Guidavo sulla tangenziale deserta osservando gli edifici grigi e le strade vuote.
Quel paesaggio, se da un lato alimentava una sensazione d’intensa
malinconia, dal’altro riusciva a rilassarmi. Con il piede sinistro
appoggiato sul cruscotto ed una mano sul volante, procedevo fumacchiando una Camel. Accesi la radio e inserii “Undead”, anno 1968, un set dal vivo dei Ten Years After, gruppo inglese in auge dalla metà degli anni sessanta. Il chitarrista e anche leader della band, Alvin Lee, per tecnica, velocità e bravura se la sarebbe potuta giocare tranquillamente anche con il re della sei corde Jim Hendrix… ma la storia del rock è ingrata e, come spesso accade, i Ten Years After
sono stati dimenticati in fretta quasi da tutti. La musica riempì
l’abitacolo, regolai il volume, abbassai il finestrino per tirare via la
cicca e sentii l’aria fredda e pungente dell’inverno mordermi la mano.
Spinsi il piede sull’acceleratore quel tanto che bastava per far
fischiare le gomme sull’asfalto bagnato. Afferrai la fiaschetta di
scotch che tenevo nel cruscotto e bevvi un piccolo sorso. Avevo sempre
avuto l’impressione che l’alcool potesse ripulirmi dentro, e spegnere
quel tormento che mi portavo appresso da ormai molto tempo. Avevo smesso di bere,
almeno in un certo modo, anche se l’alcool restava una tentazione molto
forte. Il motore adesso tirava che era una bellezza, scrollai il capo
e mi abbandonai alla musica. C’è un nugolo di ragazzi in fondo al viottolo. Sto lì, in mezzo alla stradina con il labbro gonfio e i pugni serrati. La lite è terminata ma è stata furibonda.
Qualcuno adesso piange, altri scappano. Continuo a stare fermo, e fisso
l’uomo di fronte a me. Lui prova a fare un passo in avanti, ma con un
gesto rapido mi chino e prendo da terra una grossa pietra appuntita. Si
ferma e intuisce che non ho paura. Il sole è alle mie spalle. Ha il viso tumefatto ed è una maschera di sangue per i colpi che ha preso.
Bestemmiando mi urla che, prima o poi, con me regolerà il conto… ma i
conti vanno regolati subito, se no stai bluffando. Per uscire dal
viottolo cammino all’indietro. Qualcuno mi dà una pacca sulle spalle,
sono stanco, esausto, scappo e vado a rifugiarmi sotto un albero di
limoni con cui disinfetto anche le ferite. Mi sdraio a faccia in giù sull’erba secca.
L’odore della terra è cosi forte che mi sconquassa le narici. Mi
addormento. Giravamo sempre in gruppo da ragazzi. Se qualcuno si
allontanava, aspettavamo che riapparisse nel tempo stabilito. Una volta
scaduto, si andava tutti insieme a cercarlo. La regola era che nessuno doveva rimanere indietro da solo. Quel pedofilo aveva afferrato dalle spalle Lillo
che, per il terrore, non riusciva neppure a gridare. E lo stava
trascinando dentro casa, che era proprio in fondo alla stradina.
Arrivammo appena in tempo per tirarlo via da li. La libertà è sempre stata nelle cose semplici. Come un viaggio in moto stile Dennis Hopper e Peter Fonda nel film “Easy Rider”. Nell’ascoltare un disco di musica rock, fumando un po’ d’erba. O nel vento che ti accarezza la pelle. La libertà si può trovare in mille cose.
Ma man mano che si va avanti quelle cose, come le persone, marciscono e
ci si ritrova da soli. C’era del buon senso in quei ragazzi. Lo stesso
buon senso che animò il gesto di Tommie Smith, un atleta di colore nato a Clarksville, Mississippi, la terra del blues. Tommie vinse la medaglia d’oro sui 200 m nella finale olimpica di Città del Messico con il tempo di 19”83… fu lui il primo uomo a scendere sotto la soglia dei 20”. Smith vinse quella medaglia anche per conquistare quell’America che lo bistrattava e che invece lui amava. Quell’America bigotta e razzista che lo applaudiva ipocritamente e che avrebbe preferito di gran lunga darlo in pasto al ku klux klan. Quell’America gli voltò le spalle nel momento esatto in cui scese i gradini del podio. Tommie Smith durante la premiazione, insieme al suo connazionale John Carlos, arrivato terzo, ascoltarono l’inno nazionale scalzi, chinando il capo e sollevando il pugno in aria avvolto in un guanto nero. Quell’azione cosi plateale fu a sostegno del movimento chiamato Olympic Project for Human Rights.
La federazione statunitense li sospese dalla squadra con effetto
immediato e furono espulsi dal villaggio olimpico. Una volta a casa
ricevettero anche minacce di morte e furono licenziati dal lavoro. L’America del non senso aveva vinto. C’è stato un tempo in cui sognavo. Quel tempo, però, non me lo ricordo più. L’ho fatto fuori in un baleno. Allora non mi veniva difficile innamorarmi…
il problema, semmai, era crescere, restare insieme, capirsi, ma anche
comprendere se stessi. Quello sì che era difficile. A me sgomentava il
dover sempre e comunque vestire gli stessi panni per tutta la vita. Perché mi sarebbe piaciuto una mattina alzarmi ed essere Keith Richard, in un’altra Robert Johnson,
e via di questo passo… e invece, sempre la stessa faccia sempre la
stessa esistenza, a volte grigia a volte piena. Un esistenza che se ne
andava per i fatti suoi, ciondolando attraverso uno scroscio di pioggia
furiosa. Quando i Ten Years After salirono sul palco di Woodstock, mandarono letteralmente in delirio il pubblico suonando una versione stratosferica del loro hit I’m goin’home. Uscii dalla tangenziale che pioveva a dirotto. Alex mi stava aspettando al riparo dentro l’androne del portone di casa.
Posteggiai l’auto di fronte all’ingresso e in un baleno saltò dentro
dandomi un lieve bacio sulla guancia. Stavamo riprovando a stare
insieme, cercando di raccogliere i cocci sparpagliati della nostra
esistenza e, per la prima volta, entrambi attraversavamo sentieri
sconosciuti. Da qualche parte bisognava pur ripartire. E
noi avevamo deciso di imboccare la strada più difficile. La strada del
dialogo e del dolore delle parole… ma cosa sarebbe la vita senza
passioni, mi chiesi mentre guidavo. Sono queste che in un modo o
nell’altro ci tengono in piedi anche quando tutto precipita. Cyril Davies era un armonicista innamorato profondamente della musica nera. Aveva cominciato dedicandosi alla musica Jazz suonando il banjo durante gli anni cinquanta, per poi passare ad una sorta di miscellanea musicale molto affine a quella delle jug band americane chiamata skiffle.
Non potendo mantenersi solo con la musica, lavora anche come
tappezziere. Ma il blues quando ti entra in circolo t’infetta fin dentro
l’anima ed è per questo che Cyril impara a suonare l’armonica blues ascoltando i dischi del suo eroe, Sonny Boy Williamson. Nel 1961 insieme ad Alexis Korner forma i Blues Incorporated, dove militeranno musicisti del calibro di Jeff Beck, Nicky Hopkins e il cantante Long John Baldry, tutti personaggi che avranno un ruolo primario nell’ambito del cosiddetto blues revival. Questo movimento si andò affermando nella metà degli anni sessanta e Cyril Davies
ne fu il precursore… ma proprio quando la scena musicale cominciò a
catturare l’attenzione del mondo, morì stroncato dalla leucemia. Un
rovescio di pioggia sul parabrezza mi riportò alla realtà. Alex guardava la strada avvolta in un cupo silenzio.
Le presi la mano gelida e la strinsi forte. Lei si girò mostrandomi un
sorriso smunto. Poi, con calma, molto lentamente, iniziò a parlare,
raccontandomi di quando bambina andava dai nonni al mare. Parlò per tutto il tragitto ed io l’ascoltai senza mai interrompere.
Quando finì misi un blues di quelli che mi hanno accompagnato
l’esistenza e le parlai di quel giorno nel viottolo e della mia paura.
Di quella fottuta paura che ancora adesso mi porto appresso… e per la
prima volta lo confidai. Se quell’uomo avesse fatto un altro passo in
avanti l’avrei ucciso.
Bartolo Federico