“Metto
in valigia i miei vestiti ed inizio la mia fuga Sono nei guai, tesoro,
sono in viaggio Non riesco ad essere soddisfatto Ma proprio non riesco a
smettere di provarci.” (I Can’t Be Satisfied – Muddy Waters).
Guidavo senza sosta con il gomito appoggiato al finestrino. L’auto andava che era una meraviglia, intanto che il vento alzava nuvole di polvere bianchiccia. Bevvi un sorso d’acqua e infilai un cd nell’autoradio. Non appena la musica venne fuori, mi sentii al sicuro dentro le canzoni di Blind Willie McTell. Nonostante quei blues fossero cantati con toni scuri e ruvidi e all’improvviso si impennassero in falsetti che mi turbavano, le sue canzoni parlavano di speranza che non capitolava mai, neppure di fronte alla sfortuna più nera, di quella determinazione che occorre sempre per affrontare i periodi più duri cui la vita ci mette al cospetto. McTell era uno zingaro, un vero vagabondo. Per lui il richiamo della strada era qualcosa di irresistibile. Pur se cieco, era sempre in movimento, all’inseguimento di quella cosa che mai nessuno raggiungerà. Hot Shot Wille, Georgia Bill, Pig’n Whistle Red e Blind Sammie erano i suoi fantasmi che utilizzava per incidere e aggirare gli obblighi contrattuali con le case discografiche dell’epoca, dato che era anche un autore prolifico… ma pur celandosi, il suo stile restava unico e riconoscibilissimo. Nel cielo del mattino, avevo ingranato la marcia indietro dei ricordi e sotto un sole cocente un po’ di nostalgia mi sbucciò gli occhi. La notte l’avevo trascorsa nel buio di una squallida stanza di un fottuto motel che avevo trovato lungo il tragitto. Un posto senza clienti che costava poco. Buono per chi non si attende più nulla dalla vita. O per chi non ha più voglia di parlare. Manco con se stesso. Correvo in auto e mi chiedevo come fossero state quelle strade polverose, percorse da quell’esercito di pezzenti di cui anche il giovane cieco McTell faceva parte e che, come tanti altri, percorreva per unirsi agli spettacoli itineranti dei medicine show. Era davvero bravo a spostarsi, nonostante il suo handicap. Suonava ovunque capitasse i suoi blues che poi divennero assi portanti del rock. Statesboro Blues ne è un esempio. Gli Allman Brothers ne fecero una versione stupefacente. Ma anche Mama,Tain’t Long For Day, Three Women Blues e Broken Down Engine Blues lasciarono il loro segno indelebile. Era un esploratore della chitarra dodici corde. Lo strumento non aveva segreti per lui. Sapeva usare benissimo le accordature aperte e il suo repertorio abbracciava svariati stili che andavano dal ragtime, al folk, alla ballata popolare e, come gran parte dei musicisti girovaghi di quel tempo, sapeva adattarsi alle richieste del pubblico. Il cielo sulla mia testa mi sembrò una prateria con tutte quelle piccole nuvole a pecorella che giocavano a rincorrersi…. e m’immaginai per un attimo che goduria sia stata per tutti quelli che lo incrociarono, magari in compagnia del suo compagno di viaggio, il texano Blind Willie Johnson, per le strade di un America che è andata via via sbiadendosi. Certo, tutti più o meno siamo stati innocenti una volta. Poi il tempo ha fatto il suo corso e ci ha cambiato ferocemente. Me ne andavo vagando in un posto sperduto, lontano da tutto e da tutti, e mi sentivo come se il mondo di cui facevo parte non mi appartenesse. Mi fermai per una sosta. Comprai un panino e bevvi acqua frizzante ghiacciata. Presi anche un caffè. Ci voleva una volontà di ferro per proseguire con tutto quello che stava accadendo. .. ma avrei di gran lunga preferito essere un viaggiatore furtivo, uno di quelli che dormiva in spiaggia nel sacco a pelo e al mattino se ne andava cercando la linea ferrata per saltare sul primo treno che passava.
“Il treno merci è stato quello che mi ha insegnato a piangere Il grido del macchinista è stata la mia ninna nanna Ho il blues del treno merci Oh cara, ce l’ho sulla cima delle mie scarpe vagabonde”. (Freight Train Blues – Traditional)
Avrei voluto incrociare sguardi ed emozioni che mi assomigliassero, ma in quel posto non c’era più nulla. Mi rimisi in macchina e me ne andai così come ero venuto. Senza fretta. Se davvero vuoi imparare a suonare e scrivere canzoni – diceva Tommy Johnson – devi andare da solo a mezzanotte a un crocicchio. Un enorme uomo nero arriverà, prenderà la chitarra e suonerà un brano. Bere era sempre stata la sua ossessione e quando non trovava il whiskey riusciva a mandare giù qualsiasi cosa, anche l’alcool denaturato o il lucido da scarpe a base alcolica. Tommy aveva fraternizzato con il diavolo o, forse, era lui stesso un demone e bruciava dentro quel fuoco in cui poi molti protagonisti del rock finiranno. Vederlo suonare dal vivo era sconvolgente. Si dimenava come posseduto, cantando con una voce drammatica e intensa i suoi blues indemoniati. Anche lui, come Charlie Patton con cui aveva condiviso alcune esibizioni, suonava la chitarra dietro le spalle… ma non era per niente ossessionato dalla tecnica. Gli bastava semplicemente far venire fuori il suo boogie woogie maligno, per graffiare a sangue l’anima. Per sempre. Di questo passo all’inferno ci finirò io pensai, dando fuoco a una cicca. Era già il crepuscolo, e la quiete era assoluta. Non so più cosa voglio o forse non l’ho mai saputo… ma ci sono cose che ti piovono addosso, e che devi accettare supinamente. Hai voglia a scuoterti come un tarantolato, cercando di mandarle via. Si portano con sé anche quel po’ di magia che possedevi… allora ti rendi conto che è stato il mondo a prenderti a calci nel culo, e non viceversa. Cosi smetti di credere. Mentre tenevo gli occhi fissi sulla strada avrei voluto che piovesse. Cercai un indizio per non capitolare e mi chiesi in quale cazzo di direzione era mai la terra promessa. Il fantasma William George Tucker nasce il 14 novembre del 1905 a Henning in Tennessee. Nello stesso anno di Arthur “Big Boy” Crudup. Quel giorno, suo padre mise delle ciotole sul davanzale della finestra e raccolse la pioggia. Più tardi con quella stessa acqua lo battezzarono. Fu in quella circostanza che si accorsero di quegli strani graffi scarlatti che aveva sul petto.
“Una zingara disse a mia mamma, il giorno in cui nacqui, “Oh, sta per arrivare un maschietto. Oh Signore, sarà un vero diavolo”. (Hoochie Coochie Man – Willie Dixon).
Nessuno di noi può prevedere il proprio destino, ma quello riservato a William George Tucker fu davvero spietato. A quel tempo quando nascevi nel Delta del Mississippi, la musica ti veniva servita sin dalla prima poppata. Ben presto William imparò a tenere una chitarra in mano e con questa si esibiva alle feste, nei bordelli e per strada. Nella prima metà degli anni trenta arrivò a suonare con John Lee Williamson (Sonny Boy I) e Sunnyland Slim. Il suo blues rozzo e primitivo, ma pieno di pathos e cantato con una voce sgraziata che toccava nel profondo. Le cose sembravano andare per il meglio, ma quei segni che il diavolo gli aveva lasciato sul petto erano premonitori. In circostanze che resteranno per sempre oscure venne accusato dell’assassinio di un uomo bianco, tale Mr. Charlie. Sapendo bene che il giudizio sarebbe stato scontato, fece perdere le sue tracce per diventare un vero spettro. Ricomparve dopo qualche anno a Chicago con una nuova identità, facendosi chiamare John Henry Barbee. Si esibì sui marciapiedi di Maxell Street, in compagnia di altri randagi e della sua fedele sei corde… ma per sopravvivere dovette svolgere i lavori più umili, convivendo sempre con la paura di essere riconosciuto. Paura che lo smantellò irrimediabilmente nel fisico e nell’animo. Durante il blues revival degli anni sessanta fu riscoperto e incise per l’etichetta di Victoria Spivey. Andò anche in Europa a suonare a seguito dell’America Folk Blues Festival… ma il diavolo volle il saldo.
“Ho due ragioni per piangere tutte le notti solitarie La prima si chiama Sweet Anne Marie ed è la delizia del mio cuore. La seconda è la prigione, bimba, lo sceriffo è sulle mie tracce e se mi raggiunge passerò tutta la mia vita in cella”. (Friend Of The Devil – Garcia-Hunter-Dawson).
Perdutamente alla deriva, una sera restò coinvolto in brutto incidente d’auto. Quest’evento cagionò un effetto devastante su di lui, tanto che lo indusse a costituirsi per dimostrare finalmente la sua innocenza. In carcere, in attesa del processo, si sentì male. Un’ambulanza lo caricò per trasportarlo all’ospedale ma morì d’infarto durante il percorso. C’è solo un album che testimonia la sua umanità, “Portrait In Blues vol 9″, che è la colonna sonora di tutti quei fantasmi che come lui non hanno mai avuto giustizia. Il suo blues è disperato, drammatico, carico di dolore lacerante come solo questa musica può esserlo, quando sgorga direttamente dal cuore. Ero lì da solo e guidavo su quella strada tortuosa e solitaria. Con i miei sogni raggrinziti che sentivo, anche se stancamente, pulsare… e quel vuoto immenso dentro di me. Imboccai la statale e oltrepassai un ponte. Udii il rumore del traffico venirmi dinanzi. Non riuscivo ad essere in pari con me stesso, era questa la verità: il fatto di essere stato più e più volte ferito aveva cambiato la mia prospettiva, la mia visuale delle cose. Avrei dovuto trovare un posto dove stare. Con il finestrino abbassato, il caldo afoso mi ansimò in faccia. Una farfalla volteggiò nell’abitacolo. Le farfalle simboleggiano il calore dell’estate. I sacerdoti Zuñi usano mettere le farfalle nere dentro i tamburi in modo che il loro suono porti al delirio gli ascoltatori. Proprio come i blues. I miei maledetti blues.
Guidavo senza sosta con il gomito appoggiato al finestrino. L’auto andava che era una meraviglia, intanto che il vento alzava nuvole di polvere bianchiccia. Bevvi un sorso d’acqua e infilai un cd nell’autoradio. Non appena la musica venne fuori, mi sentii al sicuro dentro le canzoni di Blind Willie McTell. Nonostante quei blues fossero cantati con toni scuri e ruvidi e all’improvviso si impennassero in falsetti che mi turbavano, le sue canzoni parlavano di speranza che non capitolava mai, neppure di fronte alla sfortuna più nera, di quella determinazione che occorre sempre per affrontare i periodi più duri cui la vita ci mette al cospetto. McTell era uno zingaro, un vero vagabondo. Per lui il richiamo della strada era qualcosa di irresistibile. Pur se cieco, era sempre in movimento, all’inseguimento di quella cosa che mai nessuno raggiungerà. Hot Shot Wille, Georgia Bill, Pig’n Whistle Red e Blind Sammie erano i suoi fantasmi che utilizzava per incidere e aggirare gli obblighi contrattuali con le case discografiche dell’epoca, dato che era anche un autore prolifico… ma pur celandosi, il suo stile restava unico e riconoscibilissimo. Nel cielo del mattino, avevo ingranato la marcia indietro dei ricordi e sotto un sole cocente un po’ di nostalgia mi sbucciò gli occhi. La notte l’avevo trascorsa nel buio di una squallida stanza di un fottuto motel che avevo trovato lungo il tragitto. Un posto senza clienti che costava poco. Buono per chi non si attende più nulla dalla vita. O per chi non ha più voglia di parlare. Manco con se stesso. Correvo in auto e mi chiedevo come fossero state quelle strade polverose, percorse da quell’esercito di pezzenti di cui anche il giovane cieco McTell faceva parte e che, come tanti altri, percorreva per unirsi agli spettacoli itineranti dei medicine show. Era davvero bravo a spostarsi, nonostante il suo handicap. Suonava ovunque capitasse i suoi blues che poi divennero assi portanti del rock. Statesboro Blues ne è un esempio. Gli Allman Brothers ne fecero una versione stupefacente. Ma anche Mama,Tain’t Long For Day, Three Women Blues e Broken Down Engine Blues lasciarono il loro segno indelebile. Era un esploratore della chitarra dodici corde. Lo strumento non aveva segreti per lui. Sapeva usare benissimo le accordature aperte e il suo repertorio abbracciava svariati stili che andavano dal ragtime, al folk, alla ballata popolare e, come gran parte dei musicisti girovaghi di quel tempo, sapeva adattarsi alle richieste del pubblico. Il cielo sulla mia testa mi sembrò una prateria con tutte quelle piccole nuvole a pecorella che giocavano a rincorrersi…. e m’immaginai per un attimo che goduria sia stata per tutti quelli che lo incrociarono, magari in compagnia del suo compagno di viaggio, il texano Blind Willie Johnson, per le strade di un America che è andata via via sbiadendosi. Certo, tutti più o meno siamo stati innocenti una volta. Poi il tempo ha fatto il suo corso e ci ha cambiato ferocemente. Me ne andavo vagando in un posto sperduto, lontano da tutto e da tutti, e mi sentivo come se il mondo di cui facevo parte non mi appartenesse. Mi fermai per una sosta. Comprai un panino e bevvi acqua frizzante ghiacciata. Presi anche un caffè. Ci voleva una volontà di ferro per proseguire con tutto quello che stava accadendo. .. ma avrei di gran lunga preferito essere un viaggiatore furtivo, uno di quelli che dormiva in spiaggia nel sacco a pelo e al mattino se ne andava cercando la linea ferrata per saltare sul primo treno che passava.
“Il treno merci è stato quello che mi ha insegnato a piangere Il grido del macchinista è stata la mia ninna nanna Ho il blues del treno merci Oh cara, ce l’ho sulla cima delle mie scarpe vagabonde”. (Freight Train Blues – Traditional)
Avrei voluto incrociare sguardi ed emozioni che mi assomigliassero, ma in quel posto non c’era più nulla. Mi rimisi in macchina e me ne andai così come ero venuto. Senza fretta. Se davvero vuoi imparare a suonare e scrivere canzoni – diceva Tommy Johnson – devi andare da solo a mezzanotte a un crocicchio. Un enorme uomo nero arriverà, prenderà la chitarra e suonerà un brano. Bere era sempre stata la sua ossessione e quando non trovava il whiskey riusciva a mandare giù qualsiasi cosa, anche l’alcool denaturato o il lucido da scarpe a base alcolica. Tommy aveva fraternizzato con il diavolo o, forse, era lui stesso un demone e bruciava dentro quel fuoco in cui poi molti protagonisti del rock finiranno. Vederlo suonare dal vivo era sconvolgente. Si dimenava come posseduto, cantando con una voce drammatica e intensa i suoi blues indemoniati. Anche lui, come Charlie Patton con cui aveva condiviso alcune esibizioni, suonava la chitarra dietro le spalle… ma non era per niente ossessionato dalla tecnica. Gli bastava semplicemente far venire fuori il suo boogie woogie maligno, per graffiare a sangue l’anima. Per sempre. Di questo passo all’inferno ci finirò io pensai, dando fuoco a una cicca. Era già il crepuscolo, e la quiete era assoluta. Non so più cosa voglio o forse non l’ho mai saputo… ma ci sono cose che ti piovono addosso, e che devi accettare supinamente. Hai voglia a scuoterti come un tarantolato, cercando di mandarle via. Si portano con sé anche quel po’ di magia che possedevi… allora ti rendi conto che è stato il mondo a prenderti a calci nel culo, e non viceversa. Cosi smetti di credere. Mentre tenevo gli occhi fissi sulla strada avrei voluto che piovesse. Cercai un indizio per non capitolare e mi chiesi in quale cazzo di direzione era mai la terra promessa. Il fantasma William George Tucker nasce il 14 novembre del 1905 a Henning in Tennessee. Nello stesso anno di Arthur “Big Boy” Crudup. Quel giorno, suo padre mise delle ciotole sul davanzale della finestra e raccolse la pioggia. Più tardi con quella stessa acqua lo battezzarono. Fu in quella circostanza che si accorsero di quegli strani graffi scarlatti che aveva sul petto.
“Una zingara disse a mia mamma, il giorno in cui nacqui, “Oh, sta per arrivare un maschietto. Oh Signore, sarà un vero diavolo”. (Hoochie Coochie Man – Willie Dixon).
Nessuno di noi può prevedere il proprio destino, ma quello riservato a William George Tucker fu davvero spietato. A quel tempo quando nascevi nel Delta del Mississippi, la musica ti veniva servita sin dalla prima poppata. Ben presto William imparò a tenere una chitarra in mano e con questa si esibiva alle feste, nei bordelli e per strada. Nella prima metà degli anni trenta arrivò a suonare con John Lee Williamson (Sonny Boy I) e Sunnyland Slim. Il suo blues rozzo e primitivo, ma pieno di pathos e cantato con una voce sgraziata che toccava nel profondo. Le cose sembravano andare per il meglio, ma quei segni che il diavolo gli aveva lasciato sul petto erano premonitori. In circostanze che resteranno per sempre oscure venne accusato dell’assassinio di un uomo bianco, tale Mr. Charlie. Sapendo bene che il giudizio sarebbe stato scontato, fece perdere le sue tracce per diventare un vero spettro. Ricomparve dopo qualche anno a Chicago con una nuova identità, facendosi chiamare John Henry Barbee. Si esibì sui marciapiedi di Maxell Street, in compagnia di altri randagi e della sua fedele sei corde… ma per sopravvivere dovette svolgere i lavori più umili, convivendo sempre con la paura di essere riconosciuto. Paura che lo smantellò irrimediabilmente nel fisico e nell’animo. Durante il blues revival degli anni sessanta fu riscoperto e incise per l’etichetta di Victoria Spivey. Andò anche in Europa a suonare a seguito dell’America Folk Blues Festival… ma il diavolo volle il saldo.
“Ho due ragioni per piangere tutte le notti solitarie La prima si chiama Sweet Anne Marie ed è la delizia del mio cuore. La seconda è la prigione, bimba, lo sceriffo è sulle mie tracce e se mi raggiunge passerò tutta la mia vita in cella”. (Friend Of The Devil – Garcia-Hunter-Dawson).
Perdutamente alla deriva, una sera restò coinvolto in brutto incidente d’auto. Quest’evento cagionò un effetto devastante su di lui, tanto che lo indusse a costituirsi per dimostrare finalmente la sua innocenza. In carcere, in attesa del processo, si sentì male. Un’ambulanza lo caricò per trasportarlo all’ospedale ma morì d’infarto durante il percorso. C’è solo un album che testimonia la sua umanità, “Portrait In Blues vol 9″, che è la colonna sonora di tutti quei fantasmi che come lui non hanno mai avuto giustizia. Il suo blues è disperato, drammatico, carico di dolore lacerante come solo questa musica può esserlo, quando sgorga direttamente dal cuore. Ero lì da solo e guidavo su quella strada tortuosa e solitaria. Con i miei sogni raggrinziti che sentivo, anche se stancamente, pulsare… e quel vuoto immenso dentro di me. Imboccai la statale e oltrepassai un ponte. Udii il rumore del traffico venirmi dinanzi. Non riuscivo ad essere in pari con me stesso, era questa la verità: il fatto di essere stato più e più volte ferito aveva cambiato la mia prospettiva, la mia visuale delle cose. Avrei dovuto trovare un posto dove stare. Con il finestrino abbassato, il caldo afoso mi ansimò in faccia. Una farfalla volteggiò nell’abitacolo. Le farfalle simboleggiano il calore dell’estate. I sacerdoti Zuñi usano mettere le farfalle nere dentro i tamburi in modo che il loro suono porti al delirio gli ascoltatori. Proprio come i blues. I miei maledetti blues.
Bartolo Federico
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