La radio che possedevo quando ero ragazzo era un macinino,
un ferrovecchio, che sputava musica dalla mezzanotte alle sei del
mattino… e spesso era grande musica. Era tramite quell’aggeggio che mi
arrivavano le emozioni più grandi che avessi mai provato. Me le ricordo
ancora quelle ore nel cuore della notte, sdraiato sul mio letto. Era come se ci facessi l’amore con la musica. Era lei la mia amica speciale. Mi fu anche chiaro che non sarei mai diventato un avvocato, un dottore, un politico, e neanche un commercialista. La musica aveva intaccato la mia anima,
accomodandosi in quelle profondità dove nessuno potrà mai arrivare. Mi
ha cambiato per sempre la musica. Adesso sdraiato sul mio letto fisso
delle ombre a forma di palla. Rimango a fissarle con un occhio aperto e
l’altro semichiuso. Il suono di quelle vecchie melodie alle volte sembra
svanire… ma poi come un soffio spinto dal vento, ritornano. Lasciandomi
nell’ombra. Patti Smith durante gli anni sessanta, ascoltava musica attraverso le radio Fm che trasmettevano Wilson Pickett, James Brown, Smokey Robinson, Otis Redding… ma come lei stessa ha raccontato furono i Rolling Stones la sua più grande influenza musicale, per il fatto che Mick Jagger
riuscisse a muoversi sul palco come se fosse un nero. Questo la colpirà
profondamente, tanto che la reazione che ebbe di fronte alla tv
guardandoli per la prima volta, fu quella di bagnarsi le mutandine. Poi
anche Little Richard, Elvis, Chuck Berry, sono stati suoi punti di riferimento, con Jimi Hendrix e Jim Morrison. Nell’estate del 1970 i Velvet Underground si esibirono per l’ultima volta al Max’s Kansas City, un locale di New York, e Patti Smith era tra il pubblico ad assorbire energia. In quel periodo nella grande mela, si mettevano in bella mostra anche due band provenienti da Detroit. Due complessi che si muovevano sui sentieri della passione e dell’azzardo mescolando la musica alla vita, suonavano un rock violento e trasgressivo, antagonista al potere. Patti Smith non sfuggì al fascino animalesco ed eccitante degli MC5, e dei dissacratori Stooges di Iggy Pop.
La loro musica diretta e convulsa, insieme all’approccio selvaggio che
avevano dal vivo, influenzeranno profondamente il suo linguaggio sonoro.
Conoscevo tutti i passaggi, i respiri, le pause di “Absolute Live” dei The Doors. Anche gli scricchioli, di quel doppio live pubblicato nel 1970 che conteneva una serie di concerti che il gruppo aveva tenuto in giro per gli States, fra l’agosto del 1969 e giugno del 1970. Quel disco si prendeva cura di me, nel freddo e nel buio. Era come se mi sedessi sul lettino dell’analista. Riusciva a fare uscire il buono e il cattivo, che covavo dentro. Almeno fin quando mia madre non entrava nella stanza urlando perché assordata e stravolta, da quella musica suonata a tutto volume. Facevo un balzo negli anni sessanta, la California, i figli dei fiori. Quello era un volantino dell’esistenza emancipata. Collanine e bracciali. L’allargamento della coscienza, attraverso l’uso di acidi lisergici. La meditazione. Le filosofie orientali. La sperimentazione. La sessualità, e la trasgressione. Un bisogno vero di liberazione. Per me Jim Morrison era un sogno. Una spina nel fianco al sistema, una provocazione continua. Un’immaginazione reale. Un sicario delle buone maniere.
Si spingeva e mi spingeva, oltre il muro. Dall’altra parte del mondo.
Adesso lo capisco anche meglio che era il suo delirio a tenermi vivo
come non mai. Perché quando sei debole ti lasciano solo, e tutto va a rotoli. Un concerto dei Doors era una cerimonia pubblica, un atto sociale, un’azione reale. Arte e vita, tutto messo insieme. “Do You Feel Alright” urla Jim dentro il microfono. La gente gli risponde con gridi d’eccitazione. Ecco che Who Do You Love parte con i suoi ritmi primitivi. Musica scarna ed emotiva, avvolgente e lirica, spesso anche improvvisata. Visioni e poesia. Questo fu il rock dei Doors. Nient’altro. Patti Smith in uno dei suoi tanti viaggi fatti in Francia, si recò al cimitero parigino dov’è sepolto Morrison. S’immaginava di trovarci energia, ma su quella tomba non c’era altro che sporcizia e fango. Alla fine del 1976 esce “Radio Ethiopia”, corredato da una bellissima copertina, rigorosamente in bianco e nero. Un disco che è l’evoluzione di “Horses”. Perché è solo con questo disco che il gruppo ha un’anima, ed è diventato un vero ensemble. “L’unità è la nostra droga” disse Patti Smith.
La musica adesso esce allo scoperto libera, fluida, e si fa linguaggio
di strada nell’interpretare i sogni e le speranze, di quella nuova generazione di ribelli che scalpitano per le strade di Londra… ma è anche una discesa nell’abisso,
il veicolo primario per trasmettere messaggi, introdurre idee,
informazioni. Per questo all’interno del disco si trovano una serie di
consigli dati dalla stessa Smith, per usare la musica. “Radio Ethiopia” brucia parole di fuoco, e parla una sola lingua universale… non ha strutture rigide e trasmette rock’n’roll. L’unica alternativa al silenzio delle coscienze. “Radio Ethiopia” invia messaggi di rivolta ma, oltre alle parole, in questo disco c’è la disubbidienza musicale di “Metal Music Machine”, il doppio album di Lou Reed. E’ difatti il suo sperimentalismo sonoro a guidare in R.E./Abissinia, (dedicata tra l’altro allo scultore Costantin Brancusi, e al poeta Arthur Rimbaud) il Patti Smith Group nell’esplorazione di nuove strade musicali, usando la chitarra Fender duo-sonic. La stessa usata da Jimi Hendrix. John Sinclair era un poeta, scrittore, critico, musicista, amico di molti personaggi della Beat Generation. Un rivoluzionario. Fu lui che aiutò i MC5 a diventare il gruppo di punta della rivolta giovanile americana, alla fine degli anni sessanta. Le esibizioni dei Five erano una vera provocazione alla morale e all’ordine costituito. Come quelle degli Stooges, loro illustri concittadini. Un gruppo legato all’impegno sociale i Five, dal suono duro e animalesco. La band aveva fatto suo il motto di Jerry Rubin un altro sovversivo, (con Abbie Hoffman andrà a turbare il sogno di pace, amore e libertà di Woodstock) che recitava di non fidarsi di nessuno che avesse più di 30 anni. A Detroit
loro città natale questa regola fu messa in pratica rigidamente. Ai
loro concerti non si entrava in nessun modo se avevi più di trent’anni. I
Five si erano tirati dentro i disillusi del sogno americano, vecchi beat, pantere bianche, pacifisti, movimenti studenteschi, filosofi delle droghe, musicisti alternativi. Li avevano coinvolti tutti quanti, nella loro dura lotta al potere. Persino Allen Ginsberg era un loro fan. Il loro primo album, il live “Kick Out The Jams”, uscito nel 1968,
vi darà solo un’idea di quello che erano capaci di tirar fuori questi
musicisti. Una prova che a dispetto del tempo che passa resta integra è
forte. Rock’n’roll selvaggio, per l’anima e il corpo. Per chi ancora crede che ci sia la possibilità, di avere una vita diversa. Senza idoli confezionati, pronti da consumare. Musica schietta, suonata con profonda emozione. La musica degli Stooges incarnava la paura, l’angoscia esistenziale, l’odio contro la borghesia, e la vita facile di tanti teenager bianchi. Era una musica forte, sfrontata, suonata su quei tre accordi che hanno fatto grande il rock’n’roll. Un suono brutale, un urlo demoniaco, psicotico, lacerante, nel buio della notte. Iggy Pop, il cantante della band, era un vero figlio di puttana, un talento naturale, che a diciotto anni se n’era andato da casa per vagabondare in quei luoghi dove si suonava il blues più scellerato.
Un ragazzo che durante le esibizioni dal vivo aggrediva il pubblico
ruzzolandosi tra la gente, agitandosi, denudandosi, bestemmiando e
sputando. A fargli da spalla i fratelli Ashenton, Ron alla chitarra, Scott alla batteria, e Dave Alexander al basso. Il concerto che tennero a Cincinnati nel 1970 passò alla storia. Iggy Pop continuava a sbattersi il microfono dentro la bocca sanguinante,
poi si lanciò tra la gente che lo aspettava con le braccia alzate. A
torso nudo, le gambe fasciate dai pantaloni di cuoio nero, e il dito
puntato contro un bersaglio immaginario, muoveva la lingua insanguinata.
Un suicidio live che scandalizzava chiunque e che ha quasi ucciso Iggy. Il loro primo disco “The Stooges” è del 1969 e fu inciso in solo quattro giorni, con la produzione di John Cale. “Fun House” invece è del 1970. Nel gruppo fece la comparsa il sax lacerante e nervoso di Steven Mackay. Un disco accecante di rabbia e di energia. Un suono implacabile sostenuto dalla voce rauca di Iggy, a segnare una delle pagine più belle che il rock’n’roll ci ha regalato. Basta ascoltare L.A.Blues, il brano che chiude il disco, per capire fin dove gli Stooges si erano spinti. Cinque minuti di puro inferno sonoro, con il sax isterico di Mackay che attraversa i territori del free jazz, inseguito da riff micidiali di chitarra, mentre Iggy continua a urlare la sua depravazione. Un’esperienza devastante. La droga, la follia, la rabbia, rese la musica degli Stooges oscura e ipnotica. Il tempo di un altro disco con la produzione di David Bowie è il sogno se ne va a catafascio. Braccato da quella nuvola nera che lo stava distruggendo, Iggy decide di sparire.
Poi lentamente risalirà la china. Certo, per qualche tempo ho pensato
di avere preso la strada sbagliata ma, arrivato al bivio, non ho fatto
nulla per tornare indietro. Quando ero giovane pensavo che avrei cambiato il corso delle cose, se solo lo avessi voluto. Non è andata così… ma ci tenevo di più a guardarmi allo specchio, e non vedere qualcun altro. Perché si paga tutto prima o poi, e si paga anche per quello che non si vede alla luce del sole. Certe cose dentro di noi, non vanno mai in prescrizione. Mi sono tolto la giacca, e ho lasciato vagare i miei pensieri. Dopo ho acceso la radio. La notte stava salendo, senza un filo di vento. Una volta volevo diventare una rockstar, poi un bluesman… ma in effetti cercavo solo un po’ di calore. Il rock’n’roll mi ha svegliato, mi ha guarito, mi ha protetto.
Mi sono guardato intorno e ho visto tutti quelli che mi hanno superato,
imprecando, spingendo. Non so dove siano finiti. In effetti io ho solo fatto del mio meglio, per restare integro. Ho rivolto il mio sguardo alla “terra degli uccelli”, ed ho visto delle piccole stelle brillare. Mi si è stretto il cuore. I miei eroi sono i nati perdenti… e il mio cuore è nella strada.
Bartolo Federico
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