Guidavo
sulla tangenziale deserta osservando gli edifici grigi e le strade vuote. Quel
paesaggio, se da un lato alimentava una sensazione d’intensa
malinconia, dal’altro riusciva a rilassarmi. Con il piede sinistro appoggiato
sul cruscotto ed una mano sul volante, procedevo fumacchiando una Camel. Accesi
la radio e inserii Undead, anno 1968, un set dal vivo dei Ten
Years After, granitico gruppo inglese di hard- blues, in auge dalla metà degli
anni sessanta. Alvin Lee, chitarrista e anche leader della band, per tecnica,
velocità e bravura se la sarebbe potuta giocare tranquillamente anche con il re
della sei corde Jim Hendrix. Ma la storia del rock è ingrata e, come spesso
accade, i Ten Years After sono stati dimenticati in fretta quasi da tutti. La
musica riempì l’abitacolo, regolai il volume, abbassai il finestrino per tirare
via la cicca e sentii l’aria fredda e pungente dell’inverno mordermi la mano.
Spinsi il piede sull’acceleratore quel tanto che bastava per far fischiare le gomme
sull’asfalto bagnato. Afferrai la fiaschetta di scotch che tenevo nel cruscotto
e bevvi un piccolo sorso. Avevo sempre avuto l’impressione che l’alcool potesse
ripulirmi dentro e, nello stesso tempo, spegnere quel tormento che mi portavo
appresso da ormai molto tempo. Avevo smesso di bere, almeno in un certo modo,
anche se l’alcool restava una tentazione molto forte. Il motore adesso tirava
che era una bellezza, scrollai il capo e mi abbandonai alla musica.
La libertà è
sempre stata nelle cose semplici. Come un viaggio in moto stile Dennis Hopper e
Peter Fonda nel film Easy Rider. Nell’ascoltare un disco di musica rock,
fumando un po’ d’erba. O nel vento che ti accarezza la pelle. La libertà si può
trovare in mille cose. Ma man mano che si va avanti quelle cose, come le
persone, marciscono e ci si ritrova da soli. C’era del buon senso in quei
ragazzi.
C’è stato un tempo
in cui sognavo. Quel tempo, però, non me lo ricordo più. L’ho fatto fuori in un
baleno. Allora non mi veniva difficile innamorarmi, il problema, semmai, era
crescere, restare insieme, capirsi, ma anche comprendere se stessi. Quello sì
che era difficile. A me sgomentava il dover sempre e comunque vestire gli
stessi panni per tutta la vita.Perché mi sarebbe piaciuto una mattina
alzarmi ed essere Keith Richard, in un'altra Robert Johnson, e via di questo
passo. E invece, sempre la stessa faccia sempre la stessa esistenza, a volte
grigia a volte piena. Un esistenza che se ne andava per i fatti suoi,
ciondolando attraverso uno scroscio di pioggia furiosa.
Uscii dalla tangenziale che pioveva a dirotto. Alex mi stava aspettando
al riparo dentro l’androne del portone di casa. Posteggiai l’auto di fronte
all’ingresso e in un baleno saltò dentro dandomi un lieve bacio sulla guancia.
Stavamo riprovando a stare insieme, cercando di raccogliere i cocci
sparpagliati della nostra esistenza e, per la prima volta, entrambi
attraversavamo sentieri sconosciuti. Da qualche parte bisognava pur ripartire.
E noi avevamo deciso di imboccare la strada più difficile. La strada del
dialogo e del dolore delle parole.
Seduto nella vecchia cucina economica
che ormai cadeva a pezzi, bevve un sorso di whisky. Quella casa pareva
abbandonata per com’era ridotta. Le finestre con le sue tende scure erano
arrugginite e le porte stridevano sui perni. Sul tetto le tegole rotte facevano
penetrare l’acqua piovana ed era tutto eroso e consumato dal tempo che passa,
come la sua anima, pensò alzandosi dalla sedia. Non aveva più voglia di
sorridere, ma aveva anche il terrore di smettere per sempre di farlo. Era pallido
e si sentiva piuttosto stanco. Per un attimo strinse gli occhi per vedere
meglio nell’oscurità. Non si sentiva alcun rumore in quella casa ed era già
come darsi una risposta.
Negli ultimi tempi lo aveva anche
sfiorato il pensiero di farla finita magari buttandosi giù da un viadotto o
tagliandosi le vene. Ma per chi era stato un guerriero nella vita, l’unica via
per realizzare quel gesto inconsulto, era che qualcuno gli sparasse un colpo
secco al cuore. Continuò a camminare verso nord, poi verso sud, poi di nuovo
verso nord, senza che riuscisse a trovare un varco, una via d’uscita. Il suo
cervello montava tutto, pezzo per pezzo, punto per punto, poi tornava a
smantellare ogni cosa come se non accettasse nessuna spiegazione che si dava e
girava, girava incredulo e smarrito, intorno alle cose. Aveva sempre fatto
tutto con parsimonia ed aveva sempre avuto paura nella vita. Una paura
collegata a qualcosa come al rischio di non potere pagare la casa o le bollette
e si rendeva conto che era stato un infelice. Ma adesso doveva dare alle sue paure
un valido motivo, trovando ad ogni costo una buona ragione per andare
avanti.
Non vedo niente, qui intorno. Tu mi afferri quando cado, mi afferri
quando cado. Mi afferrerai? Perché sto cadendo qui intorno. Sono sotto il tiro
della pistola, qui intorno. Sono innocente, sono sotto il tiro della pistola, qui
intorno. Non vedo niente,niente, qui intorno (Round Here - Counting Crows).
Da quando aveva perso il lavoro, Maria non faceva altro che lamentarsi di
tutto, di quella casa, della sua vita, di come non poteva più comprarsi un paio
di scarpe e del suo immobilismo. “Voglio lavorare!”, gli gridava come se fosse
lui ad impedirglielo. “Voglio lavorare!”, urlava, e velenosamente gli ripeteva:
“visto che tu non porti più i soldi necessari”. Si sentiva sempre nel giusto,
lei, anche con l’unico figlio che avevano avuto, si era presa la briga di decidere
da sola qualunque cosa lo riguardasse. Tanto fu predominante nelle sue scelte,
da escluderlo e, alla fine, anche come padre era stato un vero fallimento. Lui l’aveva
lasciata fare per non ferirla, per non toccare i suoi sentimenti di madre
protettiva. Ma adesso si rendeva conto che aveva sbagliato tutto. Adesso che
era troppo tardi capiva che in tutti quegli anni i loro mondi forse non si
erano mai incontrati davvero ed erano rimasti distanti mille miglia l’uno
dall’altro.
Volevo così tanto qualcun’altro
oltre me che mi fissasse ma tu eri andata, andata, andata. io volevo vederti
camminare a ritroso ed avere la sensazione che tornassi a casa. e volevo
vederti andare via da me senza la sensazione che mi stessi lasciando solo (Time
And Time Again - Counting Crows).
Si svegliò l’indomani nel tardo
pomeriggio. Nella notte i suoi fantasmi erano andati a trovarlo con passi da
lupo. Quando i ricordi ti inseguono ed hanno più gambe e fiato di te, è questo
il prezzo da pagare per tutto il dolore che raccogliamo e ci portiamo dentro. Così,
il resto della nostra vita diventa solo un incubo. Adesso però, che non c’era
più nessuno, non aveva alcuna fretta. Ma poi a che serve avere fretta? Forse
quando si è giovani, è spiegata con quella voglia di andare avanti. Quella voglia
di arrivare al traguardo a tutti i costi, anche a testa bassa, spingendo,
urlando, bestemmiando. Ma ora che le
cose sono diventate vuote e non ricordi quasi neppure il tuo nome, ora che devi
fare l’acrobata sul trapezio e che cerchi l’ispirazione per vivere, per quale
ragione devi accelerare?(Qui Intorno Non Mi Voglio Spegnere tratto da: Viaggiatori Nelle Notte)
Ehi grandissima testa di minchia, lo vuoi alzare quel
cazzo di volume, di quella fottuta radio. Non lo senti che il Re del
rock’n’roll sta cantando.
”Spider Murphy suonava il sassofono tenore, Little
Joe soffiava nel trombone. Il batterista dell’Illinois faceva crash, boom,
bang, l’intera sezione ritmica era “The Purple Gang”.Forza! Balliamo il
rock, tutti insieme, balliamo il rock. L’intera prigione stava ballando il
Jailhouse rock.”
Quando ero ragazzino mio nonno mi faceva tirare di box
perché aveva paura che potessi diventare ricchione. Mi faceva schiattare di
fatica in quella palestra. Io però glielo dicevo: “nonno a me le femmine mi
piaccionooo!” Ma lui niente, non mi ascoltava, dovevo stare li a tirare
cazzotti in quel cazzo di sacco duro come una pietra. Alla fine le nocche delle
mani mi facevano talmente male che non potevo neanche tenere le posate per
mangiare. Poi però arrivò il giorno in cui lo ringraziai per tutto quel
sudore che mi aveva fatto gettare.
Elvis aveva assorbito troppi generi musicali e non si
riusciva a trovare una direzione precisa. Modulava il canto ogni giorno in
maniera diversa. Alle volte cantava come fosse un bluesman di strada, altre
come un cantante country, altre ancora come un crooner. L’idea di base era
quella di fondere tutti quegli stili che Elvis aveva incamerato e farli
maturare in qualcosa di nuovo. Ma con tutto l’impegno profuso non si riusciva a
cavare nulla di buono. Alla fine Sam decise di gettare la spugna. Fu in quel
preciso momento che il destino bussò alla porta. Elvis lo convinse a
provare un pezzo che gli piaceva particolarmente, un brano che il bluesman
Arthur Big Boy Cudrup aveva inciso dieci anni prima. La canzone si chiamava
That’s All Right Mama.”Beh, mamma me l’aveva detto, E me l’aveva detto anche
papà,“Figliolo, quella ragazza con cui te la stai spassando Non va bene per
te.”
La pioggia sferzante
mi colpi in pieno. Mi infilai sull’auto e scivolai lungo la strada deserta. Mi
sentivo ostile con il mondo ed ero arrabbiato con me stesso per non aver visto
le cose come andavano per non essermi fermato prima a ragionare. Prima che
restassi solo come un cane bastardo. I miei figli con ragione non ne volevano
sapere più di me e non li potevo biasimare, avrei fatto lo stesso anch’io se
mio padre si fosse comportato come avevo fatto io con loro. Ma ero anche troppo
orgoglioso per chiedere scusa. Avevo lasciato molto tempo fa la mia casa, ed
abitavo in un vecchio motel. Non m’importava più di niente, neanche di morire.
Ma a Maria avevo scritto un sacco di lettere d’amore che non gli avevo mai
spedito. Erano tutte raccolte dentro un piccolo bauletto di legno che era
appartenuto a mia madre. Chissà forse un giorno le leggerà pensai
Perché non si può vivere come la si pensa,
ma bisogna fare esattamente il contrario?Perché non si può vivere tutti
insieme ed essere ciascuno quel che è? Guardai fuori dalla finestra senza
vedere niente, restando in piedi fino al mattino. Tutto era andato in malora.
Ma quando c’era Maria… non c’era niente di più bello. Bevvi una lunga sorsata
di whisky. Tirai la tenda della finestra e mi sedetti sulla poltrona ad
aspettare che finalmente mi venisse a prendere.
Le ultime esibizioni di Elvis furono una serie di
concerti tenutesi a Las Vegas nel giugno del 1977. Esiste un
filmato in cui il Re canta seduto al pianoforte Unchained Melody, è sudato, stanco ma sorride alla vita,
sorride a chiunque lo tocchi, come solo lui sapeva fare. Canta con passione
anche se il suo fisico è tormentato dai farmaci, ma il suo grande e generoso
cuore dà tutto quello che ha per rendere felice il suo pubblico, anche
quando intona per l’ultima volta Are you
lonesome tognight. ( Uomini In Bilico tratto da Viaggiatori Nella Notte)
Guardai la mia faccia livida riflettersi
nello specchio del bar. Consumai velocemente un caffè ristretto e stranamente
senza zucchero. Scambiai due chiacchiere svogliate con il barista, pagai il
conto ed uscii. Don Peppino, un vecchio maestro di pianoforte, lo diceva sempre
che noi uomini siamo strani. Ci teniamo stretti le nostre disgrazie, ci
occupiamo di loro. Le culliamo, come fossero bambini in fasce e non le
schiodiamo più da lì, neanche a cannonate.
Quando nasci senza nulla, nella piena indigenza, volente o nolente
l’ingegno si aguzza. Elmor James iniziò a suonare su uno strumento che si era
costruito da solo. Aveva aggiunto
quattro corde a una scatola di latta. In quella maniera cercava di far uscire
la melodia che c’era in lui. Elmor regalò il cuore alla musica. Perché fin che
la vita suona, tutto ha un senso, puoi sperare di superare le pene devastanti
che un esistenza fatta di privazioni e povertà ti negano. Senza, ci sarebbe
solo il vuoto e il silenzio più assoluto. Siamo alla fine degli anni venti.
Elmor James, che era venuto su in
fretta, non immaginava minimamente che un giorno i libri del blues lo avrebbero
indicato come uno dei rinnovatori più significativi e autentici della musica
del diavolo.
Alle due di notte dormivo tranquillo quando il
citofono di casa suonò. Prima che mio padre si decidesse ad alzarsi dal letto e
rispondere, suonò una seconda volta, e poi una terza. Solo allora, incazzato
come una iena, andò a rispondere. Di certo un altra rogna quella notte lo
attendeva. Come accadeva ormai spesso, una volante della polizia era venuta a
prelevarlo. Poche ore prima, ma questo lo raccontò in famiglia la sera del giorno
dopo, quando finalmente fece rientro a casa, era avvenuta una carneficina. Un
uomo, in preda ad un raptus di gelosia, aveva ucciso l’amante della moglie, la
moglie e si era suicidato. Al citofono parlottò nervosamente con l’agente. Poi
si vestì in fretta. Prese la sua valigia di pelle bordò e la Rolleiflex, già pronta allo scatto. Macchina che usava per
fotografare i cadaveri senza l’uso del treppiedi. Prima di uscire venne a
salutarmi. Per la prima volta notai che aveva un’aria stanca e disillusa. Le
sue notti erano state come una danza lenta e inquieta. C’era stato solo spazio per
quell’umanità, che in un modo o nell’altro, perdeva l'equilibrio e impazziva.
Lui, allora, si sentiva come una preda ferita, che sbatteva le ali e non
riusciva a fuggire da tutto quell’orrore. Me lo confidò lui stesso mentre
viaggiavamo col mio furgone anni più tardi, una volta che venne a farmi compagnia in una giornata
di lavoro. Era estate ed un sole alto illuminava il mondo. Un blues elettrico,
lento e penetrante, fuoriusciva dall’autoradio e ci accompagnava nel viaggio. Magicamente,
si era rilassato guardando il mare che costeggiavamo e mi raccontò tante cose
di lui. Fu uno di quei rari momenti che ho visto mio padre girarsi verso di me e
sorridere alla vita. Nessuno in
fondo resiste alla musica.
Elmor James se ne stava
rannicchiato in un angolo, abbracciato alla sua chitarra, sotto la pioggia
battente. Ad un tratto, un uomo dal viso buono, anch’egli completamente
inzuppato di pioggia, lo invitò ad entrare in quel juke joint che stava
dal’altro lato della strada. Lo sconosciuto era anch’egli un musicista, un
suonatore d’armonica. Sonny Boy Williamson era il suo nome.
Un po’ di tempo fa, mio padre mi disse:
non si foraggia mai nessuno con una mano, per poi eliminarlo con l’altra. Questo
è quel che hanno sempre fatto i nostri politici. Gente cattiva che si organizza
e poi ci da dentro. Come in guerra, qui non viene mai nessuno ad aiutarci. Io e
mio padre eravamo amici. Lui si fidava di me, ed io di lui. Adesso lui è morto.
Ed io, io suono il blues della rassegnazione. Il blues della rassegnazione.(L’odore della paura (il blues della rassegnazione) tratto da Viaggiatori Nella Notte)
Attraversai
la città a piedi con le palpebre strette e considerai che non si ha mai
ragione da soli. Il vento era calato e una pioggerella, sorda e triste
come un dolore, mi sorprese. Mi alzai il bavero del sgualcito soprabito,
come per difendermi. Maddalena aveva portato scompiglio nella mia
esistenza. Una vita senza infamia e senza lode, la mia, ma non mi andava
di farmene una colpa. Camminavo sotto la pioggia e, rimasticando
pensieri, tirai un sorso di gin dalla bottiglia che mi penzolava tra le
mani. Era quasi mezzanotte quando rientrai in casa. Osservai le pile di
dischi, i libri accatastati alla rinfusa sugli scaffali, il caos totale
sopra il tavolo e mi sdraiai sul divano, osservando la luce obliqua
della notte che penetrava dalla finestra. Avevo fatto in tempo a mettere
sul giradischi Autumn in New York di Charlie Parker che caddi in un sonno tumultuoso.
Charlie
Parkerfu l’uomo della pioggia. Quella pioggia che si schioda ad un
tratto dal cielo e viene giù come un diluvio universale. Un visionario
delle sette note, che solo quando era intento a suonare riusciva a
liberarsi dall’eroina. Una tossicomania acquisita sin dall’adolescenza.
Era in quei frangenti che il suo dialogo interiore si metteva in moto.
Attraverso di lui la musica si esprimeva in tutta la sua naturale
bellezza. Notturna, violenta, brutale e, alle volte, tenera e dolce, la
sua arte lambiva i contorni incerti del bene e del male, emanando
un’ondata scura e affamata d’amore. Una storia, quella di Charlie “Bird” Parker, di ordinaria solitudine.
Un
anima pesta, gettata tra le fauci di un mondo privo di delicatezza.
Così come è capitato a tutti i dannati di questa terra, teneva più ai
suoi veleni che a tutto il resto.
Avevo
collezionato un gran bel numero di errori non c’è che dire, ed ero pure
cresciuto con la testa piena di cazzate. Guardai la mia immagine
accigliata nello specchietto retrovisore dell’auto mentre procedevo a
trenta all’ora, ascoltando Monk, il santone pazzo del jazz, in Round Midnight.
E’ risaputo che a furia di cercare si finisce sempre per trovare
qualcosa. Ma lei era ormai un capitolo chiuso. Avevo avuto il mio
momento di gloria, non potevo più accedere ai suoi pensieri, né al suo
corpo, ma di questo potevo biasimare solo me stesso. Guidavo non sapendo
dove andare, solo che quell’unghiata mi doleva come un ostinato mal di
denti. Uno stuolo di nuvole grigie si addensò nel cielo, ascoltai i
gemiti sordi del vento. Tra non molto, ci avrei scommesso, sarebbe
venuta giù la maledetta pioggia.
Non appena rientrai in casa, accesi lo stereo e misi sul piatto Foreign Affair di Tom Waits.
Un disco che porta con sè brandelli di pioggia, destinato a tutti quei
pazzi di vita che hanno ricevuto un colpo da ko, ma che, pur
traballando, riescono in qualche modo a non cadere. Canzoni che sono come tante piccole lacrime tra le ciglia, narrate in
notti spese alla ricerca di quella cosa che mai raggiungeremo. Ballate
dolci e amare, perfette per coloro che si sentono in fuga dal mondo.
(Verso Mezzanotte tratto da Viaggiatori Nella Notte)
Quando
s’invecchia ci si ammutolisce e si prova una sottile sensazione di
disagio a stare con gli altri, pensò. Ma poi a che serve parlare, le
parole scivolano e si gira intorno alle cose. Ognuno di noi, alla fine,
fa sempre ciò che vuole. O, almeno, così crede che sia. Fino a quando,
improvvisamente, ci si rende conto che il mondo va in un'altra
direzione, rispetto a quella che abbiamo seguito. Ad un tratto, si apre
un buco nero dentro di noi, e comprendiamo che non siamo stati capaci di
raggiungere il cuore della vita, di essere stati bellamente usati e
fottuti dalle circostanze. All’inizio ci sentiamo pieni di rabbia e ne
facciamo una questione personale. Con il passare del tempo non ce ne
importa più nulla. Ed è a quel punto che si resta afoni e muti. Nel buio
della stanza illuminata dalla tele senza volume si versò un’altra tazza
di caffè e diede fuoco a un avanzo che era rimasto nel posacenere.
Rivolse
lo sguardo, ancora una volta, verso la finestra. Un violento temporale
si era scatenato. Aveva perso qualcosa e voleva sapere se era davvero
così. Doveva ritrovarla e riuscire a parlarle, solo a questo anelava. Ma
quello che esigeva era davvero troppo. Guardò sul tavolo il medaglione
che gli aveva regalato la sera prima che sparisse. Si era fatta una
doccia e se ne stava raggomitolata sulla poltrona di pelle, mentre lui
con la chitarra strimpellava un vecchio country blues. Ad un tratto,
Alice si avvicinò e gli fece un succhiotto sul collo. Era avvolta in un
corto accappatoio bianco, che mostrava l’interno delle sue cosce. Lo
abbracciò e sentì i seni duri sulla schiena, continuò a suonare
stentatamente mentre dei brividi di piacere lo scuotevano. Con maestria
gli passò la lingua dietro l’orecchio e gli donò quel pacchetto. Avvolto
in un fazzoletto a forma di cuore, c’era quel medaglione con su incisa
una frase: Al Mio Amore.
Quando
riusciva a sottrarre dal lavoro qualche ora libera, amava frequentare
un negozio di dischi. Mr Jones, un americano trapiantato era il
proprietario di quella bottega e, dato che si conoscevano da tempo, gli
lasciava ascoltare tutto quello che desiderava Quella passione per la
musica gli era rimasta intatta, nulla era riuscita a scalfirla.
Scartabellava tra gli scaffali, guardando ogni singolo lp e cd. Il suo
reparto preferito restava quello dedicato al blues, l’unica musica che
lo rincuorava. Considerava il blues come la sua ombra acciaccata che lo
pedinava su quelle strade tortuose che il suo lavoro lo costringeva a
percorrere. Il suo mondo era ingolfato da gente che tentava di fottersi
l’uno con l’altro. Da matti pronti ad uccidere per un nonnulla. Da
persone colme di odio e miseria. Viaggiava in quel brutto sogno e non
riusciva a liberarsene. Fino a quando non gli apparve lei. Fu allora che
ruppe definitivamente gli argini e si allargarono i confini. Ruzzolò
dentro se stesso, nella sua anima più profonda. E tutto cambiò. Per la
prima volta, guardandosi allo specchio, non si riconobbe più. I miei occhi son divenuti
rossi quando la mia vita è diventata triste. Così, sto abbandonando
tutto, è la verità, per saltare in una nuova pelle. (Don’t Box Me- Stan Ridgway)
Hai voglia a
metterli in colonna, le somme del cuore non tornano mai. Ripensando al
passato, sentiva di non avere rimpianti per tutte quelle porte che si
erano chiuse, per tutti i sogni spezzati e le speranze devastate. Si era
disintossicato definitivamente dalle sue e altrui menzogne. E allora?
Cos’era che lo spingeva a cercarla? Tanto valeva ammetterlo, almeno a se
stesso. Era la carne che si ostinava a rincorrerla, era quel desiderio
del suo corpo, della sua bocca, della sua figa, che non si placava. Era
quel sentirsi leggero quando lei lo toccava. Quella sensazione di
abbandono che provava nel penetrarla e dopo ogni suo orgasmo. Forse
stava inseguendo un fantasma. Ma i fantasmi non ti abbracciano, non ti
baciano, non piangono.
Il
vento fece sbattere l’imposta della finestra. Si alzò dalla poltrona,
raccolse le sue cose che erano sparpagliate per la stanza, le infilò
dentro la sacca e si vestì. Non appena fu in strada la pioggia aveva
smesso di scendere. Salì in macchina e si avviò lentamente. Anni di
odio, di paure, di rabbia, erano scivolati via, tutti in un botto.
Accese una sigaretta e ne aspirò una lunga boccata. Si fermò al semaforo
ed abbassò il finestrino. Voleva sentire il vento sul viso. Al verde,
ripartì sgommando. Dopo qualche chilometro si fermò nuovamente e scrutò
intorno, come a cercare qualcuno, qualcosa, una direzione. Ma non c’era
nulla in quella città deserta. Neanche una freccia, che gli indicasse la
strada che portava da lei.(Città Solitaria tratto da Viaggiatori Nella Notte)
Alla stazione della vita, ho comprato un
biglietto di sola andata e nel posto dove vado non c’è nessuno che mi aspetta. Il
vento ha preso ad abbaiare come fosse un cane rabbioso. La strada brilla, sotto
le luce bianca del neon. Mi appoggio ad un lampione e con lo sguardo prendo a
vagare intorno. Dalla sigaretta aspiro una boccata di fumo strizzando gli
occhi. C’è stato un tempo in cui mi infilavo nella bruma, sotto la pioggia, e
spingevo a fondo il pedale della vita. C’è stato un tempo in cui nulla riusciva a farmi paura, neppure
ricominciare da capo. Sapevo sempre cosa fare o cosa non fare e, se sbagliavo,
andava bene lo stesso. Non come adesso che ho solo voglia di andarmene a
nascondermi il più in fretta possibile. Non come adesso che nessuno capisce,
che davvero mi dispiace per qualcosa. Ma a nessuno sembra importargliene. Non
come adesso che non ho più nessuno che mi può aiutare. Da
quanto, da quanto tempo è partito il treno della sera? da quanto, da quanto
bambina mia, da quanto? (How Long Blues-Leroy Carr)
Mia madre me lo diceva di essere gentile con
gli altri che loro lo sarebbero stati con me. Alla luce dei fatti forse si era
sbagliata. Adesso non ho più voglia di sorridere, ma ho anche una paura fottuta
di smettere di essere come sono stato. Bevo un altro sorso di vino e un altro
ancora. Non so proprio che fare. Dio! So che voglio e che devo fare. Ma farlo
realmente è davvero un'altra cosa. Do un occhiata alla bottiglia la porto alla
bocca e ricomincio a bere. Tossisco, barcollo e cado nel vuoto, spalanco gli
occhi e rabbrividisco. La bottiglia mi cade in terra, gli tiro un calcio e
sferro un pugno nel vuoto.
Visioni di Billie Holiday in bianco e nero.
Lady Day
entra in un bar, cammina lentamente con lo sguardo rivolto a terra e si
dirige
verso lo sgabello che è lì, fermo come se la stesse aspettando. Quando
ci si siede,
lo fa con una grazia che lascia tutto il pubblico di stucco. A quel
punto Lester Young si avvicina e si mette al suo fianco. Lady Day
ha i capelli attorcigliati in un garbato chignon. Alza lievemente il
capo e la
band inizia a suonare. Alle prime note degli ottoni una piccolissima
smorfia
gli contrae il labbro sinistro. Adesso, sempre lentamente, gira gli
occhi che
sembrano immensi specchi neri e osserva un punto indefinito della sala.
Poi cade
in trance e inizia a cantare Fine and Mellow.
La notte e i graffi che la pioggia lascia sui vetri si specchiano sul suo viso.
Lì, in fondo ai suoi blues.
Dopo che gli applausi erano finiti e la gente se
n’era andata. Scendeva le scale del bar e usciva verso l’albergo che lei
chiamava casa. Aveva muri verdastri e il bagno nel corridoio. E dissi no, no, no oh, Lady Day. (Lady Day-Lou
Reed)(Il Fiume Nero tratto da Viaggiatori Nella Notte)
Il lampione del marciapiede illuminava
a stento la strada. Sono rimasto là nell’angolo a guardare il niente. Volevo
suonarle e sono certo che mi avrebbe aperto la porta di casa. C’era freddo là
fuori dove mi ero fermato. Ma mi resi conto che facevo anche fatica a
difendermi e che certe cose non mi parlavano più come un tempo. Che potevo farci se non avevo neanche
tutta quell’energia di una volta per andarmene, solo solo, a strascicarmi nel
buio? Non avevo fatto mai nulla per i soldi, ed ero furioso con me stesso per
non avere capito che non avrei mai potuto vivere come volevo, che non avrei mai
potuto vincere quella partita perché si stava giocando con delle carte truccate.
E allora che cazzo avevo da lamentarmi e presi a sogghignare. Mi sentivo un po’
ridicolo certo ma alla fine tutt’altro che stupido.
Alle volte, è come se vivessi in un
altro mondo ed in questo non riuscissi a trovare posto. Alle volte, mi sento un
estraneo perfino con me stesso. Da un po’ di tempo percepisco un’aria pesante
da guerriglia urbana, come quella che penso c’era nel 1968, quando gli Stones
pubblicarono Beggar’s Banquet, uno
tra i loro album più belli. Un disco operaio, dedicato a tutti quelli che
lottano e che non accettano più compromessi e bugie. Un disco di rock con le
droghe sonore di Keith (blues, folk e country) fornite come spezie speciali. Beggar’s Banquet, fondamentalmente, è un
disco di Richards, dove la slide diventa
uno strumento rilevante nel contesto sonoro, accompagnato da una batteria
primitiva e scorbutica. Un disco che parte dalla foto di un cesso, pieno di
scritte volgari e provocanti, che i ragazzi del punk omaggeranno nella loro
rivoluzione del 1977, e che ci porta fin dentro quelle strade polverose di quelli
che, fino alla fine, provano a resistere e morire con gli occhi aperti. Beviamo alla gente che lavora duramente, beviamo
all’umile di nascita. Abbiate un pensiero di riguardo per la plebaglia. Beviamo al sale della terra.(The Salt
Of The Earth - Rolling Stones)
E’ pura anarchia esistenziale,Beggar’s Banquet è asociale, tanto che
mi spaventa per quanto mi assomiglia. Con quella spudorata simpatia per il
diavolo urlata ai quattro venti e l’amore per le ragazze con i bigodini nei
capelli e senza soldi in tasca, neanche per pagare il biglietto del bus. Ragazze,
però, che solo a guardarle sono un sollievo per occhi tristi. I combattenti di
strada sono pronti, ancora una volta, per fare la guerra a colpi di rock’n’roll.
E quando questa storia sarà finita è ogni cosa sarà stata rimessa al proprio posto,
e tutti i miei amici saranno tornati a
casa sani e salvi, solo allora - ve lo giuro - me ne andrò nuovamente per la
strada con tutti i peccatori che, nel frattempo, saranno stati fatti santi. E come
un vagabondo, come un fuorilegge, mangiando panini al mentolo raggiungerò il
sud dell’America e arriverò, ci potete
scommettere, a New Orleans a trovare le più belle ragazze-paracadute e con loro,
finalmente, mi prenderò una sbronza di quelle memorabili. Aspetto con pazienza sdraiato sul pavimento. Cerco solo di risolvere il
mio puzzle. Prima che piova ancora. (Jigsaw Puzzle - Rolling Stones)(Con Le Carte Truccate tratto da: Viaggiatori Nella Notte)
Ci
sono posti dove è facile farsi del male. Ma d’altra parte non sarebbe
nè meglio nè peggio rimuoverli dai ricordi. La villetta del quartiere
sta sempre lì, e anche quella panchina, che è sempre vuota come lo era
allora. Mi ci sedevo quando sentivo di aver perso il controllo di me
stesso e i miei punti deboli si erano ingigantiti e diffidavo di tutto.
Allora restavo seduto senza far nulla, solo a guardarmi intorno. L’altro
ieri ci sono ritornato e mi sono nuovamente accomodato. Dopo un po’ ho
alzato gli occhi verso la finestra da dove si affacciava mia madre per
chiamarmi, mi è sembrato di scorgerla ma è stato solo per un attimo. Mi
sono ricomposto non volevo farmi vedere triste e malandato. Le ho fatto
un bel sorriso ma so che non mi avrà creduto. Ho girato gli occhi ancora
più in alto ed ho visto il balconcino di Pasqualino. Era l’unico che si
sedeva accanto a me in quei momenti ed io ero anche l’unico con cui
tentava di parlare dei fantasmi che lo perseguitavano. C’era nato con la
testa piena di spettri. Se ne stava sempre rinchiuso in casa ma, quando
mi scorgeva dal quel balconcino, scendeva di corsa le scale e si
metteva seduto in silenzio ad attorcigliarsi le dita e a fumare.
Sembrava che mi aspettasse. Alle volte, quando le sue visioni erano
felici, mi sorrideva, come solo i pazzi ti sanno ridere. E mi toccava il
viso e mi abbracciava forte, fortissimamente a se che quasi mi
soffocava. C’era ancora lui l’altro giorno, l’ho sentito a lato e ho
pensato che non sono mai riuscito a fargli sputare fuori quell’orrore
che aveva dentro, che lo divorava. La sua presenza mi calmava, forse lui
sapeva, sentiva che c’era qualcosa in me che non andava. E allora credo
che alla fine sia stato lui a farmi sputare via il veleno, prima che
fosse troppo tardi. Adesso sarà un angelo, Pasqualino, magari bizzarro,
che su qualche nuvola bianca attraversa il cielo. Ma quanto mi manca la
sua risata e quell’abbraccio, nessuno lo può immaginare. Accidenti a me.
Odio i ricordi.
O non lasciare che lo spirito muoia, O no lo spirito
non muore mai, non muore mai e continua a camminare, e continua a
camminare lo spirito nella tua anima. Tu continua a camminare e guardati
intorno, e guardati intorno. O no, lo spirito non muore mai.(Spirit
-Van Morrison-)(Nel Mio Quartiere tratto da Viaggiatori Nella Notte)
Rientrai in casa e bevvi un sorso a canna dalla bottiglia di gin che era
riversa sul tavolo della cucina. Afferrai dallo scaffale nel reparto operai
della musica “Willy And The Poor Boys” dei “Creedence ClearwaterRevival”,
anno 1969. Tirai un altro sorso a canna e cominciai a sentirmi
meglio. La musica, da subito, mi catapultò sulle sponde del grande fiume che
attraversa l’America, mentre la voce di John Fogerty, lacerata e colma
d’anima, mi travolgeva. Quella voce, che pare sia sempre sul punto di
spezzarsi, sprigiona un’energia e una passione che ti afferrano le pareti dello
stomaco, facendotele arricciare. C’è tutto in quelle semplici canzoni: voglia
di vivere, di combattere e fierezza di essere duri e puri. Tutte cose che
quelli come me non sentono più da molto tempo ormai. Persone che avevano
confidato nel potere magico della musica per crearsi l’esistenza. Che su tre
accordi hanno adagiato i propri sogni, e con molta probabilità hanno perso più
di un occasione nella vita. Che sul treno dei finti sorrisi non ci sono mai
voluti salire per restare fedele a se stessi. Persone che hanno pianto come
bambini, con l’angoscia nel cuore, cozzando la testa contro le pareti del
mondo. Uomini che si sono trascinati nel buio della notte. E che, sbandati e
confusi, non hanno trovato più la strada di casa.
“My my, ehi ehi, il rock and roll è qui e ci resterà. E’ meglio bruciare
fino in fondo,che dissolversi nel nulla. My my ,ehi ehi. E’ uscire dal blu ed
entrare nel nero. Ti danno questo, ma paghi per quello. E una volta che sei
andato non puoi più tornare. Quando sei uscito dal blu. Ed entrato nel nero.”MY
MY, EHI EHI” (OUT OF THE BLUE)- Neil Young-
Sono poche le cose che ci legano al passato, ma alla fine sono proprio
quelle che fanno più male. Mi sdraiai sul letto, nella penombra con un
bicchiere sul petto, ascoltando “Live Rust” di Neil Young, anno 1979.
Un doppio album dal vivo registrato nel 1978 al Cow Palace di San
Francisco, dove Young con la sua chitarra acustica prima si
scioglie dentro le sue ballate dolenti e, poi, insieme ai Crazy
Horse, dà vita ad un set elettrico ad alta intensità emotiva: Like A
Hurricane, Cortez The Killer, My My Hey Hey, Cinnamon Girl, Powderfinger, sono
proiettili devastanti che mi hanno lasciato segni profondi sulla pelle, sui
nervi, nella pancia dell’anima. Almeno fin quando non è sopraggiunta la
rassegnazione. Live Rust è il disco con cui mi avvicinai a questo pazzo furioso
che fin li avevo tenuto a debita distanza. Perché ero giovane e ribelle,
e i Clash erano il mio unico credo. La sua musica, in quei giorni, era
il punto di riferimento di una generazione che in qualche modo consideravo già
vecchia. Ma era nella natura delle cose e della vita dovermi incrociare con
quest’uomo. Un inquieto sognatore notturno, la cui esistenza è costellata di
fantasmi.“Quando lei se ne andò, lui morì, ma continuò a fingersi vivo.
Quando lo vedrai, capirai che niente può liberarlo. Fatti da parte, cedigli
strada: è il solitario.(The Loner). Sdraiato sul letto pensai
a Luisa e al suo corpo caldo e vibrante mentre facevamo l’amore. Mi sentii come
se avessi lasciato le mie tracce sul bagnasciuga, e al mio ritorno non c’era
più nulla.( Uscendo Dal Blu Ed Entrando Nel Nero tratto da : Viaggiatori Nella Notte)
Mi alzai dal letto ed andai in cucina a bere
un bicchiere d’acqua. Avevo lasciato molte cose dietro di me che a guardarle
adesso mi parevano come lividi tumefatti sulla pelle. Erano cose morte. Stare ora
a rimuginarci sopra significava riaprire vecchi conflitti, ma quella notte
stava andando così. Ero sempre stato un tipo difficile o, meglio, gli altri
credevano che lo fossi. Indubbiamente, trascorrevo molto tempo da solo e
conoscevo bene le strade per mettermi nei casini. Da ragazzo al liceo costruivo
molotov. Ero uno specialista in quel genere di bombe. Le utilizzavano nei
cortei i compagni più grandi, quelli delle
frange oltranziste per lanciarle contro i celerini o per incendiare i circoli
frequentati dai fascisti. Erano gli anni settanta, c’era tensione sociale e
molto subbuglio. Ma era la solita storia dei ricchi contro i poveri e
viceversa. Solo che si era giovani e l’indifferenza non ci aveva ancora sopraffatto.
Si aveva dentro un romanticismo maldestro. Dopo, quando si ha un passato alle
spalle, la vita diventa più complicata. La poesia ce la divoriamo insieme a
tutto il resto. La gente a quel tempo mi guardava in malo modo per come mi
vestivo e per quello che combinavo. Mi cacciarono più volte dalla scuola per
comportamento ribelle. Ma quando imbracciavo la chitarra e suonavo tutto
cambiava, mi veniva naturale. La musica sgorgava dal mio cuore fluida e provavo
sensazioni indescrivibili. E gli sguardi di chi mi ascoltava erano pieni di sorpresa
e ammirazione. Tuttavia, avevo una grossa pecca, suonavo il rock dei Lynyrd Skynyrd,
Allman Brothers, The Band, Lou Reed, Stones. Musica che a quelle truppe della
sinistra stava sulle palle. La consideravano con disprezzo, musica imperialista.
Non hai paura? Non c’era nessuno che mi inseguiva, se non i
miei fantasmi. E poi la paura non dice né si né no. Si prende tutto la paura. Ero
nauseato di come era andata avanti la mia vita, anche amareggiato. Ma avevo
smesso di avere paura da quando mi ero incancrenito dentro, ed ero capace di
difendermi. Il vento continuava a soffiare e sembrava che stesse piangendo tra
i comignoli dei tetti. Volevo andarmene a sud, dove c’era il sole. Avrei voluto
vivere un po’ più spensierato, ma non per questo mi impietosivo per il mio
destino. In un modo o nell’altro me l’ero scelto. Avevo fatto tutto da me. Nora
stese la mano e con le sue unghie lunghe mi sfiorò il viso. Entrambi eravamo
vecchi allo stesso modo, entrambi eravamo soli. Mi agguantò un polso e lo strinse
forte e poi, guardandomi dritto negli occhi, disse: Ci si sbaglia sempre a giudicare il cuore degli altri. Ma io ti ho amato
dal primo momento che ti ho visto. Ascoltami,adesso. Era arrivata dove l’occhio non può
più vedere, era dentro le cose e non aveva scelto la via più breve.(Malato D’Amore Blues tratto da viaggiatori Nella Notte)
Eccolo, un altro caduto nella rete di Barzin, dentro quelle note per un amante assente. Un disco che ha la
forza di trafiggerti e di esporti ai quattro venti. Pieno zeppo di ballate
grigie e secche, come un drappello di
cani randagi. Ma anche di pudore. Dedicate a tutti quelli che sono annegati nella notte,
lottando contro la pioggia e il vento. Perché ci sono cose nascoste che uno
pensa di non avere, talmente nascoste che alla fine ci si ritrova vuoti e non
si smette di tremare. Ma quelle tracce
di sangue che hanno rigato l’anima non si possono raschiare. E nemmeno quel fremito che quello sguardo
profondo ha lasciato. Prima che se ne andasse per sempre.(Bollettino Delle Emozioni 3. (Al bar da Gino) tratto da:Viaggiatori Nella Notte)
Se nasci nel sud, puoi starne certo, sarai
un emigrante. Mio nonno Iano me lo ripeteva sempre. Ad un uomo del sud gli
viene il blues. Gli viene dal cuore quel modo di dirti come vive, come viene
trattato da chi in tutti i modi cerca di umiliarlo, di fotterlo, di piegarlo
sulle ginocchia. Chester Burnett aveva sentito che la gente se la passava
meglio nella Wind City. Saltò in piena notte su un treno merci e dal profondo
sud del Mississippi si spostò a nord. Cantando il blues.
L’estate si allunga lenta e dilata
il tempo e i giorni si muovono in armonia.
Il caldo scioglie il catrame e le emozioni corrono veloci, come la pazzia.
Ma sono cose che non tutti riescono a percepire. La notte era atterrata
rastrellando alcuni pensieri, mentre altri erano rimasti sparpagliati nel buio.
Lungo il tragitto mi accompagnavo con le note di I've
Got A Mind To Give Up Living/ All Over Again, che mi sfibbiarono il giusto l’anima.
Dal bar avevo telefonato nuovamente a Concetta,
ma anche questa volta non aveva risposto. Una macchina mi superò suonando
nervosamente il clacson. Erano le dieci della sera e faceva un caldo boia. Mi
sentivo teso con il corpo sveglio ma la mente addormentata. Non riuscivo a
tenere in piedi un pensiero e quello
strano senso di vuoto si era nuovamente impadronito
di me. Facevo strada cambiando umore di
continuo. Adesso avrei potuto rimanere per sempre immobile nella notte. Quando
avevo sedici anni me ne stavo a fantasticare romanticherie, ero nel pieno di
quel desiderio di solitudine ma anche convinto che un incontro mi avrebbe
cambiato la vita. Poi le cose avevano fatto il loro corso e c’erano stati
lunghi inverni passati da lupo. Alla fine qualcuno aveva bussato alla porta. Guidavo
stando a colloquio con i miei spiriti, e avrei voluto che piovesse nuovamente. Non
c’era più quella magia intorno a me che rendeva tutto più sopportabile. Il
tempo si era distorto. Ma il tempo è l’unica certezza che abbiamo. Forse,
pensai, avrei dovuto imparare a lasciarmi andare, a nuotare senza gli stivali e
guidare senza freni. Guardai la strada nera e profonda davanti a me e poi il
cielo che era un fragore di stelle. Calai il finestrino e ascoltai il vento sibilare tra l’erba.
( Camminando Da Solo tratto da: Viaggiatori Nella Notte)
Il campo di cotone era stato ripulito dalla gramigna. Fred, FredMcDowell,
era fermo ai bordi ancora in tuta da lavoro, immerso nella canicola di
luglio e guardava in un punto indefinito l’orizzonte. Ad un tratto,
sentì urlare il suo nome, si girò e vide che il suo vicino di casa Lonnie Young
correva verso di lui. Si era sparsa la voce che quel bianco, venuto dal
nord con un registratore a bobine, stesse cercando artisti locali da
registrare per l ’Atlantic Records. Lonnie informò Fred della cosa e i due si misero in cammino frettolosamente.McDowell passò da casa, prese la chitarra acustica, chiamò sua zia Fanny Davis che suonava il kazoo ed insieme si presentarono al cospetto di quel tizio che di nome faceva Alan e di cognome Lomax.Era il 1959.
Tu mi fai debole e mi fai gemere”.
Mississippi McDowell sputava fuori le parole di quella canzone, intanto
che la strada si inerpicava vertiginosamente. Il vento improvviso fece
sbandare l’auto che recuperai con un colpo fulmineo di sterzo. Come
avremmo fatto ad incastrare le nostre vite, se le cose che ci dividevano
erano più che quelle che ci univano? ”il blues è soltanto una donna nei pensieri di un uomo, il blues è soltanto un dolore dentro al cuore di un uomo.”Cosa
ci saremmo detti con il passare del tempo? Lei si prendeva solo ciò che
le interessava di me, ma io ero anche un altro perchè, come tutti,
avevo un altro volto che a lei non interessava conoscere. A questo punto
non restava che andarmene ancora una volta, non potevamo seguitare a
farci del male. Mi chiesi, allora, per quale ragione non riuscissi a
trovare mai niente, che guarisse il mio silenzio ed il freddo che mi
portavo dentro. Non me lo sarei mai perdonato, non avrei mai accettato
di contrabbandare le mie pene in cambio di un tetto e di un pasto caldo.
Desideravo esprimerle la mia anima, senza che nulla me lo impedisse.
Volevo dirle che ero malato d’amore, che anch’io avevo quel sogno oscuro
di salvare qualcosa. Avrei voluto parlarle, dirle cosi tante cose che,
alla fine, come sempre, non dissi nulla.(Cacciatori D'Anime tratto da Viaggiatori Nella Notte)
Naviganti
raminghi tra Mediterraneo e Mali. Imbarchiamo
un altro naufrago, e non potevamo farne a meno: Bart, autore di Viaggiatori
nella Notte e curatore del blog Dustyroad.
Amico – virtuale, ma molto meno di altri in cane ed ossa – di vecchia data.
Attenzione:
qui non è luogo di elogi ad Eric Clapton o elegie per B.B. King; qui sono
banditi l’accademismo e lo storicismo.
Nella
scrittura, duri e puri, lo sono stati Cèline, Bukowski.
Nella
musica, Captain Beefheart è quello che, tramite la ruvidità del blues, ha
mostrato al mondo il suo delirio interiore. Per questi artisti potete usare
qualunque aggettivo, insolenti, provocatori, eccessivi, geniali, vedrete che
gli calzerà a pennello.
Il
blues è l’uomo nella sua reale miseria. Qualunque essa sia.
È
la sua reazione a quello stato che non sopporta più, che genera il blues. Il
blues non è la lista della spesa, i buoni o i cattivi, il bianco o il nero. Il
blues è la desolazione senza sbocco, il sapere che nessuno oltre te, può fare
qualcosa per la propria esistenza. Per questo il blues non è di sinistra. Come
invece hanno cercato di farci intendere i critici musicali di quell’area
politica, mettendone in risalto solo la condizione sociale, da cui scaturiva.
Il blues si è sempre abbeverato nella disperazione, nel pessimismo. Il blues è
abdicazione al potere. Il blues non è rivoltoso. Chi lo ha pensato si è
sbagliato di grosso. Un tempo ho fatto anch’io questo errore. Può arrivare da
qualunque parte, il blues. Ma chi lo canta ha bisogno di cose materiali, ha
bisogni veri. Perché è in quel momento che ha cessato di essere rispettabile
all’occhio del mondo. Il blues del Delta è musica pura, di uomini puri, che
ancora non si sono massificati, perché suonavano se stessi. A quel tempo il
blues era tutto istinto. E l’istinto è poesia. Almeno per quanto mi riguarda.
Poi il blues come ogni cosa che cammina, è diventato qualcos’altro. Ma non sta
a me giudicare.
Safe As Milk,
ha dentro di se quella purezza primordiale.
E.M.: Cosa
c’è veramente di primordiale nel blues?
Ripenso
ad Ulisse, a Schwingungen degli Ash RaTempel; e ad una riga scrittami da Mr.
Hyde per mail “Mi sono lasciato
suggestionare da Omero e dai contenuti 'blues' dell'Odissea, il girovagare, le
donne, il vino e il loto”.
A
suo tempo scrissi qualcosa sul disco degli Ash RaTempel:
“Quando la melodia
getta finalmente l'ancora, i naufraghi del cosmo trovano la loro casa. Una voce
suadente, fascinosa, carezzevole; che non è più il subdolo canto della Canzone
delle Sirene di Buckley, ma la melodia che Odisseo udì appena poggiato il piede
sulla spiaggia sassosa di Itaca.
Il canto di casa.”
Empatia?
Allora,
quanto è “blues” questa Odissea? C’è il vagabondare: con una meta, ma senza una
strada. C’è una donna da ritrovare, che lungo il percorso però viene tradita,
perché le circostanze sono forti e la carne eternamente debole. C’è il vino,
c’è l’oblio, i compagni di viaggio.
Eppure
faccio un’enorme fatica ad associare in qualche modo la mitologia classica alla
mitologia blues, che affonda le radici in un passato molto più prossimo e in un
territorio che tutt’al più può essere quello del bacino del Congo, piuttosto
che del Mediterraneo.
Non
è la “primordialità” di Odisseo la stessa del blues, con buona pace di Tales Of Brave Ulysses dei Cream, una
minima coincidenza puramente accidentale.
Forse
è primordiale per tecnologia (o non tecnologia), anzi forse è quel suo essere
intrinsecamente anti tecnologico.
O
magari è primordiale nella voce, nella forma più che nei contenuti,
nell’espressione, nel lessico con la sua fissità da fossile vivente.
O
forse abbiamo solo scelto l’Ulisse sbagliato.(Massi gradirà questo assist…)
E
poi c’è una cosa che vorrei sapere da Bart: è possibile un blues svincolato dal
“sud”?
Di
qualunque “sud” si tratti: geografico, politico, sociale. Dovunque si trovi.
South Side Blues Jam di
Junior Wells suonerebbe altrettanto bene come North Side Blues Jam?
Il
profondo “sud del Sud dei santi”.
E’
lì che nasce tutto, anche nella nostra piccola penisola?
Bart:
Il blues ha tempi lenti, dilatati. A dispetto dei suoi esecutori, si muove poco
è pigro, sonnecchia svogliato di fronte alla palude, o al grande fiume, o
scrutando il mare. È nelle corde di chi nasce, dimenticato dal mondo nei luoghi
dove il tempo sembra non esistere, dove tutto viene rimandato a dopo, dove non
c’è molto da fare, che il blues è nato. Nella polvere del sud, nelle comunità
rurali della gente di colore. Il nord è solo la terra promessa. Dove c’è lavoro
pagato per tutti (una volta)…
“Il
blues è nato nei campi di cotone dove si lavorava duro e il padrone non pagava”.
(Sonny Terry)
Il
blues per come lo sento nella mia anima, resta ancorato ai paesaggi, ai colori,
alle sensazioni, che solo il sud possiede. Poi è possibile anche un blues fuori
da quei luoghi. Certo che è possibile. Ma suona in un altro modo. E’ un'altra
cosa. Vlad la scorsa volta ha fatto la differenziazione tra quello che
per lui è blues, è quello che non lo è. Parlava in prevalenza di bianchi, se
non erro. Ma chi è più blues tra: Blind Willie Mctell, e Sleepy John Estes?
Il
blues del delta è musica ostica ,difficile da digerire, non è adatta al mercato
radiofonico. Non tutti hanno la pazienza di ascoltare quei suoni sghembi,
ossessivi, che non seguono alcun tempo,e vanno a ruota libera. Quando si parla
di blues, si parla sempre del blues elettrico, per giunta fatto dai bianchi. Ma
quella è la Musica Blues. Non è il Blues. Il blues tradizionale non
si può trascrivere, è strano, dopo tre pezzi ti rompi i coglioni. Certo se non
c’erano i musicisti bianchi, anche Robert Johnson non sarebbe diventato una
leggenda. Ma quanti fruitori di musica hanno davvero ascoltato Robert Johnson?
Il blues tradizionale è quello meno conosciuto, il più declassato.
Per
questo è nato Dustyroad.
Scrivo i miei racconti con la speranza che chi legge, si possa innamorare di
quei pezzenti, e andare anche per un solo attimo ad ascoltarli. Il mio compito
è questo. In nome del Blues. Del sud.
Massi: Eccome
se gradisco l’assist, caro Evil. Vorrei prima però soffermarmi su
un’affermazione di Bart che trovo tanto sorprendente quanto vera: “[…] il blues non è di sinistra.”
Sorprendente perché va senza dubbio contro corrente rispetto alla convenzione
(o luogo comune) che vorrebbe la cultura appannaggio della sinistra; vera
perché se oggi, nel 2014, siamo ancora qui a parlare di blues - e non, ad
esempio, di ragtime o di twist - la
ragione va forse ricercata proprio in quel suo non essere ideologico che lo
rende universale: pur mutando, o meglio, proprio in virtù della sua capacità di
mutare, il blues va nutrendosi della propria continuità, della propria
“adattabilità” al momento, ben lontano dalle banalizzazioni modaiole del carpe diem o da certo “compassionismo”
estetico, tanto in voga in una società come la nostra dove il politically correct è ancora d’obbligo.
Il bluesman – il vero bluesman,
intendo – se ne fotte del politically
correct e se ne fotte anche della legge. Cito ancora Bart: “Il blues è l’uomo nella sua reale miseria.
Qualunque essa sia.”
Ed
è qui che raccolgo l’assist fornitomi da Evil per spostarmi su un terreno che
mi è caro tanto quanto quello della musica: la letteratura.
Splendide
le suggestioni omeriche di Mr. Hyde, e forse il collegamento tra “mitologia
classica” e “mitologia blues” potrebbe trovarsi in quello che ritengo essere il
libro più importante del Novecento e che delle peregrinazioni di Ulisse dà una
lettura parodistica, ricostruendo in chiave modernista l’intera epopea omerica.
Una delle innumerevoli chiavi di lettura di Ulysses
è il neanche troppo velato sberleffo al vittoriano “eccesso di civiltà.” Mr
Bloom è un outsider, è l’eroe moderno
colto “nella sua reale miseria.” Umana, aggiungo io. Joyce recupera un mito
classico (quello, appunto, di Ulisse), ne decostruisce l’ellenicità e lo
trasforma - parodiando un altro mito, quello dell’ebreo errante - nell’eroe
moderno. Lo sottopone a continue umiliazioni, sfide e derisioni; lo colloca in
situazioni complicate e fastidiose; ce lo mostra nei suoi momenti più
vulnerabili, umani, ordinari (mentre defeca leggendo il giornale, ad esempio) e
ci regala il flusso costante dei suoi pensieri, guidati dal bordone di una
malinconia incessante e, a tratti, dolcissima. Come il suo creatore, ebreo di
origini ungheresi in terra d’Irlanda, Mr Bloom è un esiliato in patria. I
continui richiami alla fascinazione per l’oriente nei suoi monologhi hanno la
stessa profondissima essenza delle “lamentazioni” del delta del Mississippi.
Costretto
a soffrire il trauma emotivo e psicologico del tradimento della moglie,
dell’antisemitismo, di un’esistenza vissuta ai margini della società, Mr Bloom
sostituisce lo stoicismo greco con l’umana imperfezione. Joyce ne dettaglia le
più banali attività quotidiane e mette in evidenza, talvolta con tocco di
compiaciuto feticismo, peccati e tabù dell’essere umano:
defecazione, minzione, golosità, masturbazione, voyeurismo, alcolismo,
sadomasochismo, ecc.
Se
– in aggiunta a quanto teorizzato nelle precedenti conversazioni – il blues è anche uno stato d’animo, allora Mr.
Bloom è uno dei personaggi più blues di sempre.
Non
credo sia possibile un blues “svincolato dal sud,” se per “sud” intendiamo i
confini connotativi tracciati in precedenza da Vlad, e condivido l’acutissima
distinzione di Bart tra “blues” e “musica blues” (bellissimo tema, peraltro, da
sviluppare); tuttavia un blues iperboreo è possibile, ma sarà sempre
derivativo, e gli Ash Ra Tempel sono lì a dimostrarlo.
Alla
stregua dell’apprendista che, all’inizio del suo percorso iniziatico, viene
posto davanti al bivio tra “via umida” e “via secca”, Il blues(man) rappresenta
l’eterno dubbio dell’uomo che non ha ancora deciso se seguire il “canto di
casa” o lasciarsi avvolgere nel dolce oblio del “canto delle sirene.”
Vlad:il blues non è di sinistra. Bene. Il
blues non è rivoltoso, non è di sinistra. Non è attivo. Son d’accordo: infatti
appartiene a chi ha già perso. Come ho già detto: si cerca di riguadagnare la
propria patria (la propria cultura) nelle terre del vincitore; spesso con gli
strumenti stessi del vincitore. I canti di guerra non sono blues; le trombe
dell’attacco di cavalleria nemmeno; gli inni di vittoria neanche. Al blues
appartiene la sconfitta, inevitabile. In un certo senso: il blues si crogiola
nella sconfitta e nell’elegia; non gli è indifferente, tuttavia, lo sberleffo
per il vincitore.
Blues e sud.
Nei limiti tracciati sopra: se al blues appartiene la sconfitta, per Sud
occorre intendere gli sconfitti, gli esiliati, gli immigrati, i senza patria. I
nordici emigrati a Pittsburgh avevano i loro canti di lavoro blues: erano Sud
anch’essi. Andrew Kurely
(operaio slovacco immigrato autore di American land) è Sud e blues; i Blues
Brothers no. Andrew Kurely, come Robert Johnson, è blues; i Blues Brothers
fanno musica blues.
Odisseo.
Ulisse alla corte di Circe o di Nausicaa ha improvvisato sicuramente canti
blues. Ne ho la certezza. Appena rientrato a Itaca avrà deposto l’elegia e
cantato un inno di guerra: era a casa, infatti.
I
Greci, distrutti dall’economia di rapina, esiliati in patria, suoneranno blues.
Presto intoneremo blues anche noi.
A
margine di Odisseo. C’è un libercolo interessante in giro: Felice Vinci, Omero
nel Baltico. Più che un libro è una affascinante congettura. In esso l’autore
ipotizza che l’Iliade e l’Odissea fossero originariamente ambientate nella
regione baltica (Danimarca, Norvegia, Svezia, Finlandia) e quindi, dopo la
migrazione dei popoli nordici verso il Sud (lungo le direttrici dei fiumi
russi), riadattate al contesto mediterraneo. Omero sarebbe, perciò, un bluesman
situato a Sud che rimpiange elegiacamente il Nord; e in tal caso il Nord
sarebbe davvero un Sud.
Una
proposta: considerare il blues come l’elegia cantata dei poveri, dei
diseredati, dei senza patria, dei nostalgici. Dei sudisti dell’anima.
PLAYLIST
Captain Beefheart &
His Magic Band - Safe as Milk (1967)