Bel periodo per un cambiamento, vedi, la fortuna che ho avuto può trasformare un uomo corretto in un uomo cattivo e, quindi, per favore, ti prego, lasciami ottenere quello che voglio. Stavolta..(Please Please Let Me Get What I Want - The Smiths)
Avevo passato la serata ascoltando musica rock, quando all’improvviso di fronte ad una cover di una vecchia canzone resa ancora più fragile e malinconica di quanto non lo fosse già di suo, mi prese una strana commozione. La riascoltai a lungo, pur di non perdere quell’emozione che sapevo non avrei più potuto replicare. Riflettei che ancora non era finita e che c’era da girovagare, senza evitare i dossi e neanche le voragini. Era meglio andare a vedere e sentire, e cercare di stare sulla corda delle cose, perché i sogni sono come messaggi. Così, guidavo concentrato quel mattino, osservando quattro nuvole gonfie come il collo di un oca che si inseguivano nel cielo. Per un po’ si mossero piano, poi, spinte dal vento, accelerarono sorpassandomi. Nel silenzio in cui ero avvolto compresi che non mi era riuscito di rovesciare alcuna regola, e neppure di piegarla. E per un attimo sbandai, smarrito dal tempo che ci supera, e ci batte. Hai voglia a galoppare verso le foreste vergini, se mai esistono ancora, il tempo ci stacca come una saetta e non puoi fare nulla se non affrettarti a corrergli dietro. Fanculo Bart, pensai, in qualche modo mi arrangerò, e sopravvivrò. Certe cose riaffiorano quando non vorremmo. Sembrano intorbidate dentro di noi, rintanate in quegli anfratti senza nome, poi all’improvviso prendono a rimbalzarti su e giù per il cuore. Ed inizi a sentirti dolorante dentro quel mistero dell’anima, tanto da cercare anche quei piccoli dettagli che ti rispediscono diritto all’inferno. Il registratore di cassa suonò. Se male deve essere, allora che lo sia fino in fondo.
Chuck sulla sua Ford V-8 sta svoltando a destra. È alto e ciondolante, quel ragazzo con il cazzo nero, i baffi sottili, e i capelli unti di brillantina, che guida tenendo il braccio fuori dal finestrino. Procede spedito per le strade di Elleardsville, un sobborgo della città di St Louis. Sul sedile laterale, custodita nel fodero, c’è la sua chitarra, una grossa Gibson rossa. Sta assaporando la velocità, e quella canzone che fischietta parla di fuggire con una ragazza per portarla da un capo all’altro dell’America e, al calar della notte, reclinare i sedili per fare l’amore. Un ribelle, temerario, che gli ultimi tre anni li ha trascorsi dentro un riformatorio per un tentativo di furto. Adesso si arrangia con il lavoro di parrucchiere, tirando al massimo il suo sogno di diventare una star della musica. Ed è per questo che ha già formato un trio, insieme al pianista Jimmy Johnson e al batterista Eddy Harding, e si esibisce stabilmente al Cosmopolitan Club di St Louis. È uno ambizioso, Chuck, scrive canzoni e suona la chitarra con impeto e bravura rifacendosi allo stile di T-Bone Walker e Carl Hogan, un musicista, quest’ultimo, sconosciuto al grande pubblico, ma che influenzerà il riff tagliente e nitido di tutti i suoi futuri successi.
Ci sono cose che se ne stanno come prigioniere in quei seminterrati umidi e senza luce. Le sale da biliardo, i negozi di dischi usati, la bottega del barbiere, i motel abbandonati, i vecchi treni. La corriera sgangherata, certi orizzonti. Delle bottiglie vuote, una ricevuta ingiallita, un auto scarburata. La mia stanzetta, roulotte, calendari e memorie. Della moquette unta. Pistole a tamburo, il deserto, piani verticali, le colonnine della Shell, la camminata epica di Gary Cooper, Nighthawks At The Diner. Una cosa tira l’altra. Scarabocchi e tatuaggi, sassofoni e clarinetti. Le brune con gli occhi di Maybellene. Gli spartiti di Hank Williams. Parole e sogni. La nostalgia è davvero una brutta bestia. Ma è una speranza per questa storia. Titoli di coda. Un emozione non si può spartire con nessuno. È solo tua. Ci sono posti che oggi mi appaiono ancora più solitari e tristi, che mi sento davvero sperduto a percorrerli da solo. Ma quei luoghi sono un pezzo della mia identità. Distruggiamo tutto noi uomini, le cose buone e quelle cattive. Mi sedetti a terra con la schiena piegata e provai un immensa cattiveria verso il mondo. Conviene sempre guardarsi alle spalle, anche quando ci si crede al sicuro.
Giù in fondo giri l’angolo diretto al bar, entri infili la moneta nella fessura. Hai bisogno di sentire qualcosa di davvero forte. Con quella che ami stai filando è tutto il giorno che hai voglia di ballare. E ti sei sentito dentro la musica da capo a piedi. E balli, balli balli. Viva, viva il rock’n’roll. La batteria è forte e violenta Viva il rock’n’roll. (School Days -Chuck Berry)
Il punk diede un calcio nel culo a tutti quei gruppi inglesi che imperversavano durante gli anni settanta. Genesis, Emerson, Lake & Palmer, Yes, Gentle Giant, Camel. Suonavano suite lunghe e alle volte anche noiose, costruite con arrangiamenti spesso eccessivi e dai toni celebrativi. Musica borghese, per figli di papà, con la puzza sotto il naso, che si potevano permettere lo stereo milionario e frequentare il circolo del tennis e della vela. Mica dei Jesse James qualunque, che si strascicavano sulle strade squattrinate del blues. Ma quando il cielo si fece troppo scuro e il buio scese di colpo, il rock cercò giustizia. Spuntarono, come funghi dopo la pioggia, giovani gruppi formati da disadattati, che provenivano dai sobborghi, con i capelli a cresta di gallo, gli anfibi e i jeans strappati. Tornavano alle radici, al quel suono di Chuck, quei ragazzi, anche se suonavano velocissimi, incazzati e duri come i Ramones. E fu di nuovo Rock’n’Roll, della migliore specie, illegale. Chiuso nella mia stanzetta, agitato come un pazzo, guardando una copertina dei Clash un pomeriggio da cani, feci in mille pezzi la mia chitarra acustica, eseguendo il passo dell’anatra. Dopo, però, ero sotto shock e mi venne da piangere, perché non me ne potevo comprare un’altra.
Chuck aprì la birra e la schiuma schizzò da tutte le parti, il motore urlava. Si asciugò il viso con la manica della camicia e partì, dirigendosi a est fuori città, verso un locale nascosto e solitario. Chicago nel 1950 era la città della musica. Il blues tradizionale del Delta era stato accantonato per fare spazio ad un suono elettrico, più danzabile e fruibile al pubblico dei bianchi. I fratelli Chess, degli immigrati polacchi, con la loro casa discografica erano diventati i nuovi profeti per quel popolo in cerca di riscatto. “Maybelenne” nel 1955 va in cima alle classifiche vendendo più di un milione di copie, eppure Chuck Berry pensava che “Wee Wee Hours” era migliore di quel country and western. Avevo imboccato una strada trafficata, e all’interno dell’auto rimbombava la musica degli Hoodoo Gurus che, grazie alle loro graffianti canzoni pop, era come ascoltare i Beatles che suonavano finalmente del sano, sporco e selvaggio rock’n’roll. Ognuno gode attaccato alle canzoni che più lo fanno vibrare fin dentro l’anima. Quella sera il cielo era strascicato di rosso. Guidai per ore che sembravo quasi una statua, e rallentai solo davanti ad un insegna di un locale. Qualcuno uscì, gli gettai un’occhiata veloce e prosegui oltre. Che cosa ci facevo lì? Spaventato, smarrito, straniero, ma vivo. Accesi una sigaretta, e la fiamma dell’accendino illuminò l’abitacolo. Mi mancava qualcosa. La musica. Accesi la radio e ricominciò la danza. Ragazze e automobili erano le fissazione di Chuck e fu con quegli argomenti che folgorò il pubblico dei teenager bianchi.
C’è rock genuino giù a Boston. Tutti che vogliono ballare con la dolce piccola sedicenne. Deve avere più o meno mezzo milione di autografi, ha una borsetta piena di foto. Non vedi che non sta nelle pelle… Oh mamma mamma, ti prego posso andare? E’ tutto così fantastico veder un cantante far furore. (Sweet Little Sixteen)
La radio suonava Satisfaction dei Rolling Stones. Ogni cosa è stata fatta e forse tutto è già stato scoperto. Ma quando ti avventuri nuovamente su quelle strade percorse dal vento e dalla solitudine, è come se ogni cosa dovesse accadere un'altra volta. E la replica, alle volte, può sembrare una prima. Anche se lo stupore, quello che ti ha lasciato confuso e senza fiato, quando sentisti per la prima volta i Kinks, gli Animals, gli Stones, Hendrix, i Sex Pistols, le New York Dolls, beh! quello non torna più’, tranne che uno non si metta a recitare con se stesso. Chuck Berry arrivò nelle Top Ten degli anni cinquanta con “Rock’n’ Roll Music”, “Sweet Little Sixteen”, e “Johnny B.Goode”, brani che lo confermarono tra i più grandi songwriters rock. Aveva pubblicato poco tempo prima, ma senza troppo successo, anche “Too Much Monkey Business”, ”No Money Down” “Thirty Days” e “School Days”. Tutte canzoni che fanno parte di quel libretto d’istruzioni per una perfetta sintesi di stili a cui attingeranno una miriade di gruppi rock dagli anni sessanta in poi. Il sabato sera, il cinema all’aperto, il sesso incompleto. Chuck riesce a scrivere di quello che turba un ragazzino ed è qui la sua grandezza, perché è in questo modo che il rock diventa un fenomeno di massa.
Nella notte una miriade di insetti si stava suicidando spiaccicandosi sul lunotto della macchina, mentre la luna si trasformava lentamente in un cane randagio. I primi uomini usarono il linguaggio dei segni per comunicare, il rock’n’roll ha usato codici e parole semplici. Coca Cola, piste da ballo, autostrade a due corsie, chitarre Stratocaster, birra Burgermeister, bulli da città, fighe e culi, le macchine Ford, e le GMC, i figli di puttana, i taxi gialli e i vetri bagnati dalla pioggia. Camionisti e paghe scarse, la noia, biliardi e boccette, organi Wurlitzer, barattoli e scatoline, Carl Perkins, Fats Domino, melodia e rumore. Cosa c’è sotto questa luna? Mi sentivo un po’ confuso, quando il tambureggiare della pioggia si trasformò in un ticchettio. I brani di Berry saranno sempre superati nelle hit parade da quelli di Elvis, Pat Boone, Ricky Nelson, Fabian, tutti giovani bianchi di bell’aspetto molto più commerciali di uno con la faccia nera e ruvida.
Avevo messo il cd dei “Basement Tapes”, un disco di Dylan che suona insieme alla Band, e i chilometri e la stanchezza, adesso, mi potevano fare solo un baffo. Con quella musica sarei potuto arrivare dall’altra parte del mondo, dove forse avrei incontrato dei territori vergini da esplorare. Quelli che stanno cercando alcuni miei amici di viaggio, Evil, Massi, Ant, Vlad, Hyde, vagabondi dell’anima, che si aggirano silenziosi per l’etere. Amo il mio paese, ma non chi lo governa. Sono terrorizzato, perché è stato dato in mano con una serie di manovre ad un babbeo, pericoloso per il futuro della mia gente, tutta. E balli balli, Viva Viva il rock’n’roll. Te lo ricordi dai vecchi tempi rock, rock, rock and roll. (School Days -Chuck Berry). Alan Freed era un disc-jockey, ed anche lui è stato uno dei tanti furbi che ha approfittato del potere di una trasmissione che teneva alla radio nel 1955 per prendersi i crediti di avere inventato la parola rock’n’roll. Di certo ha fatto ridere a crepapelle Fats Domino, che la usava già nel 1947. Programmò a manetta anche “Maybellene”, il pezzo di Chuck, in cambio che il suo nome figurasse come co-autore.
Ci sono molte serpi sparse per il mondo, che non sempre hanno le sembianze animali. Nei miei sogni la giustizia non è fatta per proteggere i ricchi, ma le persone perbene. Però, la mia speranza si trasforma in disperazione a guardare come vanno le cose. Di chi puoi fidarti?, mi chiesi, intanto che la strada si inerpicava su un ponte vertiginoso. Ero sempre pieno di dubbi, sembravo un sopravvissuto ad una catastrofe cosmica. Che cazzo era successo a questo mondo per diventare in questo modo. Multinazionali che comandano milioni di persone, e possono fare ciò che vogliono della loro vita. Chi ha dato questo potere a questi sciacalli assassini?. Chi si è permesso di affamare la Grecia, di ridurre in miseria i popoli africani? Chi sta spingendo affinché l’Italia diventi un serbatoio di lavoro al pari della Cina? Perché è sempre l’uomo qualunque a dover pagare il prezzo più alto? Il vento modella le rocce, e la natura ostinatamente si riprende sempre quello che è suo. La dovrebbero imparare anche gli uomini, questa verità.
Bisogna spingersi più in là, è giunta l’ora dei cambiamenti, e di graffiare il mondo con la propria esistenza. Non possiamo più galleggiare in fondo all’emozioni, dobbiamo riacciuffare ciò che è nostro anche con un semplice gesto, un piccolo sguardo. Bisogna arrivare sotto la superficie levigata delle cose, per ricordarci chi siamo e che stiamo attraversando tutti insieme questa sporca strada. Guidavo in uno stato di semincoscienza con il finestrino aperto e me ne andavo non so neanche io dove, su quella polverosa strada secondaria. E la cosa non è che m’importasse più di tanto. Sapevo che alla fine avrei cambiato anche quella melodia, per quella canzone che stavo finalmente scrivendo. Mentre della polvere mi imbiancava il viso, forse stavo tornando a casa e la stanchezza era finita chissà dove. Eppure, mi sembrava di stare fermo su quella strada. E allora ripresi sommessamente a cantare quella vecchia canzone, proprio quando ero vicino ad uno scalo ferroviario. Viva Viva il rock’n’roll. Te lo ricordi dai vecchi tempi Rock, Rock, Rock And Roll.
Bartolo Federico