più piccoli dettagli. Quando fu tutto finito suo papà aveva azionato il giradischi e messo quella canzone. Sempre quella. Sempre la stessa.
“Ora non mi ami più Ed ho sentito un colpo al cuore Quando mi hai detto che Non vuoi stare più con me Bang bang… E resto qui Bang bang A piangere Bang bang hai vinto tu Bang bang Il cuore non l’ho più”. (Dalida – Bang Bang).
Non era più tempo d’ ingannare nessuno, neppure se stesso. Lei aveva un bel viso liscio che assomigliava a Rickie Lee Jones. Indossava una giacca di pelle nera striminzita e una camicetta bianca di raso sopra un jeans attillato. Quando arrivò sorridendo e salì in macchina, si strinse contro di lui. Quel calore che lei emanava lo aveva scosso fino dentro le ossa e sentirsi vivo, per uno che aveva le carte del destino nate male, era una sensazione indescrivibile. Guardando la strada mentre calava la notte, aveva parlato e ancora parlato, fino a spurgarsi l’anima. Poi si era librato nel cielo, ma questa volta lo aveva fatto un attimo prima che non riuscisse più a piangere. Quando riaprì gli occhi lei lo stava guardando e sfiorandolo con un bacio si accorse che c’era ancora una certa tensione in lui. “Adesso puoi levarti quella faccia da lupo”, gli sussurrò con dolcezza accarezzandogli i capelli. Lui avviò il motore, inserì un nastro e fece partire Burn, una canzone dei Dream Syndicate. Il cielo era scintillante di un blu intenso. Lei si girò nuovamente verso di lui e, affondandogli lo sguardo negli occhi, si accorse che per la prima volta gli sorridevano.
“Ma puoi sentirlo nel cuore. Sentirlo nell’anima. Sentirlo andare intorno finché non perdi il controllo. Sono solo poche cose che non possono essere raccontate. Non lo senti bruciare?” (Dream Syndicate – Burn).
“Melinda era mia fin al momento che la trovai stretta a Jim mentre lo amava. Poi arrivò Sue mi amava intensamente questo è quello che ho pensato. Io e Sue. Ma anche questo finì. Non so cosa farò. Ma fino a che non troverò la ragazza che vuole rimanere e non giocherà alle mie spalle. Sarò quello che sono. Un uomo solitario. Un Uomo solitario”. (Neil Diamond – Solitary Man). Hai voglia a spingerli da qualche parte, a seppellirli nell’immondizia o sotto fiumi di alcool, i ricordi tornano sempre, specie quelli più dolorosi. La strada silenziosa era gialla di luna. Strinse per un attimo gli occhi che gli bruciavano maledettamente e congiunse le mani a mo’ di preghiera. Nel palazzo di fronte si accese la luce di un bagno. Si sbottonò la camicia bianca intrisa di sudore e una smorfia gli irrigidì il volto. Il pallore del suo viso celava una rabbia mortale. Era sbucata all’improvviso quella donna, alta, bella, con uno charme tale da mandarlo in tilt come non gli era capitato mai in vita sua. Forse era un fantasma sbucato da chissà dove e a cui lui non doveva dire nulla. Adesso, però, seduto nell’abitacolo, sembrava che portasse tutto il peso del mondo sulle sue spalle e, a guardarlo negli occhi, faceva davvero spavento. Con quell’aria da animale ferito sembrava una ballata aspra dei Thin White Rope.
“E qualcuno al telefono seppe le cose che io avevo sempre conosciuto Colonne sonore canticchiate ai sogni che avevo dimenticato Ho amato il telefono, parlato col segnale di linea Mentre la gente sui marciapiedi fuggiva da me”. (Thin White Rope – Diesel Man).
L’orologio a cucù sulla parete dell’ingresso misurava inesorabile il passare delle ore. Si racconta che il canto del cuculo è profetico, capace d’indicare la buona e la cattiva sorte. Poco prima che quell’uomo arrivasse, sua madre era solita chiuderlo a chiave nella viscere buie della sua stanza e solo dopo che il cuculo cantava tre volte gli riapriva la porta. Aveva otto anni, e questo succedeva ogni qual volta suo padre si allontanava per lavoro. Un commesso viaggiatore, suo papà, che ogni quindici giorni faceva il giro dei clienti fuori città assentandosi anche tutta la settimana. Aveva memorizzato le gesta di sua madre e sapeva che quel giochino, così lei lo chiamava, stava per iniziare. Poco prima che quell’uomo arrivasse si sistemava i capelli, si profumava il collo e indossava sotto la vestaglia una sottanina nera di seta. Poi accendeva il giradischi e ascoltava quella canzone. Sempre la stessa.
“Mi ricordo quando noi eravamo due bambini e puntavamo le pistole dai cavalli a dondolo. Bang bang. Io sparo a te. bang bang. Tu spari a me. Bang bang. E vincerà bang bang. Chi al cuore colpirà”. (Dalida – Bang Bang).
Lo chiamava “Bang Bang”… sì, era così che lo chiamava da sempre sua mamma. Avvicinandosi al suo viso, glielo raccomandava che quello era un segreto fra di loro e che doveva restare tale per sempre. “Ricordalo, Bang Bang, ricordalo”, gli ripeteva, “non dirlo mai a nessuno”. Lui, così piccolo, non capiva e si limitava ad annuire stringendosi forte alle sue gambe. Quando era chiuso nella stanza per non sentire i gemiti aveva imparato a svuotare la mente, a non pensare a nulla. Restava immobile seduto sulla poltroncina, inebetito chiudeva gli occhi e vedeva tutto nero… ed era come se morisse. Solo il canto del cuculo lo scuoteva. Ma era un fremito che durava un attimo. Nella penombra dell’abitacolo si guardò le mani ingiallite dalla nicotina e quelle dita diventate tozze da sembrare gonfie. Erano mani possenti, le sue, mani che avrebbero potuto uccidere. Tali e quali a quelle di suo padre. Tre uomini in abiti eleganti con cravattino e scarpe lucide lo distolsero dai pensieri. Parlottando tra loro gli passarono accanto, e gettandogli un occhiata svogliata scomparvero nella notte. Aveva come l’impressione che dovesse stare sempre in castigo tanto che non ci capiva più nulla delle cose del mondo. Troppo dure le batoste che aveva ricevuto… ma giù nei vicoli, se abbassi la guardia, ti fanno fuori in un baleno… e i teneri di cuore hanno vita breve. Accese una sigaretta, anche se si sentiva la gola grattare, e tirò una lunga boccata bruciando il filtro che divenne molle. Abbassò il finestrino e una folata di vento lo fece rabbrividire. Come una canzone dei Beasts Of Bourbon.
“Ridestato nella stanza di Johnny, Mama era proprio lì accanto al suo letto e le mie mani intorno alla sua gola, desiderando che entrambi fossimo morti. Pensi che sia pazzo, Mama, e tu? Ho appena ucciso il cagnolino di Johnny. Pensi che sia fuori di testa, e tu, Mama? Faresti meglio a farmi rinchiudere”. (Beasts Of Bourbon – Psycho).
Con le dita si trastullò per un po’ sul volante. Poi si ricordò di prendere la pillola per i nervi che teneva nel taschino della giacca. Tirò fuori l’astuccio, ne staccò una e la inghiottì. La luce dei fari di una macchina che transitava in senso opposto illuminò per un attimo il marciapiede. Qualche isolato più avanti, sepolto nel buio riconobbe un uomo. La sua faccia era indubbiamente smorta ma sinistra. Però su di lui non sortì alcun effetto. Mise il nastro di Otis Redding e Hard To Handle popolò le ombre. Era chiaro che non gli faceva bene rimuginare nel passato, ma quello torna sempre quando meno te lo aspetti ringhiandoti nell’anima. Certo, aveva fatto di tutto per dimenticare, ma alle volte dimenticare è quasi impossibile.
“Ho lasciato la mia casa in Georgia. Diretto verso la baia di Frisco. Perché non avevo niente per cui vivere. E sembra che niente incrocerà la mia strada (Otis Redding – Sittin’On The Dock Of The Bay).
Il cuculo aveva cantato tre volte e poi altre due. Le aveva contate con le dita della manina, tenendola aperta sulle ginocchia. Come pietrificato, se ne restava seduto immobile aspettando che sua madre lo facesse uscire. Dopo il primo “cucù” aveva udito dei passi nel corridoio ma era tornato subito con la mente nel vuoto, non immaginando nessuna cosa… o forse fingendo a se stesso. Finalmente la porta della stanza si schiuse. Con la coda dell’occhio vide entrare due poliziotti in divisa che si avvicinavano delicatamente. Uno di loro lo prese in braccio e si accorse che si era bagnato. Bisbigliandogli di stare tranquillo, con la sua grossa mano gli coprì il viso mentre lo portava fuori dalla stanza ma, l’odore pungente della morte è inconfondibile, lo senti anche se sei un bambino e lo avverti perché ti penetra nelle narici quasi fino a sfondartele. Velocemente l’agente percorse il corridoio, ma lui gli spostò la mano e vide il corpo di sua madre nuda riverso in terra. C’era sangue, sangue sui muri, sul pavimento, sui quadri, sulle maniglie. Persino sull’orologio a muro. C’era sangue dappertutto. Vide anche quell’uomo accasciato sulla porta della stanza da letto con un profondo taglio nel petto. L’agente lo caricò alla svelta dentro un auto cercando di tenergli con molto garbo la testa bassa, ma Bang Bang, sempre con un gesto fulmineo si divincolò e dietro la siepe incrociò lo sguardo di suo padre. Lo scorse lì, fermo, ammanettato, con gli occhi stralunati e le sue grandi mani tinte di rosso… e fu quella l’ultima volta.
“Non c’è solo odio nel mondo. Non ci sono solo buchi nel cielo. C’è solo un destino che non puoi rinnegare. Due amanti aspettano di morire. Joe si è ammalato in guerra, tra le vene e la mente. Sammy si è ammalato a causa di tutte le bugie. Due amanti aspettano di morire…C’è solo una lacrima che continua a volar via…”. (Green On Red – Two lovers Waitin’ To Die).
Anche se Bang Bang riusciva a svuotarsi la testa, quelle urla disumane non potevano essere ignorate. Suo padre li aveva uccisi con una crudeltà inaudita. Durante quei momenti aveva azionato i meccanismi che ci portano a rinchiuderci nella nostra linea di difesa. Come una pietra scagliata in uno stagno forma dei cerchi che man mano si dilatano e si estendono per poi scomparire nell’infinito. Bang Bang era scomparso da quel luogo e si era messo a volare nello spazio tra le nuvole… ma quella puzza di morte, lui, la sentì sempre incollata addosso. Pure adesso la percepiva mentre, sbucavano fuori dalle ombre anche i più piccoli dettagli. Quando fu tutto finito suo papà aveva azionato il giradischi e messo quella canzone. Sempre quella. Sempre la stessa.
“Ora non mi ami più Ed ho sentito un colpo al cuore Quando mi hai detto che Non vuoi stare più con me Bang bang… E resto qui Bang bang A piangere Bang bang hai vinto tu Bang bang Il cuore non l’ho più”. (Dalida – Bang Bang).
Non era più tempo d’ ingannare nessuno, neppure se stesso. Lei aveva un bel viso liscio che assomigliava a Rickie Lee Jones. Indossava una giacca di pelle nera striminzita e una camicetta bianca di raso sopra un jeans attillato. Quando arrivò sorridendo e salì in macchina, si strinse contro di lui. Quel calore che lei emanava lo aveva scosso fino dentro le ossa e sentirsi vivo, per uno che aveva le carte del destino nate male, era una sensazione indescrivibile. Guardando la strada mentre calava la notte, aveva parlato e ancora parlato, fino a spurgarsi l’anima. Poi si era librato nel cielo, ma questa volta lo aveva fatto un attimo prima che non riuscisse più a piangere. Quando riaprì gli occhi lei lo stava guardando e sfiorandolo con un bacio si accorse che c’era ancora una certa tensione in lui. “Adesso puoi levarti quella faccia da lupo”, gli sussurrò con dolcezza accarezzandogli i capelli. Lui avviò il motore, inserì un nastro e fece partire Burn, una canzone dei Dream Syndicate. Il cielo era scintillante di un blu intenso. Lei si girò nuovamente verso di lui e, affondandogli lo sguardo negli occhi, si accorse che per la prima volta gli sorridevano.
“Ma puoi sentirlo nel cuore. Sentirlo nell’anima. Sentirlo andare intorno finché non perdi il controllo. Sono solo poche cose che non possono essere raccontate. Non lo senti bruciare?” (Dream Syndicate – Burn).
Bartolo Federico
Grandiose e potenti immagini, accompagnate da musica incredibile. Come sempre fai venire voglia di scavare tra le pile di cd e vinili e riascoltarli in sequenza. Dream Syndicate, Green on Red, Beasts of Borboun e i favolosi Thin White Rope sono sempre sistemati in una posizione di assoluta importanza nel mio archivio sonoro nei meandri più reconditi della mia materia grigia. Ora scavo e li riascolto, rileggendo le tue parole.
RispondiEliminaGrandi emozioni, bro'
Ciao
Tu mi vuoi troppo bene, una cosa che so molto bene. Un abbraccio a te bro'
Elimina..........eccome se lo sento bruciare : Ciao carissimo
RispondiEliminaciao Antonio, un abbraccio.
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