Guidavo
sulla tangenziale deserta osservando gli edifici grigi e le strade vuote. Quel
paesaggio, se da un lato alimentava una sensazione d’intensa
malinconia, dal’altro riusciva a rilassarmi. Con il piede sinistro appoggiato
sul cruscotto ed una mano sul volante, procedevo fumacchiando una Camel. Accesi
la radio e inserii Undead, anno 1968, un set dal vivo dei Ten
Years After, granitico gruppo inglese di hard- blues, in auge dalla metà degli
anni sessanta. Alvin Lee, chitarrista e anche leader della band, per tecnica,
velocità e bravura se la sarebbe potuta giocare tranquillamente anche con il re
della sei corde Jim Hendrix. Ma la storia del rock è ingrata e, come spesso
accade, i Ten Years After sono stati dimenticati in fretta quasi da tutti. La
musica riempì l’abitacolo, regolai il volume, abbassai il finestrino per tirare
via la cicca e sentii l’aria fredda e pungente dell’inverno mordermi la mano.
Spinsi il piede sull’acceleratore quel tanto che bastava per far fischiare le gomme
sull’asfalto bagnato. Afferrai la fiaschetta di scotch che tenevo nel cruscotto
e bevvi un piccolo sorso. Avevo sempre avuto l’impressione che l’alcool potesse
ripulirmi dentro e, nello stesso tempo, spegnere quel tormento che mi portavo
appresso da ormai molto tempo. Avevo smesso di bere, almeno in un certo modo,
anche se l’alcool restava una tentazione molto forte. Il motore adesso tirava
che era una bellezza, scrollai il capo e mi abbandonai alla musica.
La libertà è
sempre stata nelle cose semplici. Come un viaggio in moto stile Dennis Hopper e
Peter Fonda nel film Easy Rider. Nell’ascoltare un disco di musica rock,
fumando un po’ d’erba. O nel vento che ti accarezza la pelle. La libertà si può
trovare in mille cose. Ma man mano che si va avanti quelle cose, come le
persone, marciscono e ci si ritrova da soli. C’era del buon senso in quei
ragazzi.
C’è stato un tempo
in cui sognavo. Quel tempo, però, non me lo ricordo più. L’ho fatto fuori in un
baleno. Allora non mi veniva difficile innamorarmi, il problema, semmai, era
crescere, restare insieme, capirsi, ma anche comprendere se stessi. Quello sì
che era difficile. A me sgomentava il dover sempre e comunque vestire gli
stessi panni per tutta la vita. Perché mi sarebbe piaciuto una mattina
alzarmi ed essere Keith Richard, in un'altra Robert Johnson, e via di questo
passo. E invece, sempre la stessa faccia sempre la stessa esistenza, a volte
grigia a volte piena. Un esistenza che se ne andava per i fatti suoi,
ciondolando attraverso uno scroscio di pioggia furiosa.
Uscii dalla tangenziale che pioveva a dirotto. Alex mi stava aspettando
al riparo dentro l’androne del portone di casa. Posteggiai l’auto di fronte
all’ingresso e in un baleno saltò dentro dandomi un lieve bacio sulla guancia.
Stavamo riprovando a stare insieme, cercando di raccogliere i cocci
sparpagliati della nostra esistenza e, per la prima volta, entrambi
attraversavamo sentieri sconosciuti. Da qualche parte bisognava pur ripartire.
E noi avevamo deciso di imboccare la strada più difficile. La strada del
dialogo e del dolore delle parole.
(Bourbon Blue tratto da Viaggiatori Nella Notte)
Molto, molto bello.
RispondiEliminaGrazie Roberto
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