venerdì 30 ottobre 2015

Un Ombra Omicida(il duca delle prugne)



La faccenda cominciava a puzzare. Un conto in banca prima di tutto! Ma questa è musica diabolica, che ti raggrinza la faccia, ti scartabella, poi ti prende e ti palpeggia, il naso, le orecchie, il muscolo del cuore. Poi ti piega, e affonda le sue mani. Ti annusa. Una gioia infinita.Un infame trappola. La notte resta in agguato, con la sua ombra omicida. Gente sperduta, aggressiva, con l'angoscia nel cuore. A tutto c'è una spiegazione. Ha fatto quel che bisognava fare Frank. SISSIGNORE. Lui ha raggiunto i suoi scopi. E voi? E voi? Domani ve lo dico, di questo pezzo di carogna. INDISPENSABILE! ANDATE AVANTI SE NON CAPITE... beh vi farò un segno, e tornerò tra cinque minuti. Però se potete, andate a vedere con i vostri occhi, e ASCOLTATE con le vostre orecchie. AH è proprio un bel regalo dopo quarant'anni, Over-Nite Sensation. La nostra rovina è la presunzione.





domenica 18 ottobre 2015

La Terra Degli Uccelli

Il mio cuore è nella strada. Sono sempre stato a mio agio in quello spazio infinito. È il mio rifugio segreto, la strada. Chissà se quei cani randagi che ho conosciuto, sono arrivati dove speravano? Oppure sono tornati desolatamente indietro? La radio nella mia stanza era un ferrovecchio, ma sputava musica ininterrottamente dalla mezzanotte alle sei del mattino, ed era spesso grande musica. Nel silenzio più assoluto, mi arrivavano le emozioni più grandi che avessi mai provato. Me le ricordo ancora quelle ore nel cuore della notte, sdraiato sul mio letto. Era come se ci facessi l’amore con la musica. Era la mia amica speciale. Fu in quel tempo che compresi, che camminavo sul lato dei pazzi, dei dimenticati, e d’inguaribili sognatori. Mi fu chiaro che non sarei mai diventato un avvocato, un dottore, un politico, e neanche un commercialista. La musica aveva roso la mia anima, accomodandosi in quelle profondità, dove nessuno potrà mai arrivare. Cambiandomi per sempre. Delle ombre  a forma di palla mi fanno compagnia, ma rimango a fissare il nulla con un occhio aperto e l’altro semichiuso. Il suono di quella melodia sembra svanire, ma poi ritorna come un soffio spinto dal vento.

Radio Caroline è stata la prima radio pirata. Trasmetteva al largo delle coste Essex, a sud est dell’Inghilterra. Il 28 marzo del 1964 Chris Moore e Simon Dee, annunciarono l’inizio delle trasmissioni sul canale 199. La prima canzone che venne mandata in onda fu “Not Fade Away” dei Rolling Stones.


Patti Smith durante gli anni sessanta, ascoltava musica attraverso le radio Fm che trasmettevano Wilson Pickett, James Brown, Smokey Robinson, Otis Redding. Ma come lei stessa ha raccontato, furono i Rolling Stones la sua più grande influenza musicale, per il fatto che Mick Jagger riuscisse a muoversi sul palco come se fosse un nero. Questo la colpirà profondamente, tanto che la reazione che ebbe di fronte alla tv guardandoli per la prima volta, fu quella di bagnarsi le mutandine. Poi anche Little Richard, Elvis, Chuck Berry, sono stati suoi punti di riferimento, con Jimi Hendrix e Jim Morrison. Nell’estate del 1970 i Velvet Underground, si esibirono per l’ultima volta al Max’s Kansas City un locale di New York, e Patti Smith era tra il pubblico ad assorbire energia. In quel periodo nella grande mela, si mettevano in bella mostra anche due band provenienti da Detroit. Due complessi che si muovevano sui sentieri della passione e dell’azzardo, mescolando la musica alla vita, suonavano un rock violento e trasgressivo, antagonista al potere. Patti Smith non sfuggì al fascino animalesco ed eccitante degli MC5 e dei dissacranti Stooges di Iggy Pop. La loro musica libera, diretta e convulsa, insieme all’approccio selvaggio che avevano dal vivo, influenzeranno profondamente il suo linguaggio sonoro.

Cittadini sorgete! Sputate palline di carta contro il cielo! Il seme dl risveglio risveglio svegliatevi.(Patti Smith)


Conoscevo tutti i passaggi, i respiri, le pause di “Absolute Live” dei The Doors. Un doppio live pubblicato nel 1970 che conteneva una serie di concerti, che il gruppo aveva tenuto in giro per gli States, fra l’agosto del 1969 e giugno del 1970 Quel disco si prendeva cura di me, nel freddo e nel buio. Era come se mi sedessi sul lettino dell’analista. Riusciva a fare uscire il buono e il cattivo, che covavo dentro. Almeno fin quando mia madre non entrava nella stanza sbraitando, perché assordata e stravolta, da quella musica suonata a tutto volume. Gli anni sessanta, la California, i figli dei fiori. Un volantino dell’esistenza emancipata. Collanine e bracciali. L’allargamento della coscienza, attraverso l’uso di acidi lisergici. La meditazione. Le filosofie orientali. La sperimentazione. La sessualità, e la trasgressione. Un bisogno di liberazione.

Se si pulissero le porte della percezione, ogni cosa apparirebbe come essa  veramente è infinita. Poiché l’uomo s’è da se stesso rinchiuso, fino a non vedere le cose che attraverso alle strette fenditure della sua caverna.(William Blake-Visioni)

Per qualcuno Jim Morrison era uno sbruffone, un ubriacone e drogato. Un pagliaccio illusionista. La loro musica da ridimensionare. Per me era un sogno. Una spina nel fianco al sistema, una provocazione continua. Un’immaginazione reale. Un sicario delle buone maniere. Si spingeva oltre il muro. Dall’altra parte del mondo. Adesso che sono sveglio, lo capisco meglio che il suo delirio mi teneva vivo, come non mai. Perché quando sei debole ti lasciano solo, e tutto va a rotoli. Un concerto dei Doors era una cerimonia pubblica, un atto sociale, un’azione reale. Arte e vita, tutto messo insieme. “Do You Feel Alright” urla Jim dentro il microfono. La gente gli risponde con gridi d’eccitazione. “Who Do You Love “ parte con i suoi ritmi primitivi. Musica scarna ed emotiva, avvolgente e lirica, spesso anche improvvisata. Visioni e poesia, questo fu il rock dei Doors. Nient’altro. Patti Smith in uno dei suoi tanti viaggi fatti in Francia, si recò al cimitero parigino dov’è sepolto Morrison. S’immaginava di trovarci energia, ma su quella tomba non c’era altro che sporcizia e fango.

Io sono il Re Lucertola. I miei poteri non hanno limiti. (No To Touch The Earth)

Alla fine del 1976 Radio Ethiopia, esce corredato da una bellissima copertina rigorosamente in bianco e nero. Un disco che è l’evoluzione di Horses. Perché solo adesso il gruppo ha un’anima, ed è un vero ensemble. “ L’unità è la nostra droga” disse Patti Smith. La musica esce allo scoperto libera, fluida, e si fa linguaggio di strada, nell’interpretare i sogni e le speranze, di quella nuova generazione di ribelli che scalpitano per le strade di Londra.  Una discesa nell’abisso, il veicolo primario per trasmettere messaggi, introdurre idee, informazioni. Per questo all’interno del disco, si trova una serie di consigli dati dalla stessa Smith, per usare la musica. Radio Ethiopia corre libera per le strade, bruciando parole di fuoco, e parla una sola lingua universale. Radio Ethiopia non ha strutture rigide e trasmette rock’n’roll. L’unica alternativa al silenzio delle coscienze. Radio Ethiopia v’invia messaggi di rivolta. Ma oltre alle parole in questo disco, c’è la disubbidienza musicale di Metal Music Machine, il doppio album di Lou Reed. E’ difatti il suo sperimentalismo sonoro a guidare in R.E./Abissinia, (dedicata tra l’altro allo scultore Costantin Brancusi, e al poeta Arthur Rimbaud) il Patti Smith Group nell’esplorazione di nuove strade musicali, usando la chitarra Fender duo-sonic. La stessa usata da Jimi Hendrix. 

Il 18 settembre del 1970 all’età di ventisette anni, muore Jimi Hendrix. La sua fine è stata orribile. Jimi è morto soffocato dal suo vomito, fra le braccia della sua ultima ragazza. Alla notizia le radio interruppero le trasmissioni e dedicarono ben tre giorni alla sua commemorazione, in un estremo doloroso saluto.

John Sinclair era un poeta, scrittore, critico, musicista, amico di molti personaggi della Beat Generation. Un rivoluzionario. Fu lui che aiutò i MC5 a diventare il gruppo di punta della rivolta giovanile americana, alla fine degli anni sessanta. Le esibizioni dei Five erano una vera provocazione alla morale, e all’ordine costituito. Come quelle degli Stooges, loro illustri concittadini. Un gruppo legato all’impegno sociale i Five, dal suono duro e animalesco. La band aveva fatto suo il motto di Jerry Rubin un altro sovversivo, (con Abbie Hoffman andrà a turbare il sogno di pace, amore e libertà, di Woodstock) che recitava di non fidarsi di nessuno che avesse più di 30 anni. A Detroit loro città natale, questa regola fu messa in pratica rigidamente. Ai loro concerti non si entrava in nessun modo, se avevi più di trent’anni. I Five si erano tirati dentro i disillusi del sogno americano, vecchi beat, pantere nere, pacifisti, movimenti studenteschi, filosofi delle droghe, musicisti alternativi. Li avevano coinvolti tutti quanti, nella loro dura lotta al potere. Persino Allen Ginsberg era un loro fan. Il loro primo album il live Kick Out The Jams, uscito nel 1968, vi darà solo un’idea di quello che erano capaci questi musicisti. Una prova che a dispetto del tempo che passa resta integra è forte. Rock’n’roll selvaggio per l’anima e il corpo. Per chi ancora crede che ci sia la possibilità, di avere una vita diversa. Senza idoli confezionati, pronti  da consumare. Musica schietta, libera, suonata con profonda emozione. Per una nuova rivoluzione.


Il rock’n’roll mi aveva cambiato la vita, ma anche creato un mucchio di problemi, con il mondo esterno. Mi sentivo a disagio a stare con gli altri, perché il più delle volte le cose che interessavano ai più, a me non dicevano nulla. Me ne restavo ai margini, solitario e sperduto. Alzai un muro di protezione, con quella società che ritenevo estranea. Un muro che è stato difficile da buttare giù. I miei genitori dopo un po’, iniziarono seriamente a impensierirsi per la mia salute mentale. Mi ero chiuso nel  silenzio, e passavo il mio tempo, dentro la mia stanzetta ad ascoltare musica. Forse lo avevo preso troppo sul serio il rock. Accidenti! Ma la cosa non m’importava, perché là fuori sembrava non esistere, era come un luogo deserto. Non c’era nulla che m'incuriosisse.

King Curtis uno dei sassofonisti negri più noti, è morto il 13 ottobre del 1971. Ucciso da un certo Juan Montanez a colpi di pistola.


La musica degli Stooges incarnava la paura, l’angoscia esistenziale, l’odio contro la borghesia, e la vita facile di tanti teenager bianchi. Era una musica forte sfrontata suonata su quei tre accordi, che hanno fatto grande il rock’n’roll. Un suono brutale, un urlo demoniaco, psicotico, lacerante, nel buio della notte. Iggy Pop il cantante della band era un vero figlio di puttana, un talento naturale, che a diciotto anni se n’era andato da casa per vagabondare in quei luoghi dove si suonava il blues più scellerato. Un ragazzo che durante le esibizioni dal vivo aggrediva il pubblico ruzzolandosi tra la gente, agitandosi, denudandosi, bestemmiando e sputando. A fargli da spalla i fratelli Ashenton, Ron alla chitarra, Scott alla batteria e Dave Alexander al basso. Il concerto che tennero a Cincinnati nel 1970 passò alla storia. Iggy Pop continuava a sbattersi il microfono dentro la bocca sanguinante, poi si lanciò tra la gente che lo aspettava con le braccia alzate. A torso nudo, le gambe fasciate dai pantaloni di cuoio nero, e il dito puntato contro un bersaglio astratto, muoveva veloce la lingua insanguinata. Vero puro rock’n’roll, suonato senza compromessi. Un suicidio live che scandalizzava chiunque, e che ha quasi ucciso Iggy. Il loro primo disco “The Stooges” e del 1969 e fu inciso in solo quattro giorni, con la produzione di John Cale. Fun House invece è del 1970. Nel gruppo fece la sua comparsa, il sax lacerante e nervoso di Steven Mackay Un disco accecante di rabbia, e di energia. Un suono implacabile, sostenuto dalla voce rauca di Iggy, a segnare una delle pagine più belle che il rock’n’roll ci ha regalato. Basta ascoltare L.A.Blues il brano che chiude il disco, per capire fin dove gli Stooges si erano spinti. Cinque minuti di puro inferno sonoro, con il sax isterico di Mackay che attraversa i territori del free jazz, inseguito da riff micidiali di chitarra, mentre Iggy continua a urlare. Un’esperienza devastante. La droga, la follia, la rabbia, rese la musica degli Stooges, oscura e ipnotica. Il tempo di un altro disco con la produzione di David Bowie, è il sogno se ne va a catafascio.  Braccato da quella nuvola nera che lo stava distruggendo, Iggy decide di sparire. Poi lentamente risalirà la china.

Nel 1971 Gene Vincent uno dei più grandi e leggendari interpreti del rock’n’roll anni ’50, muore per cause imprecisate.

Certo. Per qualche tempo ho pensato di avere preso la strada sbagliata. Ma arrivato al bivio non ho fatto nulla per tornare indietro. Quando ero giovane riuscivo a capire molto meglio le cose. Anzi pensavo che avrei cambiato il loro corso, se solo lo avessi voluto. Non è andata così. Avrei voluto guardarmi allo specchio, e non vedere qualcun altro. Mi sono tolto la giacca e ho lasciato vagare i miei pensieri su altre cose. Dopo ho acceso la radio. Il rock’n’roll mi ha svegliato. Mi ha guarito. Mi ha protetto. Ho guardato su nel cielo nella terra degli uccelli, ed ho visto delle piccole stelle brillare. I miei eroi sono i nati perdenti, e il mio cuore è nella strada.

Bartolo Federico


Al mio amico Giovanni (detto Evil) e anche a Massi

giovedì 15 ottobre 2015

Il Pianto Di Frankie

I Modern Lovers capitanati da un giovanissimo Jonathan Richman, erano quattro fanatici ammiratori dei Velvet Underground e del rock anni 50. Il loro primo disco The Modern Lovers registrato nel 1973 e prodotto da John Cale, (che nel 1975 produrrà anche Horses di Patti Smith) vide la luce nel 1976, con etichetta “Home of the Hits. Era di colore nero con scritte blu. Roadrunner, era la prima canzone del disco, e suonava senza tregua nel juke-box della boutique di Malcolm McLaren. Fu adottata dal gruppo dei Sex Pistols, prima che il loro "Never Mind The Bollocks" con il suo fragore, scompigliasse il mondo del rock. Si sa che la giovinezza è un lusso, è quando si è turbolenti e colmi di talento come quei ragazzi, può capitare di tutto. Col senno del poi, converrebbe a tutti noi, giocarselo meglio quel tratto di vita. Nel 1974 i Modern Lovers non esistevano più, si erano già sciolti come neve al sole. Per i soliti motivi per cui litiga una rock’n’roll band. Così quando nel 1976 quel vinile arrivò nei negozi di dischi, tutti gli elementi della band erano già impegnati su nuove strade, con altri sogni sotto il cappello. Jerry Harrison, si era trasferito nei Talking Heads, David Robinson, aveva formato i Cars, Ernie Brooks sbarcava il lunario suonando nelle band di David Johansen ed Elliott Murphy. Nel 1973 Jonathan Richman e i suoi amici, giocando a fare le stelle, scivolarono e svanirono per sempre nel dimenticatoio. Ma quando si è giovani si è troppo distratti, ingenui, e coglioni. E non si sa che le cose possono cambiare bruscamente, in modo repentino e irrecuperabile. In quel periodo se accendevi la radio e giravi la manopola, potevi sentire gente come i Doors, gli Stones, Hendrix, The Who , Stooges, New York Dools, Lou Reed. Poesia e rock messi insieme. Tutti vogliono aver successo con la propria arte. Pure i Moden Lovers che suonavano canzoni torbide, anfetaminiche, spiazzanti e convulse, e che ruotavano alle volte anche su un solo assillante accordo, cercavano la popolarità. Ma con canzoni che ti fanno barcollare e cadere verso l’ignoto, avvolte dentro atmosfere noir, e che tinteggiano la mediocrità della vita, non si va tanto lontano. Infatti fu per via di quel suono rudimentale, disadorno e indolente, che negli anni a venire Jonathan Richman e i Modern Lovers diventano fonte d’ispirazione per una miriade di band quasi sconosciute, che attraverseranno i sotterranei del rock. Dalle Violent Femmes, ai Feelies, passando per i Minutemen, Pavement, Sonic Youth, Died Pretty, Jazz Butcher, Sebadoh, Gang Of Four, Pere Ubu, e altri ancora. A Jonathan Richman che ha anche un’interessante carriera solista che non conosce quasi nessuno, tutti loro devono qualcosa. Se non altro perché questo ragazzo si è sempre rifiutato di fare parte di quel sistema usa e getta, caro all’industria discografica. Troppo duro e puro, per diventare un mostro di cartapesta da adorare.


Well now Roadrunner, roadrunner. Going faster miles an hour. Gonna drive to the stop 'n' Shop With the radio on at night. And me in love with modern moonlight. Me in love with modern rock & roll. Modern girls and modern rock & roll. Don't feel so alone, got the radio on. Like the roadrunner. O.K. now you sing Modern Lovers.(Roadrunner)

L’abitazione era situata in periferia a nord della città. Una casa piccola e assai modesta, che i suoi genitori avevano comprato con grandissimi sacrifici. Il giorno del suo quattordicesimo compleanno, il padre firmò il contratto. E per la prima volta in vita sua delle cambiali che non lo fecero più dormire la notte. Anche se le finestre e le facciate degli edifici limitrofi erano ancora tutti da dipingere, e fuori dai terrazzini c’erano appesi piccoli stracci pendenti, camicie stinte, pantaloni fuori moda, lenzuola, tovaglie da tavola, e bavette per bambini. Quella fu una vera e propria svolta per la sua vita. Nessuno poteva mandarlo via da quella casa. Com’era successo altre volte. Un edificio abitato da gente comune, dalla vita anonima. Quando salivi le scale del palazzo potevi sentire l’odore del cibo spandersi nei pianerottoli, le grida dei bambini, e le urla disperate delle loro mamme. Un trambusto continuo a qualsiasi ora del giorno. Adesso era l’una di notte e le luci nelle case del quartiere erano spente. Avvolto dalla penombra un cane bianco gli passò accanto fiutandolo. Dietro di lui c’era un tizio che camminava con le mani in tasca e indossava un cappotto grigio scuro, di almeno due taglie più grandi. Il cane si fermò e aspettò che il padrone lo raggiungesse. Molti suoi amici erano stati spazzati via per la fretta di vivere. Così restò guardingo fino a quando non imboccò il vialone che portava a casa. C’era gente che compiva atti violenti, solo per piacere. Aprì il portone e salendo le scale accese la luce dell’ammezzato. Spalancò la porta di casa e la debole luce che penetrava dalla finestra del saloncino, lo guidò fino in cucina. Dalla bottiglia sul tavolo bevve un sorso d’acqua, appoggiandoci il muso. Sempre senza accendere la luce andò in camera sua e si sdraiò sul letto. Si mise ad ascoltare in cuffia “I Wanna Sleep In Yours Arms”. Quando le cuffie cominciarono a dargli fastidio, se le tolse e rimase a scrutare il vuoto. Fuori dalla sua finestra vedeva solo un buco nero come il suo cuore. Dopo si alzò e andò nel bagno che dava sul corridoio. La sua esistenza era come se confinasse con il nulla. Senza volerlo, un giorno, era andato tutto a puttane.


Nell’anno 1976, Keith Relf cantante e fondatore del gruppo degli Yardbirds, è morto fulminato dalla corrente, mentre provava a casa sua una nuova chitarra elettrica. Tommy Bolin chitarrista che aveva sostituito Ritch Blackmore nei Deep Purple, moriva all’Hotel Newport di Miami in Florida, poco dopo un concerto. La causa è da addebitare a un cocktail di droghe e alcool. Aveva 25 anni.

Anche se ci sentiamo come un guscio silenzioso e vuoto, quello è il momento in cui bisogna parlare con l’anima. È l’anima non è responsabile di nulla. La musica serve per comunicare. Il rock’n’roll è nato per questo. Per fare incontrare tutti quei disadattati, che girano solitari per il mondo. È per loro che si è messo a nudo e ha manifestato la sua rabbia, la sua integrità, la sua passione, la sua fragilità. Il rock appartiene alla gente. È l’ancora di salvezza prima del possibile naufragio. Dobbiamo liberarci di tutte queste etichette che gli mettono sopra, e anche di certi pseudo musicisti, che si credono intelligenti e visionari. Squallidi figuri che servono solo per fare propaganda elettorale, al capetto di turno Anche certi blog politicamente corretti, vanno scansati. È pericoloso non meravigliarsi più di nulla. Dobbiamo continuare a fare resistenza. Non dargliela vinta in nessun modo. La musica è tutto quello che ci resta. La nostra energia vitale. Se non altro lei non ti giudica mai. Non è come quei quattro pagliacci televisivi, che girono il polso come fossimo al Colosseo. La musica deve continuare a viaggiare senza limiti e confini, infettarsi, mescolarsi, e ricordarci che chiunque può salire su un palco, se ha qualcosa da dire. Chiunque. Mentre il frigo rumoreggia, posso contare su quelle cose che ho conservato nella nebbia e nel silenzio di me stesso. Le ho custodite per quei momenti in cui non voglio essere visto da nessuno. I tempi cambiano, ma non sono sicuro neanche di questo. Patti Smith vide i Television esibirsi il 3 febbraio 1974 al Townhouse Theatre di New York, e definì quell’esperienza indimenticabile. Il loro disco d’esordio Marquee Moon del 1977 è un album introspettivo e inquieto. Un manifesto di quegli anni in cui la musica perlustrava altre strade, e nessuno cercava di soffocarla. Raccoglie dentro di se l’anima di quelli che sono fuggiti lungo tragitti secondari con il cuore pulsante, e le mani tremanti. Hanno un’aria matura queste canzoni, come se qualcosa di perfetto fosse sceso all’improvviso su questa terra. Qualcosa che è rimasta per sempre anche quando la luce si è spenta. Musica suonata per sottrazione ossuta ed efficace, come piace a me. Non ci sono fronzoli, assoli riempitivi, e pose da star. Qui la musica non si perde mai dentro se stessa. Avevo solo quattordici anni allora, oggi ne ho cinquantadue, e penso a quel tempo senza troppi rimpianti. Ma dischi così belli io non ne ho più sentito. Sto pensando troppo e sono così confuso cantava Jonathan Richman nel 1998, in un album prodotto da Rick Ocasek dei Cars. È proprio così che mi sento.


Siamo stati troppo accondiscendenti con questi imbecilli che tengono le redini del gioco. Ci siamo fatti infinocchiare dalle loro bugie, per poi sentirci soli di fronte alle nostre piccole verità. Tutti vogliono fare soldi con il rock’n’roll, potete crederci. Come una vecchia puttana lui batte ancora il tempo per il bisogno di sorprenderci, di fregarci, di salvarsi, e di andare contro qualsiasi discriminazione razziale, e sessuale. La musica deve rimanere libera di brancolare nel buio, di contorcersi, perdere l’equilibrio e cadere. Il rock deve continuare a sopravvivere. In un modo o nell’altro. Quando si svegliò la tivù era spenta. La luce fuori era ancora grigia, e la stanza silenziosa. Argo il suo cane lo vide muoversi e battendo la coda, si avvicinò leccandogli il viso. Lui si alzò con fatica e mise la caffettiera sul fuoco. Dopo accese lo stereo, e fece partire una canzone che gli era tornata in mente. Frankie Teardrops dei Suicide. Dalla finestra adesso entrava un pallidissimo sole.

Frankie lacrimevole
. Frankie ventenne.
 È sposato e ha un bambino.
E ha un lavoro in una fabbrica.

Lavora dalle sette alle cinque.
Lo fa per sopravvivere. 
Beh, bravo Frankie
 Frankie Frankie. 

Ma Frankie non ce la fa
, perché la situazione sta facendosi troppo dura.
 Frankie non riesce a fare abbastanza soldi.
 Non riesce a comprare abbastanza cibo.

 E Frankie sta per essere sfrattato. 
Oh, bravo Frankie
 Oh, Frankie, Frankie
 Oh, Frankie, Frankie

 Frankie è così disperato
. Sta per uccidere sua moglie e i suoi figli.
 Frankie sta per uccidere suo figlio.
 Frankie ha impugnato una pistola.

 L'ha puntata verso  il bambino di sei mesi nella culla.
Oh Frankie
(urla)
 Frankie sta guardando sua moglie

. Le ha sparato
(urla)
 "Oh cosa ho fatto? "
Bravo Frankie

 Frankie lacrimevole.
 Frankie si è puntato la pistola alla testa.
(urla)
.Frankie è morto

.(urla)

.Frankie giace all'inferno.
(urla)

.  Siamo tutti Frankie. 
Giacciamo tutti all'inferno
.(urla)


S’incontrarono a New York nel 1971 al Project un locale d’avanguardia culturale, Alan Vega e Martin Rev. Il primo è uno scultore, il secondo un musicista jazz. Il rock’n’roll che è musica che abbatte ogni barriera, fece il miracolo di metterli insieme. Volevano fare una rivoluzione in musica. Mettere semplicemente gli uni di fronte agli altri. Cantavano la paura della guerra, le psicosi della vita quotidiana, le nevrosi, e la rabbia. Con un sintetizzatore, un piano, e un organo suonati da Rev , e il canto spettrale e schizzato di Vega, il duo esordisce nel 1977 con un disco che è il più triste dei dischi punk di quel periodo. Frankie Teardrops è una sorta di Sister Ray dei Velvet Underground, un pezzo angosciante che parla di un operaio che spara alla moglie e al suo bambino, prima di uccidersi. Finalmente la pop art guardava la classe operaia, e quelli che avrebbero voluto una vita meno domestica. Gente pronta a scappare da qualunque parte del mondo, se non avesse avuto una fifa da morire. Senza chitarra e batteria, quest’esordio resta a mio parere il più futuristico, il più folle, dei dischi, che ho sentito e amato.

La vita è come un frammento di luce che finisce per oscurarsi in fondo alla notte. E questa vita in qualche modo c’è la stanno rapinando con un tempo triste, che fa disgusto, anche a starsene fuori a caracollare per strada. Sembra una lenta agonia. Ma non si può continuare a giocare con le carte degli altri, perché sono sempre truccate. Bisogna trovare un modo per sopravvivere. Dobbiamo cominciare a dare peso alla nostra vita. Ci sono cose cui solo noi possiamo rispondere. Bisogna ricominciare a cercare quella luce. Dai bambino sogna, sogna. Sogna.

Bartolo Federico



domenica 11 ottobre 2015

Il Diavolo E' A Piede Libero.

Quando mi alzai soffiava un vento gelido di tramontana. Le previsioni del tempo che stavo ascoltando dalla tele, davano un peggioramento nella serata, con vere bombe di pioggia in arrivo. Dall’armadio tirai fuori il trench nero, e la sciarpetta di seta in fantasia cachemire, che era stata di mio nonno Iano. M’infilai gli occhiali, e presi il cappello nel momento in cui i Sonic Youth suonavano “No Queen Blues”, una canzone contenuta nell’album “Washing Machine”. Dall’interruttore della luce spensi lo stereo. Una diavoleria escogitata da Salvo, quando ancora frequentava il regno dei vivi. Scesi le scale dell’appartamento e una volta in strada, ficcai i pugni nelle tasche del soprabito. Insieme a quella nuova indecifrabile tristezza che da giorni mi aveva imprigionato il cuore, m’incamminai. Il rumore delle macchine fece presto a prendere il sopravvento. Osservai i passanti infagottati in quegli enormi piumini da neve che procedevano per la strada con il viso fasciato da grandi sciarpe di lana, e mi parevano come tanti spaventapasseri. Un ragazzo con lo skateboard, e un walkman in mano, mi passò accanto. Il vento fischiava rude, ma la città pareva la solita. Mi diressi verso l’entrata della metropolitana. Cercando mentalmente le cose che mi servivano, pensai che la mia casa era davvero così  piena di musica, da potermi considerare quasi come un suo ospite. Ci nutriamo di convinzioni banali e misere, ma nello stesso tempo essenziali, per tirare avanti. Poi ci scordiamo di quel brivido che un giorno, abbiamo rubato dalle sue labbra. L’amore vince su tutto! Anche se vivere, è un atto di fede.


Scesi i gradini della metrò e afferrai per un soffio il treno della linea A. Ognuno di noi ha le sue rogne ma vallo a sapere quando iniziamo a perdere terreno, e tutto tracolla. Chissà cosa gli era successo a Jeffrey Lee Pierce? Qual era stata la ferita che non si era più rimarginata, e lo aveva fatto cadere precipitosamente nel fondo delle cose, e di se stesso. Un uomo che credeva nei sogni. Ma la sua profonda solitudine, lo spingeva ai lati del mondo. Uno dei tanti eroi ribelli e drogati, che ha attraversato la grande storia del rock. Uno che probabilmente come tutti noi, avrebbe voluto continuare a vivere. Dopo l’esordio folgorante e schizofrenico di “Fire Of Love”, fu con “Miami” che si conquistò un po’ di visibilità. Un disco notturno e denso di emozioni, che anche ad ascoltarlo a distanza di tre decadi, ti mette  paura. Tanta è l’intensità di quella sventagliata di rock feroce e viscerale, che sorregge il suo canto tormentato e lirico. Un canto che mai come in questo disco, riecheggia lo spirito anarchico di Jim Morrison. Chris Stein è il produttore di questo lavoro, un ex membro dei Blondie, gruppo da Jeffrey molto amato per via della cantante, Deborah Harry. Chris con il suo lavoro tende a evidenziare soprattutto la voce di Jeffrey, al contrario di quanto accadeva in “Fire Of Love”, dove la musica la sovrastava. In “Miami” ci sono canzoni di un uomo molto scosso, ma che ancora riesce a sopportare il dolore. Un uomo che sa che non può più tornare indietro, per nessun motivo, e allora prende a correre  con il diavolo alle calcagna.

In fondo è sempre dai sobborghi che sono arrivate le star del rock. Disperati, omosessuali, delinquenti, tutti con quel dono magico di avere carisma e talento. Durante una pausa per le registrazioni del disco, Jeffrey si accese una Camel, e si sedette sul divano. Indossava degli sbrindellati stivali texani, e un jeans sdrucito. Dalla bottiglia di whisky bevve un lungo sorso, come solo un dannato sa fare. La notte non faceva presagire nulla di buono. Pioggia e freddo intenso avevano recitato quelli del bollettino meteorologico. Quasi una metafora della sua vita. Se ne stava in silenzio per quella semplice ragione, che le parole alle volte non servono a nulla. Nelle sue visioni, la vedeva protendersi e chiamarlo. Lo chiamava amore, e lo pregava di proteggere il suo ricordo, di difenderlo. Chiuse gli occhi.  La vide camminare verso di lui. Voleva stare con lei, ricongiungersi a lei. Dopo aver bevuto un altro sorso, afferrò la chitarra acustica, e per scaldarsi le dita, suonò una sequenza di accordi. Do-Sol-La-Mi. Su quegli stessi accordi, ciondolando la testa intonò una nuova canzone. I presenti si commossero ad ascoltarlo mentre bisbigliava con il cuore pesante come un macigno, i versi di Mother Of Earth, ancora arrotolati dentro una melodia traballante.

"Sono andato giù nel fiume della tristezza Sono andato giù nel fiume del dolore nell’oscurità, li ho sentiti chiamare il mio nome Oh, madre terra. Il vento è caldo, ho provato a fare del mio meglio, ma non riesco. E i miei occhi si sono chiusi su questa grande terra. (Mother Of Earth)



Era il blues che risuonava dentro di lui. E sarà sempre il blues a tingere di scuro le sue canzoni. Anche quando suoneranno furiose e rumorose. Anche quando una lap steel s’intrometterà per addolcirne i suoni, sarà il blues demoniaco e disperato della sua anima, che tirerà pugni, e vagherà per le strade della morte. Quanti colori, note, combinazioni, si possono ottenere da una chitarra. E quante melodie vengono fuori dagli stessi accordi. Ma i blues sono sempre diversi, pure se sembrano uguali. Perché parlano degli uomini, e dei loro bisogni. Perché anche i pazzi vivono una loro vita, amano e soffrono, anche se non riescono a spiegarlo. Un viaggio quello di Jeffrey, colmo di una malinconia indelebile. Un’ombra errante e triste, la sua. Ma i sentimenti, che proviamo, sono più potenti delle parole. “Torna da me amore”. “Sono qui, sono stanco di queste lacrime”, e lo disse abbaiando dentro il microfono, con l’anima sanguinante. I suoi blues risuonavano impetuosi e perfetti, per tutti quei selvaggi che avevano il diavolo alle spalle, e l’anima incendiata.

Quel giovane tecnico del suono, osservò Lee Pierce per un lungo istante. Poi riprese il suo lavoro. Ci sono persone la cui vita sembra un lungo tormento. Poi un bel giorno decidono di morire. Come se non ci fosse nulla di meglio da fare, niente per cui valga la pena di andare avanti. Anche per mia madre è andata così. Avrei voluto incontrare Jeffrey, per potergli dire che nella vita tutti noi bariamo, perché altrimenti non avremmo via d’uscita. Tutti noi c’è ne stiamo ammassati nella stessa barca, logori, ammaccati, trattati senza troppi riguardi. E che la destinazione è per tutti la stessa. Gli avrei voluto raccontare che le sue canzoni avevano attraversato la mia vita, e che mi avevano dato una speranza. Avrei voluto vedere la sua espressione del viso, e come si sarebbero increspate le ciglia. Comunque vadano le cose, tutti nessun escluso, abbiamo sempre bisogno di sentire un altro punto di vista. A mia madre però, non ho avuto il coraggio di dirglielo.

Quella mattina era il mio giorno libero. A una fermata qualunque del metrò scesi. Ballonzolando senza meta per la città, mi sentivo come immagino si sentisse Jeffrey. Un cane che aveva preso troppe botte, e non si fidava più di nessuno. Andando in giro, mi resi conto che quello che attraversavo era un mondo d’infelici, di gente sconsolata, che aveva paura di tutto. Tutte persone in esubero. La loro scomparsa sarebbe stata solo una semplice, banale formalità. Nelle saracinesche dei negozi chiusi, stavano appesi i cartelli con la scritta Affittasi o Vendesi. Una donna di mezza età, mi chiese  dei soldi. Il sole nel cielo era come oscurato da grossi vetri, spessi e scuri. La vita non ha prezzo. E l’amore vince sempre.  Se conosci il nemico, non ti troverai in pericolo. Il fatto è che questo nemico che ci annienta, non lo puoi colpire, non lo puoi distruggere. Davanti alla prefettura, una manifestazione di disoccupati invadeva i marciapiedi, e parte della strada viaria. Gli automobilisti però sembravano comprensivi, con quelle persone. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli che ho incrociato erano spenti e bui. Occhi dove non si scorgeva nulla. Forse servirebbe un vero cambiamento. Una rivoluzione. Ma non sono più così sicuro, neanche di questo. Tornare a combattere, invece di starsene inermi ad aspettare, servirebbe a cambiare lo stato delle cose? Non lo so. Non so più un cazzo di niente. La tristezza abita il mondo.  Un anziano signore che rovistava tra le cassette della frutta stipate al lato di un cassonetto, girò la testa e adocchiandomi mi disse: “non è che abbia una grande pensione figliolo”, lo disse mentre il vento agitava gli alberi. È un blues spietato quello in cui ci hanno ficcato quelle teste di cazzo dei nostri governanti. Dei gran figli di puttana. Nessuno escluso.



Sid Vicious fu arrestato il 12 ottobre 1978 con l’accusa di aver pugnalato la sua ragazza Nancy Spungen mentre si trovavano nella loro camera al Chelsea Hotel di New York. Sid dichiarò che in quel momento non si trovava in possesso delle sue facoltà mentali essendo sotto l’effetto dell’eroina e che non si ricordava assolutamente nulla di quello che era accaduto nella stanza. Fu rilasciato in libertà provvisoria su cauzione di 50.000 dollari e con l’obbligo di seguire una cura disintossicante a base di metadone. Il 7 dicembre 1978 Sid venne alle mani con Todd Smith, fratello di Patti, mentre si trovavano al club punk Hurrah’s dove suonava la band degli Skafish. Vicious ruppe una bottiglia di birra sulla faccia di Todd, che rimase ferito a un occhio. Arrestato l’otto dicembre il giudice revocò la sua libertà provvisoria e lo rimandò alla prigione di Rikers Island. Di nuovo rilasciato con l’obbligo di presentarsi ogni giorno alla polizia, Sid Vicious si uccide con un overdose di eroina, il 2 febbraio 1979.

Alle volte capita che ci ricordiamo di ogni cosa che ci è successa. Guardai a lungo la mia chitarra, ma siccome non riesco più a scrivere una canzone, l’ho lasciata in pace. Le chitarre hanno un cuore grande, sanno sempre come prenderti. Dovrei smettere di ascoltare le canzoni. Perché sanno come ferirmi. Accidenti se lo sanno. Alle volte mi chiedo cosa non abbia funzionato in me, e perché ho perso quel treno per la gloria. Chissà se ci fossi salito a quale stazione, sarei dovuto scendere? Perché alla fine torniamo sempre da dove siamo partiti. È troppo tardi però per ricominciare, per crederci ancora. È troppo tardi per i rimpianti, perché ci sono cose che non si possono più fare. E' vero comunque, che le porte più difficili da chiudere, sono quelle che si trovano sul proprio pianerottolo. Quando rientrai a casa, l’orologio a muro segnava le due e venti del pomeriggio, e mi sentivo affranto per tutto quello che stava accadendo. E’ l’anno 2015, ma niente è cambiato per quelle orde di poveri, che si muovono silenziosi nel mondo. Mangiai poco e di controvoglia.


Ero di cattivo umore, così negli scaffali dei dischi rintracciai gli “ X” la banda di John Doe e Exene Cervenka. Mi accesi una sigaretta e mi sedetti sul divano, cercando quantomeno di non ascoltare più me stesso. E’ del 1980 "Los Angeles”, l’album prodotto da Ray Manzarek l’ex tastierista dei Doors. E’ in questi solchi che riaccade il miracolo di risentire quel binomio di rabbia e poesia, che fu prerogativa di Dylan, Jim Morrison, Patti Smith, e Jimi Hendrix. “Los Angeles” è un viaggio nell’incubo urbano, nell’emarginazione sociale, nella crisi dei valori umani. Ma è anche la grande voglia di non arrendersi, sotto quel grande sole nero che ci affligge. Avendo chiara la consapevolezza, che il momento più duro, è quello del risveglio. In alcuni pezzi di questo disco, con il suo inconfondibile suono, la tastiera di Manzarek si presta per colorare il buio dopo la pioggia. Musica che ha infilato la chiave nell’interruttore del mio cuore. Qui oltre alla forza dirompente del punk, ci sono quei duetti bellissimi tra John ed Exene che cantano nove canzoni, bastarde e violente, fino a raschiarsi le corde vocali. Fino a cadere sanguinanti, in fondo a un vicolo qualsiasi. Non importa quanto sia sbagliata la strada che imbocchiamo, tanto le cose più belle sono quelle che ancora dobbiamo scrivere. L’amore vince sempre su tutto! Vero mamma!

Procediamo nella terra di nessuno cambiando continuamente tragitto, una volta a destra, un’altra volta a sinistra. Acceleriamo, freniamo, cercando di capire quello che nessuno ci spiega. Nella musica punk, c’è sempre stata una specie di ruvida tenerezza. In quella sfrontataggine, c’era molta sincerità. Quello che non capiva il punk, lo intuiva. Poi come in una sorta di auto indulgenza, non sapendo barare, sé né tornato in quelle strade buie e solitarie, dove è difficile raggiungerlo.

Quando la musica è finita, ho rimesso a posto il disco. Ho buttato via il caffè che era rimasto, ho rassettato la cucina, e ho pulito i miei stivali texani. Poi ho fatto una doccia, mi sono rasato, cosa che non faccio mai nel pomeriggio. Ma mi era venuta voglia. Piccole cose semplici di un uomo solo. Che non fanno male a nessuno.


Bartolo Federico