Ero lì che ascoltavo e intanto speravo, aspettavo, che so, un treno, un bacio, una cattiveria.
Attendevo che qualcuno mi venisse a prendere. Ma non accadeva mai
nulla. Era tutto grigio e monotono sopra la mia vita. Mi alzai dalla
poltroncina in similpelle marrone e chiusi la porta della stanza. Volevo stordirmi di parole e musica. Seduto sull’immaginaria riva di un fiume, osservavo quelle piccole onde che il vento formava sul pelo dell’acqua. Erano incessanti come le passioni. Il disco continuava a suonare e l’armonica di Racing in The Street lacerava le mie barriere. Allora non avevo fantasmi intorno a me. C’erano invece promesse, fiori colti in un giardinetto e ideali. Vero, avevano tutti l’aria un po’ triste, ma mi tenevano in piedi. “Oh Thunder road, Oh Thunder road…” Mia madre mi sta chiamando per la cena. Aspetto che il solo di chitarra finisca e apro la porta. Solo tre passi e sono in cucina, che è piccola, anzi piccolissima. C’è puzza di aglio soffritto. Ma ci sto bene li. Lei porta una vestaglietta blu smanicata a stampe di fiori provenzali. Sta ascoltando alla radio Barry White.
Mi guarda e mi sorride, con quell’istinto tutto femminile di
rincuorare. La persiana è aperta, il trambusto nel cortile è incessante.
Una sera, questa, di molto tempo fa. Il buio ha invaso tutto. Mi affaccio alla finestra. L’edera si è arrampicata sul colatoio ormai arrugginito. L’odore del gelsomino è inebriante. Un bambino piange. Qualcuno urla di salire. E’ il mio passato che smonta dai ricordi e se ne va via tutto solo. Il cortile adesso è vuoto… e anche la cuccia del cane. Ascolto, aspetto, spero… Gli uomini sono rientrati, le famiglie si sono rincollate. Mangiamo alla buona e parliamo di tutto. Non so perché, ma nel quartiere c’è aria di libertà.
“Sarò il tuo specchio rifletterò quello che sei nel caso non lo sapessi sarò il vento la pioggia e il tramonto la luce alla tua porta per mostrarti che sei a casa”. (I’ll be your mirror).
E’ meglio non farsi illusioni, ognuno di noi cerca di scaricare le proprie pene su gli altri. Quelle dei Velvet Underground mi arrivarono tramite un pacco postale speditomi dai magazzini Nannucci di Bologna. Era la prima volta che compravo un disco per corrispondenza. “The Velvet Underground & Nico”, si rivelò essere una raccolta dei loro primi fondamentali lavori. Nella mia stanzetta qualche volta faceva freddo e mi sentivo come un passeggero rinchiuso nella stiva di una nave. Ci passavo un sacco di tempo lì dentro, a fare progetti e ad ascoltare le cose che mi arrivavano dal mondo. Con le canzoni dei Velvet facevamo lo stesso viaggio. Le sentii entrare in quella camera come un frammento di luce.
“Be’, comincio a vedere la luce voglio dirvelo, oooh ora comincio a vedere la luce. Ecco una cosa più dolce ho usato le mie mani come denti per arruffare i capelli della notte be’, comincio a vedere la luce.”
(Beginning To See The Light).
Dalle mie parti, durante gli anni settanta, si stava rilassati. Le famiglie affacciate sui balconcini di casa bevevano birra senza schiuma, e a me mi pareva di essere dentro una grande festa. La gente si divertiva con poco. Bastavano, per dire, dei piccoli fuochi d’artificio o una battuta grassa, per generare buonumore… e c’era musica dappertutto. Le massaie cantavano mentre facevano le pulizie, gli operai dei cantieri edili, intenti a lavorare sui pontili, intonavano veri e propri concerti di musica popolare… e le radio stavano sempre accese a sputare canzoni. Gli adulti, a quel tempo, ti istruivano a resistere ai desideri, ai piaceri della vita. Soprattutto a quelli lussuriosi. Ti impartivano le regole, dicendoti che era per forgiarti il carattere. “Perché tutto si paga, prima o poi” dicevano. Ma mia madre non fece mai quel giochino con me. Mi lasciò libero di fare a modo mio… e il sesso, a differenza di molti del quartiere, non mi sembrò mai una cosa sporca. Nella mia stanza seguitavo a ballare nella semioscurità, imparando anche a camminare, intanto che il velluto sotterraneo cantava lo sfacelo d’esistere e vivere. Argo, il mio trovatello, ha schizzato un po’ d’urina sul muro. I miei sogni si stanno sparpagliando nel cielo a conversare con le stelle. Tanto per non sbagliare, i critici baciapile etichettarono i Velvet Underground come semplice spazzatura. Succede sempre di scagliarsi con cattiveria contro chi destabilizza le nostre presunte certezze. Avvenne anche con il punk. Quei loschi figuri avevano risvegliato come un vento cattivo gli spettri della violenza, dell’eroina e della morte. La loro musica era la conseguenza di quell’orrore a non finire e delle menzogne gelide. Seducenti, nevrastenici, sobillatori, a tratti spigolosissimi, cantavano di fantasmi stralunati, che scivolavano nell’ignoto del mondo, deambulando in situazioni malsane e depravate. Un’umanità senza colore, perdutamente persa nel buio. Canzoni alle volte così pruriginose da sembrare un sex shop ambulante. D’altronde, il loro nome fu preso pari pari da una novella pornografica. Con loro, accadde anche che uno strumento prettamente classico come l’arpa elettrica divenne il marchio di fabbrica di una band di rock’n’roll. Si sentivano a loro agio vestiti di cuoio nero con stivaletto e tacco a spillo.
“Candy è arrivata dall’isola nella stanza sul retro era carina con tutti Ma non ha mai perso la testa neanche quando faceva pompini e ha detto, hey tesoro fatti un giro sul lato selvaggio ha detto, hey tesoro fatti un giro sul lato selvaggio e le ragazze di colore fanno Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doodoo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo”. (Walk On The Wild Side – Lou Reed)
Il loro primo album, “The Velvet Underground & Nico”, è un disco epocale che possiede un alchimia sonora unica e mai eguagliata. In queste canzoni non c’è posto per il sole, ma solo per la notte delle strade di New York. Luoghi dove si consumano storie di alienazione e solitudine, di assassini e prostitute. Di gente senza fortuna che non ha nulla a cui aggrapparsi se non la propria disperazione.
“Severin, Severin, parla sottovoce Severin, inginocchiati, assaggia la frusta, in amore non si risparmia, assaggia la frusta, ora sanguina per me”. (Venus in Furs).
Lou Reed e soci si fanno emissari di chi vive con l’inferno sotto le maniche della camicia. Spiriti lividi con ventisei dollari in mano, che aspettano il loro uomo all’altezza di Lexington. Che corrono, corrono, corrono, sul bordo del mondo anche se di fiato non ne hanno più e, su quei viali intossicati, estirpate dalle loro tombe s’incrociano anche femmine fatali e Veneri in pelliccia, adornate con coroncine di perle a buon mercato e stivaletti coi bottoni. Sunday Morning apre il disco ed è una ballata dolce e malinconica. Da struggimento totale. “Lost Generation”, l’album di Elliott Murphy che uscì nel 1975, doveva essere prodotto da Lou Reed che lo aveva segnalato alla RCA, dopo che Elliott aveva scritto le note di copertina del disco “1969: Velvet Underground Live with Lou Reed”… ma in quei giorni Lou Reed era impegnato in tour in Canada, per cui la casa discografica lo mandò a Los Angeles a lavorare con Paul Rostchild, il produttore dei Doors. Per un ragazzo come Elliott che voleva diventare una rock’n’roll star e che era stato additato come il nuovo Dylan, dopo il folgorante e applaudito debutto dell’album “Aquashow” (1973), c’era di che sperare. In quelle registrazioni era presente come session man anche Jim Gordon, batterista di Derek And The Dominos, coautore di Layla. “Lost Generation” del 1975, pur essendo un buon disco di rock’n’roll con episodi di rilievo come Hollywood, Manhattan Rock e la stesa title track, non riscuote lo sperato successo. Senza pensarci troppo la casa discografica mette Elliot alla porta. Una cosa che gli accadrà spesso nella sua lunga carriera. Però, e questo rimane un dato di fatto, farsi notare discograficamente nel 1975 non era una cosa semplice. In quell’anno di grazia furono pubblicati con copertina di cartone rigido e vinile rigorosamente nero: “Born To Run” di Bruce Springsteen, “Horses” di Patti Smith, “Zuma” e “Tonight’s The Night” di Neil Young, “Fandango” degli ZZ Top, “Blood On The Tracks” di Bob Dylan, “Bob Marley & the Wailers Live”, Who, “The Who By Numbers”, Allman Brothers Band, “Win, Lose Or Draw”, Aerosmith, “Toys In The Attic”, i Blue Oyster Cult del magnifico “On Your Feet Or On Your Knees”, “Leonard Cohen Greatest Hits”, i Rush di “Fly By Night” e “Caress Of Steel”. Il buon Elliott Murphy, che è un vero stacanovista del rock, viene ingaggiato dalla Columbia, la stessa casa discografica di Bob Dylan e, nel 1976, pubblica “NightLights”. Un disco notturno, romantico e scintillante di rock’n’roll da bassifondi. Ci suonano eccellenti musicisti come Billy Joel, Jerry Harrison, Ernie Brooks e anche un ex Velvet Underground, peraltro ottimo chitarrista, quel Doug Yule di “Loaded” 1970. E contiene due o tre canzoni che sono ancora oggi l’ossatura del suo vastissimo repertorio.
“Nella mente ha proprio il tocco di Bonaparte. E’ dello stessa razza di Jack lo Squartatore. Vive ai margini. Mi piace vedere quel tipo di energia. Cominciamo a sentirci soli su questo scoglio”.
(Lady Stiletto – Elliott Murphy).
Ma per diventare una star del rock occorre anche un pizzico di fortuna, cosa che non sembra essere una prerogativa di Elliott Murphy. Nonostante tutto ha continuato a darsi un gran daffare inseguendo i suoi sogni, sfornando ancora altri dischi tra cui “Murph the Surf” del 1982, il suo capolavoro. Non si è mai arreso di fronte ai suoi fallimenti, è andato fino in fondo alle cose, senza alcuna paura. Se volete lo potete incontrare ancora oggi da qualche parte in giro a suonare il suo personale “Never Ending Tour”. Certo, il suo rock vive sui palchi scomodi e logori di provincia, nei pub o in piccoli club…ma quello che importa è ascoltare le sue ballate polverose, che hanno una dignità e un amore per la musica che è lezione per molti spocchiosi musicisti di adesso. Questo suo senso di profonda dignità nel cercare sempre nuove avventure lo rende ai miei occhi senz’altro speciale. Come fosse davvero lui l’ultima delle rock’n’roll stars. Ci sono posti dove è facile farsi del male ma d’altra parte non sarebbe né meglio né peggio rimuoverli dai ricordi. La villetta del quartiere sta sempre lì, e anche quella panchina, che è sempre vuota come lo era allora. Mi ci sedevo quando sentivo di aver perso il controllo di me stesso e i miei punti deboli si erano ingigantiti e diffidavo di tutto. Allora restavo seduto senza far nulla, solo a guardarmi intorno. L’altro ieri ci sono ritornato e mi sono nuovamente accomodato. Dopo un po’ ho alzato gli occhi verso la finestra da dove si affacciava mia madre per chiamarmi, mi è sembrato di scorgerla ma è stato solo per un attimo. Mi sono ricomposto non volevo farmi vedere triste e malandato. Le ho fatto un bel sorriso ma so che non mi avrà creduto. Ho girato gli occhi ancora più in alto ed ho visto il balconcino di Pasqualino. Era l’unico che si sedeva accanto a me in quei momenti ed io ero anche l’unico con cui tentava di parlare dei fantasmi che lo perseguitavano. C’era nato con la testa piena di spettri. Se ne stava sempre rinchiuso in casa ma, quando mi scorgeva dal quel balconcino, scendeva di corsa le scale e si metteva seduto in silenzio ad attorcigliarsi le dita e a fumare. Sembrava che mi aspettasse. Alle volte, quando le sue visioni erano felici, mi sorrideva come solo i pazzi ti sanno ridere e mi toccava il viso e mi abbracciava forte, fortissimamente a se che quasi mi soffocava. C’era ancora lui l’altro giorno, l’ho sentito a lato e ho pensato che non sono mai riuscito a fargli sputare fuori quell’orrore che aveva dentro, che lo divorava. La sua presenza mi calmava, forse lui sapeva, sentiva che c’era qualcosa in me che non andava… e allora credo che alla fine sia stato lui a farmi sputare via il veleno, prima che fosse troppo tardi. Adesso sarà un angelo, Pasqualino, magari bizzarro, che su qualche nuvola bianca attraversa il cielo. Ma quanto mi manca la sua risata e quell’abbraccio, nessuno lo può immaginare. Accidenti a me. Odio i ricordi.
“O non lasciare che lo spirito muoia, O no lo spirito non muore mai, non muore mai e continua a camminare, e continua a camminare lo spirito nella tua anima. Tu continua a camminare e guardati intorno, e guardati intorno. O no, lo spirito non muore mai.“ (Spirit – Van Morrison).
“Sarò il tuo specchio rifletterò quello che sei nel caso non lo sapessi sarò il vento la pioggia e il tramonto la luce alla tua porta per mostrarti che sei a casa”. (I’ll be your mirror).
E’ meglio non farsi illusioni, ognuno di noi cerca di scaricare le proprie pene su gli altri. Quelle dei Velvet Underground mi arrivarono tramite un pacco postale speditomi dai magazzini Nannucci di Bologna. Era la prima volta che compravo un disco per corrispondenza. “The Velvet Underground & Nico”, si rivelò essere una raccolta dei loro primi fondamentali lavori. Nella mia stanzetta qualche volta faceva freddo e mi sentivo come un passeggero rinchiuso nella stiva di una nave. Ci passavo un sacco di tempo lì dentro, a fare progetti e ad ascoltare le cose che mi arrivavano dal mondo. Con le canzoni dei Velvet facevamo lo stesso viaggio. Le sentii entrare in quella camera come un frammento di luce.
“Be’, comincio a vedere la luce voglio dirvelo, oooh ora comincio a vedere la luce. Ecco una cosa più dolce ho usato le mie mani come denti per arruffare i capelli della notte be’, comincio a vedere la luce.”
(Beginning To See The Light).
Dalle mie parti, durante gli anni settanta, si stava rilassati. Le famiglie affacciate sui balconcini di casa bevevano birra senza schiuma, e a me mi pareva di essere dentro una grande festa. La gente si divertiva con poco. Bastavano, per dire, dei piccoli fuochi d’artificio o una battuta grassa, per generare buonumore… e c’era musica dappertutto. Le massaie cantavano mentre facevano le pulizie, gli operai dei cantieri edili, intenti a lavorare sui pontili, intonavano veri e propri concerti di musica popolare… e le radio stavano sempre accese a sputare canzoni. Gli adulti, a quel tempo, ti istruivano a resistere ai desideri, ai piaceri della vita. Soprattutto a quelli lussuriosi. Ti impartivano le regole, dicendoti che era per forgiarti il carattere. “Perché tutto si paga, prima o poi” dicevano. Ma mia madre non fece mai quel giochino con me. Mi lasciò libero di fare a modo mio… e il sesso, a differenza di molti del quartiere, non mi sembrò mai una cosa sporca. Nella mia stanza seguitavo a ballare nella semioscurità, imparando anche a camminare, intanto che il velluto sotterraneo cantava lo sfacelo d’esistere e vivere. Argo, il mio trovatello, ha schizzato un po’ d’urina sul muro. I miei sogni si stanno sparpagliando nel cielo a conversare con le stelle. Tanto per non sbagliare, i critici baciapile etichettarono i Velvet Underground come semplice spazzatura. Succede sempre di scagliarsi con cattiveria contro chi destabilizza le nostre presunte certezze. Avvenne anche con il punk. Quei loschi figuri avevano risvegliato come un vento cattivo gli spettri della violenza, dell’eroina e della morte. La loro musica era la conseguenza di quell’orrore a non finire e delle menzogne gelide. Seducenti, nevrastenici, sobillatori, a tratti spigolosissimi, cantavano di fantasmi stralunati, che scivolavano nell’ignoto del mondo, deambulando in situazioni malsane e depravate. Un’umanità senza colore, perdutamente persa nel buio. Canzoni alle volte così pruriginose da sembrare un sex shop ambulante. D’altronde, il loro nome fu preso pari pari da una novella pornografica. Con loro, accadde anche che uno strumento prettamente classico come l’arpa elettrica divenne il marchio di fabbrica di una band di rock’n’roll. Si sentivano a loro agio vestiti di cuoio nero con stivaletto e tacco a spillo.
“Candy è arrivata dall’isola nella stanza sul retro era carina con tutti Ma non ha mai perso la testa neanche quando faceva pompini e ha detto, hey tesoro fatti un giro sul lato selvaggio ha detto, hey tesoro fatti un giro sul lato selvaggio e le ragazze di colore fanno Doo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doodoo, doo-doo, doo-doo, doo-doo-doo”. (Walk On The Wild Side – Lou Reed)
Il loro primo album, “The Velvet Underground & Nico”, è un disco epocale che possiede un alchimia sonora unica e mai eguagliata. In queste canzoni non c’è posto per il sole, ma solo per la notte delle strade di New York. Luoghi dove si consumano storie di alienazione e solitudine, di assassini e prostitute. Di gente senza fortuna che non ha nulla a cui aggrapparsi se non la propria disperazione.
“Severin, Severin, parla sottovoce Severin, inginocchiati, assaggia la frusta, in amore non si risparmia, assaggia la frusta, ora sanguina per me”. (Venus in Furs).
Lou Reed e soci si fanno emissari di chi vive con l’inferno sotto le maniche della camicia. Spiriti lividi con ventisei dollari in mano, che aspettano il loro uomo all’altezza di Lexington. Che corrono, corrono, corrono, sul bordo del mondo anche se di fiato non ne hanno più e, su quei viali intossicati, estirpate dalle loro tombe s’incrociano anche femmine fatali e Veneri in pelliccia, adornate con coroncine di perle a buon mercato e stivaletti coi bottoni. Sunday Morning apre il disco ed è una ballata dolce e malinconica. Da struggimento totale. “Lost Generation”, l’album di Elliott Murphy che uscì nel 1975, doveva essere prodotto da Lou Reed che lo aveva segnalato alla RCA, dopo che Elliott aveva scritto le note di copertina del disco “1969: Velvet Underground Live with Lou Reed”… ma in quei giorni Lou Reed era impegnato in tour in Canada, per cui la casa discografica lo mandò a Los Angeles a lavorare con Paul Rostchild, il produttore dei Doors. Per un ragazzo come Elliott che voleva diventare una rock’n’roll star e che era stato additato come il nuovo Dylan, dopo il folgorante e applaudito debutto dell’album “Aquashow” (1973), c’era di che sperare. In quelle registrazioni era presente come session man anche Jim Gordon, batterista di Derek And The Dominos, coautore di Layla. “Lost Generation” del 1975, pur essendo un buon disco di rock’n’roll con episodi di rilievo come Hollywood, Manhattan Rock e la stesa title track, non riscuote lo sperato successo. Senza pensarci troppo la casa discografica mette Elliot alla porta. Una cosa che gli accadrà spesso nella sua lunga carriera. Però, e questo rimane un dato di fatto, farsi notare discograficamente nel 1975 non era una cosa semplice. In quell’anno di grazia furono pubblicati con copertina di cartone rigido e vinile rigorosamente nero: “Born To Run” di Bruce Springsteen, “Horses” di Patti Smith, “Zuma” e “Tonight’s The Night” di Neil Young, “Fandango” degli ZZ Top, “Blood On The Tracks” di Bob Dylan, “Bob Marley & the Wailers Live”, Who, “The Who By Numbers”, Allman Brothers Band, “Win, Lose Or Draw”, Aerosmith, “Toys In The Attic”, i Blue Oyster Cult del magnifico “On Your Feet Or On Your Knees”, “Leonard Cohen Greatest Hits”, i Rush di “Fly By Night” e “Caress Of Steel”. Il buon Elliott Murphy, che è un vero stacanovista del rock, viene ingaggiato dalla Columbia, la stessa casa discografica di Bob Dylan e, nel 1976, pubblica “NightLights”. Un disco notturno, romantico e scintillante di rock’n’roll da bassifondi. Ci suonano eccellenti musicisti come Billy Joel, Jerry Harrison, Ernie Brooks e anche un ex Velvet Underground, peraltro ottimo chitarrista, quel Doug Yule di “Loaded” 1970. E contiene due o tre canzoni che sono ancora oggi l’ossatura del suo vastissimo repertorio.
“Nella mente ha proprio il tocco di Bonaparte. E’ dello stessa razza di Jack lo Squartatore. Vive ai margini. Mi piace vedere quel tipo di energia. Cominciamo a sentirci soli su questo scoglio”.
(Lady Stiletto – Elliott Murphy).
Ma per diventare una star del rock occorre anche un pizzico di fortuna, cosa che non sembra essere una prerogativa di Elliott Murphy. Nonostante tutto ha continuato a darsi un gran daffare inseguendo i suoi sogni, sfornando ancora altri dischi tra cui “Murph the Surf” del 1982, il suo capolavoro. Non si è mai arreso di fronte ai suoi fallimenti, è andato fino in fondo alle cose, senza alcuna paura. Se volete lo potete incontrare ancora oggi da qualche parte in giro a suonare il suo personale “Never Ending Tour”. Certo, il suo rock vive sui palchi scomodi e logori di provincia, nei pub o in piccoli club…ma quello che importa è ascoltare le sue ballate polverose, che hanno una dignità e un amore per la musica che è lezione per molti spocchiosi musicisti di adesso. Questo suo senso di profonda dignità nel cercare sempre nuove avventure lo rende ai miei occhi senz’altro speciale. Come fosse davvero lui l’ultima delle rock’n’roll stars. Ci sono posti dove è facile farsi del male ma d’altra parte non sarebbe né meglio né peggio rimuoverli dai ricordi. La villetta del quartiere sta sempre lì, e anche quella panchina, che è sempre vuota come lo era allora. Mi ci sedevo quando sentivo di aver perso il controllo di me stesso e i miei punti deboli si erano ingigantiti e diffidavo di tutto. Allora restavo seduto senza far nulla, solo a guardarmi intorno. L’altro ieri ci sono ritornato e mi sono nuovamente accomodato. Dopo un po’ ho alzato gli occhi verso la finestra da dove si affacciava mia madre per chiamarmi, mi è sembrato di scorgerla ma è stato solo per un attimo. Mi sono ricomposto non volevo farmi vedere triste e malandato. Le ho fatto un bel sorriso ma so che non mi avrà creduto. Ho girato gli occhi ancora più in alto ed ho visto il balconcino di Pasqualino. Era l’unico che si sedeva accanto a me in quei momenti ed io ero anche l’unico con cui tentava di parlare dei fantasmi che lo perseguitavano. C’era nato con la testa piena di spettri. Se ne stava sempre rinchiuso in casa ma, quando mi scorgeva dal quel balconcino, scendeva di corsa le scale e si metteva seduto in silenzio ad attorcigliarsi le dita e a fumare. Sembrava che mi aspettasse. Alle volte, quando le sue visioni erano felici, mi sorrideva come solo i pazzi ti sanno ridere e mi toccava il viso e mi abbracciava forte, fortissimamente a se che quasi mi soffocava. C’era ancora lui l’altro giorno, l’ho sentito a lato e ho pensato che non sono mai riuscito a fargli sputare fuori quell’orrore che aveva dentro, che lo divorava. La sua presenza mi calmava, forse lui sapeva, sentiva che c’era qualcosa in me che non andava… e allora credo che alla fine sia stato lui a farmi sputare via il veleno, prima che fosse troppo tardi. Adesso sarà un angelo, Pasqualino, magari bizzarro, che su qualche nuvola bianca attraversa il cielo. Ma quanto mi manca la sua risata e quell’abbraccio, nessuno lo può immaginare. Accidenti a me. Odio i ricordi.
“O non lasciare che lo spirito muoia, O no lo spirito non muore mai, non muore mai e continua a camminare, e continua a camminare lo spirito nella tua anima. Tu continua a camminare e guardati intorno, e guardati intorno. O no, lo spirito non muore mai.“ (Spirit – Van Morrison).