La notte come una vecchia baldracca era uscita traballante dal suo nascondiglio segreto, occupando qualunque cosa. Non avevo molto da fare, perciò me ne stavo seduto nel buio della mia auto fumando e guardando la città. Tutto s’aggiusta nella vita, me lo ripeteva sempre mio padre. Ma adesso non ero più così sicuro di questo. Mi sentivo stanco di gironzolare, di camminare, e non trovare mai niente che mi somigliasse un po’. Accesi la radio per riascoltare un'altra volta Words From The Front un vecchio disco di Tom Verlaine. La chitarra tagliente di Postcard From Waterloo, non fece fatica a conficcarsi proprio dove c’era freddo e silenzio. Nonostante la musica sentì ugualmente dei passi che salivano dal marciapiede, poi pian piano s’affievolirono. E’ sempre meglio non farsi illusioni, serve a non perdere quel poco d’anima che è rimasta rintanata dentro di noi. La vita prima o poi si riprende tutto senza sconti. E' così quella brutta smorfia che nascondiamo viene fuori, e si mette in bella mostra sul nostro viso, insieme ai nostri fallimenti, le nostre angosce, che solo a guardarci allo specchio diventa una fatica assurda. Days On The Mountain toccò spietatamente alcuni punti deboli rimasti scoperti, e mi obbligò a stoppare i pensieri. Una macchina con più persone a bordo per qualche istante si accostò accanto alla mia. Erano quasi le undici e trenta e mi parve che la musica si muovesse inquieta, sotto quell’illusorio gioco di luci che la strada offriva a sua insaputa.
Da giovane con i miei genitori e mia sorella, abitavo in una casa in affitto, vicino allo scalo merci. Dalla mia finestra potevo sentire a qualunque ora del giorno i locomotori dei treni che aspettavano il carico, per poi scivolare sulle rotaie. Nella città in cui vivevo, non accadevano molte cose. Era triste e noioso quel posto, fatto di vecchi fabbricati anneriti dal fumo dell’acciaieria. La maggior parte degli abitanti ci lavoravano come operai, compreso mio padre. E tutti erano iscritti al sindacato. Ma allora le cose sembravano che funzionassero tanto che avevamo comprato il televisore, e la lavatrice, è il frigo era quasi sempre pieno. Ma non tenere gli occhi aperti e vigili, a quegli operai era costato caro. Poi girarsi di spalle mentre lavoravano duramente, li aveva belli e fottuti. Lentamente giorno per giorno invece di difendere i loro diritti quei ciarlatani di sindacalisti, avevano svenduto le loro tutele. Fin quando la proprietà li aveva licenziati in blocco. In quattro e quattr’otto avevano smantellato i macchinari, ed erano andati a produrre da un’altra parte. La mattanza sociale sarebbe continuata sulla pelle di altri uomini, di altre famiglie. La città in breve tempo si svuotò, tanto da sembrare un deserto. Prima che finissero i soldi della liquidazione di mio padre, andammo via anche noi.
Tutti i lavoratori di questo paese viaggiano su questo treno dei braccianti e dei lavoratori. Ci sono magazzinieri, camionisti, e ragazzi che guidano le ruspe. Uomini che lavorano nelle acciaierie, nelle fornaci e nelle miniere. Attraverso le fabbriche fumose della città, sulle pianure infuocate di polvere. E gli scompartimenti sono tutti affollati su questo treno dei braccianti e dei lavoratori .( The Farmer- Labor Train- Woody Guthrie)
C’ero cresciuto in quel bar che puzzava di acqua di colonia e sigarette. Era l’unico posto della città dove potevi farti una partita a biliardo, e bere qualche birra. L’interno era gradevole, e gli uomini alla sera bevevano con il mento all’insù. Bruno il proprietario era un ex marinaio, a cui piaceva andare in fondo alle cose. Un tipo stravagante dall’aria sfacciata, che sapeva sempre come alzare il morale e la temperatura. Un appassionato di musica, che ogni sera ci apriva i cancelli del cielo. Fu mentre che la pioggia cadeva a rovesci sulla veranda del bar, che conobbi i Dr Feelgood. Una band operaia che suonava del rock blues, ad alta gradazione alcolica. Capace d’infuocare la notte in quei luoghi frequentati dal sottoproletariato urbano, da disperati, sbirri e malviventi. Musica diretta al cuore di chi non riusciva a pagare l’affitto, ed era vestita fuori moda. Lee Brilleux suonava l’armonica e cantava, Wilko Johnson chitarrista, era il suo degno compare. Tipi tosti provenienti dai sobborghi londinesi, che fecero da ponte per far traslocare il rock anni settanta, alla rivoluzione punk. Sparavano cannonate dal palco rollando e fumando le cover di Chuck Berry, Elmore James, e Sonny Boy Williamson. Erano dei selvaggi maledetti, e ogni loro esibizione si chiudeva in una rissa. Anche quando incisero nel 1976 il live Stupidity finì sen’altro così. C’è un senso di libertà e vita in queste canzoni, c’è il rumore del vento dentro le armoniche, e le chitarre suonano sincere. Nella mia angoscia c'era qualcosa che assomigliava a un sentimento.
Don't Point Your Finger è uno dei tanti dischi nascosti negli sgabuzzini del rock. Un figlio bastardo forse anche minore dei Feelgood, una corrente d’aria fresca. Lo pubblicarono nel 1981 i Nine Below Zero, un gruppo che andò in tour con i Kinks, e gli Who, che suonava con grinta e convinzione musica blues e rock’n’roll. Il disco fu prodotto da Glyn Johns uno che ha lavorato con Stones, Who, Faces, Zeppelin, Dylan, J.Hiatt, e tantissimi altri ancora. Mantiene inalterata ancora oggi la sua carica vibrante e tremolante. E anche quello stupido orgoglio che ti faceva sentire di una specie superiore. Scaraventato nella notte riuscivi ugualmente a vedere la luce del sole. Nel cielo azzurro. Non come adesso, che sono precipitato nel gradino più basso delle ombre.
Don't Point Your Finger è uno dei tanti dischi nascosti negli sgabuzzini del rock. Un figlio bastardo forse anche minore dei Feelgood, una corrente d’aria fresca. Lo pubblicarono nel 1981 i Nine Below Zero, un gruppo che andò in tour con i Kinks, e gli Who, che suonava con grinta e convinzione musica blues e rock’n’roll. Il disco fu prodotto da Glyn Johns uno che ha lavorato con Stones, Who, Faces, Zeppelin, Dylan, J.Hiatt, e tantissimi altri ancora. Mantiene inalterata ancora oggi la sua carica vibrante e tremolante. E anche quello stupido orgoglio che ti faceva sentire di una specie superiore. Scaraventato nella notte riuscivi ugualmente a vedere la luce del sole. Nel cielo azzurro. Non come adesso, che sono precipitato nel gradino più basso delle ombre.
Seduto dentro la macchina tenevo il braccio fuori dal finestrino. Lo tenni tanto al freddo, che ad un certo punto sentì dei brividi percorrermi la schiena. Dal lunotto posteriore vedevo la strada piena di luci, e l’insegna del motel per cuori infranti. Pensai al mio vecchio amico Sal, un uomo fidato, ormai sparito nel buio. Ci piaceva guardare i treni, e ce ne stavamo distesi sull’erba ascoltando il loro suono. Uuu, Uuu. Da ragazzo era stato il mio unico vero amico. Avevamo condiviso un mucchio di cose. Quel segnale lo stavo sentendo nuovamente nella mia testa, e sono certo che in qualche modo me lo aveva mandato lui. Uuu, Uuu. Nell’ombra sussultano mille cose, il cuore prende a battere forte, e tutte le idee che ti frullano si sparpagliano nel cielo. Tra le stelle.
Ero intossicato dal tempo che passa e ti divora. Ma le cose non erano mai cambiate. Avevo fatto un sacco di lavori sottopagati, e anche non pagati. Forse mi mancava il coraggio di andarmene da qualche altra parte. Ma stanotte non riuscivo in alcun modo a tenere gli occhi aperti, anzi mi faceva quasi piacere tenerli chiusi. Era il momento giusto per lasciare che Five di J.J.Cale mi prendesse con se. Socchiusi la porta del cuore e lo lasciai entrare, con quel suo twang morbido, increspato, roco e sussurrato. Un miscuglio di generi, un rimescolamento che ti fa sussultare, esitare, gemere. Come la vita. Mi avrebbe aiutato ne sono certo, a tenere insieme i miei brandelli.
Bartolo Federico
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