Guardai la mia faccia livida riflettersi
nello specchio del bar. Consumai velocemente un caffè ristretto e stranamente
senza zucchero. Scambiai due chiacchiere svogliate con il barista, pagai il
conto ed uscii. Don Peppino, un vecchio maestro di pianoforte, lo diceva sempre
che noi uomini siamo strani. Ci teniamo stretti le nostre disgrazie, ci
occupiamo di loro. Le culliamo, come fossero bambini in fasce e non le
schiodiamo più da lì, neanche a cannonate.
Quando nasci senza nulla, nella piena indigenza, volente o nolente
l’ingegno si aguzza. Elmor James iniziò a suonare su uno strumento che si era
costruito da solo. Aveva aggiunto
quattro corde a una scatola di latta. In quella maniera cercava di far uscire
la melodia che c’era in lui. Elmor regalò il cuore alla musica. Perché fin che
la vita suona, tutto ha un senso, puoi sperare di superare le pene devastanti
che un esistenza fatta di privazioni e povertà ti negano. Senza, ci sarebbe
solo il vuoto e il silenzio più assoluto. Siamo alla fine degli anni venti.
Elmor James, che era venuto su in
fretta, non immaginava minimamente che un giorno i libri del blues lo avrebbero
indicato come uno dei rinnovatori più significativi e autentici della musica
del diavolo.
Alle due di notte dormivo tranquillo quando il
citofono di casa suonò. Prima che mio padre si decidesse ad alzarsi dal letto e
rispondere, suonò una seconda volta, e poi una terza. Solo allora, incazzato
come una iena, andò a rispondere. Di certo un altra rogna quella notte lo
attendeva. Come accadeva ormai spesso, una volante della polizia era venuta a
prelevarlo. Poche ore prima, ma questo lo raccontò in famiglia la sera del giorno
dopo, quando finalmente fece rientro a casa, era avvenuta una carneficina. Un
uomo, in preda ad un raptus di gelosia, aveva ucciso l’amante della moglie, la
moglie e si era suicidato. Al citofono parlottò nervosamente con l’agente. Poi
si vestì in fretta. Prese la sua valigia di pelle bordò e la Rolleiflex, già pronta allo scatto. Macchina che usava per
fotografare i cadaveri senza l’uso del treppiedi. Prima di uscire venne a
salutarmi. Per la prima volta notai che aveva un’aria stanca e disillusa. Le
sue notti erano state come una danza lenta e inquieta. C’era stato solo spazio per
quell’umanità, che in un modo o nell’altro, perdeva l'equilibrio e impazziva.
Lui, allora, si sentiva come una preda ferita, che sbatteva le ali e non
riusciva a fuggire da tutto quell’orrore. Me lo confidò lui stesso mentre
viaggiavamo col mio furgone anni più tardi, una volta che venne a farmi compagnia in una giornata
di lavoro. Era estate ed un sole alto illuminava il mondo. Un blues elettrico,
lento e penetrante, fuoriusciva dall’autoradio e ci accompagnava nel viaggio. Magicamente,
si era rilassato guardando il mare che costeggiavamo e mi raccontò tante cose
di lui. Fu uno di quei rari momenti che ho visto mio padre girarsi verso di me e
sorridere alla vita. Nessuno in
fondo resiste alla musica.
Elmor James se ne stava
rannicchiato in un angolo, abbracciato alla sua chitarra, sotto la pioggia
battente. Ad un tratto, un uomo dal viso buono, anch’egli completamente
inzuppato di pioggia, lo invitò ad entrare in quel juke joint che stava
dal’altro lato della strada. Lo sconosciuto era anch’egli un musicista, un
suonatore d’armonica. Sonny Boy Williamson era il suo nome.
Un po’ di tempo fa, mio padre mi disse:
non si foraggia mai nessuno con una mano, per poi eliminarlo con l’altra. Questo
è quel che hanno sempre fatto i nostri politici. Gente cattiva che si organizza
e poi ci da dentro. Come in guerra, qui non viene mai nessuno ad aiutarci. Io e
mio padre eravamo amici. Lui si fidava di me, ed io di lui. Adesso lui è morto.
Ed io, io suono il blues della rassegnazione. Il blues della rassegnazione. (L’odore della paura (il blues della rassegnazione) tratto da Viaggiatori Nella Notte)
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