domenica 11 ottobre 2015

Il Diavolo E' A Piede Libero.

Quando mi alzai soffiava un vento gelido di tramontana. Le previsioni del tempo che stavo ascoltando dalla tele, davano un peggioramento nella serata, con vere bombe di pioggia in arrivo. Dall’armadio tirai fuori il trench nero, e la sciarpetta di seta in fantasia cachemire, che era stata di mio nonno Iano. M’infilai gli occhiali, e presi il cappello nel momento in cui i Sonic Youth suonavano “No Queen Blues”, una canzone contenuta nell’album “Washing Machine”. Dall’interruttore della luce spensi lo stereo. Una diavoleria escogitata da Salvo, quando ancora frequentava il regno dei vivi. Scesi le scale dell’appartamento e una volta in strada, ficcai i pugni nelle tasche del soprabito. Insieme a quella nuova indecifrabile tristezza che da giorni mi aveva imprigionato il cuore, m’incamminai. Il rumore delle macchine fece presto a prendere il sopravvento. Osservai i passanti infagottati in quegli enormi piumini da neve che procedevano per la strada con il viso fasciato da grandi sciarpe di lana, e mi parevano come tanti spaventapasseri. Un ragazzo con lo skateboard, e un walkman in mano, mi passò accanto. Il vento fischiava rude, ma la città pareva la solita. Mi diressi verso l’entrata della metropolitana. Cercando mentalmente le cose che mi servivano, pensai che la mia casa era davvero così  piena di musica, da potermi considerare quasi come un suo ospite. Ci nutriamo di convinzioni banali e misere, ma nello stesso tempo essenziali, per tirare avanti. Poi ci scordiamo di quel brivido che un giorno, abbiamo rubato dalle sue labbra. L’amore vince su tutto! Anche se vivere, è un atto di fede.


Scesi i gradini della metrò e afferrai per un soffio il treno della linea A. Ognuno di noi ha le sue rogne ma vallo a sapere quando iniziamo a perdere terreno, e tutto tracolla. Chissà cosa gli era successo a Jeffrey Lee Pierce? Qual era stata la ferita che non si era più rimarginata, e lo aveva fatto cadere precipitosamente nel fondo delle cose, e di se stesso. Un uomo che credeva nei sogni. Ma la sua profonda solitudine, lo spingeva ai lati del mondo. Uno dei tanti eroi ribelli e drogati, che ha attraversato la grande storia del rock. Uno che probabilmente come tutti noi, avrebbe voluto continuare a vivere. Dopo l’esordio folgorante e schizofrenico di “Fire Of Love”, fu con “Miami” che si conquistò un po’ di visibilità. Un disco notturno e denso di emozioni, che anche ad ascoltarlo a distanza di tre decadi, ti mette  paura. Tanta è l’intensità di quella sventagliata di rock feroce e viscerale, che sorregge il suo canto tormentato e lirico. Un canto che mai come in questo disco, riecheggia lo spirito anarchico di Jim Morrison. Chris Stein è il produttore di questo lavoro, un ex membro dei Blondie, gruppo da Jeffrey molto amato per via della cantante, Deborah Harry. Chris con il suo lavoro tende a evidenziare soprattutto la voce di Jeffrey, al contrario di quanto accadeva in “Fire Of Love”, dove la musica la sovrastava. In “Miami” ci sono canzoni di un uomo molto scosso, ma che ancora riesce a sopportare il dolore. Un uomo che sa che non può più tornare indietro, per nessun motivo, e allora prende a correre  con il diavolo alle calcagna.

In fondo è sempre dai sobborghi che sono arrivate le star del rock. Disperati, omosessuali, delinquenti, tutti con quel dono magico di avere carisma e talento. Durante una pausa per le registrazioni del disco, Jeffrey si accese una Camel, e si sedette sul divano. Indossava degli sbrindellati stivali texani, e un jeans sdrucito. Dalla bottiglia di whisky bevve un lungo sorso, come solo un dannato sa fare. La notte non faceva presagire nulla di buono. Pioggia e freddo intenso avevano recitato quelli del bollettino meteorologico. Quasi una metafora della sua vita. Se ne stava in silenzio per quella semplice ragione, che le parole alle volte non servono a nulla. Nelle sue visioni, la vedeva protendersi e chiamarlo. Lo chiamava amore, e lo pregava di proteggere il suo ricordo, di difenderlo. Chiuse gli occhi.  La vide camminare verso di lui. Voleva stare con lei, ricongiungersi a lei. Dopo aver bevuto un altro sorso, afferrò la chitarra acustica, e per scaldarsi le dita, suonò una sequenza di accordi. Do-Sol-La-Mi. Su quegli stessi accordi, ciondolando la testa intonò una nuova canzone. I presenti si commossero ad ascoltarlo mentre bisbigliava con il cuore pesante come un macigno, i versi di Mother Of Earth, ancora arrotolati dentro una melodia traballante.

"Sono andato giù nel fiume della tristezza Sono andato giù nel fiume del dolore nell’oscurità, li ho sentiti chiamare il mio nome Oh, madre terra. Il vento è caldo, ho provato a fare del mio meglio, ma non riesco. E i miei occhi si sono chiusi su questa grande terra. (Mother Of Earth)



Era il blues che risuonava dentro di lui. E sarà sempre il blues a tingere di scuro le sue canzoni. Anche quando suoneranno furiose e rumorose. Anche quando una lap steel s’intrometterà per addolcirne i suoni, sarà il blues demoniaco e disperato della sua anima, che tirerà pugni, e vagherà per le strade della morte. Quanti colori, note, combinazioni, si possono ottenere da una chitarra. E quante melodie vengono fuori dagli stessi accordi. Ma i blues sono sempre diversi, pure se sembrano uguali. Perché parlano degli uomini, e dei loro bisogni. Perché anche i pazzi vivono una loro vita, amano e soffrono, anche se non riescono a spiegarlo. Un viaggio quello di Jeffrey, colmo di una malinconia indelebile. Un’ombra errante e triste, la sua. Ma i sentimenti, che proviamo, sono più potenti delle parole. “Torna da me amore”. “Sono qui, sono stanco di queste lacrime”, e lo disse abbaiando dentro il microfono, con l’anima sanguinante. I suoi blues risuonavano impetuosi e perfetti, per tutti quei selvaggi che avevano il diavolo alle spalle, e l’anima incendiata.

Quel giovane tecnico del suono, osservò Lee Pierce per un lungo istante. Poi riprese il suo lavoro. Ci sono persone la cui vita sembra un lungo tormento. Poi un bel giorno decidono di morire. Come se non ci fosse nulla di meglio da fare, niente per cui valga la pena di andare avanti. Anche per mia madre è andata così. Avrei voluto incontrare Jeffrey, per potergli dire che nella vita tutti noi bariamo, perché altrimenti non avremmo via d’uscita. Tutti noi c’è ne stiamo ammassati nella stessa barca, logori, ammaccati, trattati senza troppi riguardi. E che la destinazione è per tutti la stessa. Gli avrei voluto raccontare che le sue canzoni avevano attraversato la mia vita, e che mi avevano dato una speranza. Avrei voluto vedere la sua espressione del viso, e come si sarebbero increspate le ciglia. Comunque vadano le cose, tutti nessun escluso, abbiamo sempre bisogno di sentire un altro punto di vista. A mia madre però, non ho avuto il coraggio di dirglielo.

Quella mattina era il mio giorno libero. A una fermata qualunque del metrò scesi. Ballonzolando senza meta per la città, mi sentivo come immagino si sentisse Jeffrey. Un cane che aveva preso troppe botte, e non si fidava più di nessuno. Andando in giro, mi resi conto che quello che attraversavo era un mondo d’infelici, di gente sconsolata, che aveva paura di tutto. Tutte persone in esubero. La loro scomparsa sarebbe stata solo una semplice, banale formalità. Nelle saracinesche dei negozi chiusi, stavano appesi i cartelli con la scritta Affittasi o Vendesi. Una donna di mezza età, mi chiese  dei soldi. Il sole nel cielo era come oscurato da grossi vetri, spessi e scuri. La vita non ha prezzo. E l’amore vince sempre.  Se conosci il nemico, non ti troverai in pericolo. Il fatto è che questo nemico che ci annienta, non lo puoi colpire, non lo puoi distruggere. Davanti alla prefettura, una manifestazione di disoccupati invadeva i marciapiedi, e parte della strada viaria. Gli automobilisti però sembravano comprensivi, con quelle persone. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli che ho incrociato erano spenti e bui. Occhi dove non si scorgeva nulla. Forse servirebbe un vero cambiamento. Una rivoluzione. Ma non sono più così sicuro, neanche di questo. Tornare a combattere, invece di starsene inermi ad aspettare, servirebbe a cambiare lo stato delle cose? Non lo so. Non so più un cazzo di niente. La tristezza abita il mondo.  Un anziano signore che rovistava tra le cassette della frutta stipate al lato di un cassonetto, girò la testa e adocchiandomi mi disse: “non è che abbia una grande pensione figliolo”, lo disse mentre il vento agitava gli alberi. È un blues spietato quello in cui ci hanno ficcato quelle teste di cazzo dei nostri governanti. Dei gran figli di puttana. Nessuno escluso.



Sid Vicious fu arrestato il 12 ottobre 1978 con l’accusa di aver pugnalato la sua ragazza Nancy Spungen mentre si trovavano nella loro camera al Chelsea Hotel di New York. Sid dichiarò che in quel momento non si trovava in possesso delle sue facoltà mentali essendo sotto l’effetto dell’eroina e che non si ricordava assolutamente nulla di quello che era accaduto nella stanza. Fu rilasciato in libertà provvisoria su cauzione di 50.000 dollari e con l’obbligo di seguire una cura disintossicante a base di metadone. Il 7 dicembre 1978 Sid venne alle mani con Todd Smith, fratello di Patti, mentre si trovavano al club punk Hurrah’s dove suonava la band degli Skafish. Vicious ruppe una bottiglia di birra sulla faccia di Todd, che rimase ferito a un occhio. Arrestato l’otto dicembre il giudice revocò la sua libertà provvisoria e lo rimandò alla prigione di Rikers Island. Di nuovo rilasciato con l’obbligo di presentarsi ogni giorno alla polizia, Sid Vicious si uccide con un overdose di eroina, il 2 febbraio 1979.

Alle volte capita che ci ricordiamo di ogni cosa che ci è successa. Guardai a lungo la mia chitarra, ma siccome non riesco più a scrivere una canzone, l’ho lasciata in pace. Le chitarre hanno un cuore grande, sanno sempre come prenderti. Dovrei smettere di ascoltare le canzoni. Perché sanno come ferirmi. Accidenti se lo sanno. Alle volte mi chiedo cosa non abbia funzionato in me, e perché ho perso quel treno per la gloria. Chissà se ci fossi salito a quale stazione, sarei dovuto scendere? Perché alla fine torniamo sempre da dove siamo partiti. È troppo tardi però per ricominciare, per crederci ancora. È troppo tardi per i rimpianti, perché ci sono cose che non si possono più fare. E' vero comunque, che le porte più difficili da chiudere, sono quelle che si trovano sul proprio pianerottolo. Quando rientrai a casa, l’orologio a muro segnava le due e venti del pomeriggio, e mi sentivo affranto per tutto quello che stava accadendo. E’ l’anno 2015, ma niente è cambiato per quelle orde di poveri, che si muovono silenziosi nel mondo. Mangiai poco e di controvoglia.


Ero di cattivo umore, così negli scaffali dei dischi rintracciai gli “ X” la banda di John Doe e Exene Cervenka. Mi accesi una sigaretta e mi sedetti sul divano, cercando quantomeno di non ascoltare più me stesso. E’ del 1980 "Los Angeles”, l’album prodotto da Ray Manzarek l’ex tastierista dei Doors. E’ in questi solchi che riaccade il miracolo di risentire quel binomio di rabbia e poesia, che fu prerogativa di Dylan, Jim Morrison, Patti Smith, e Jimi Hendrix. “Los Angeles” è un viaggio nell’incubo urbano, nell’emarginazione sociale, nella crisi dei valori umani. Ma è anche la grande voglia di non arrendersi, sotto quel grande sole nero che ci affligge. Avendo chiara la consapevolezza, che il momento più duro, è quello del risveglio. In alcuni pezzi di questo disco, con il suo inconfondibile suono, la tastiera di Manzarek si presta per colorare il buio dopo la pioggia. Musica che ha infilato la chiave nell’interruttore del mio cuore. Qui oltre alla forza dirompente del punk, ci sono quei duetti bellissimi tra John ed Exene che cantano nove canzoni, bastarde e violente, fino a raschiarsi le corde vocali. Fino a cadere sanguinanti, in fondo a un vicolo qualsiasi. Non importa quanto sia sbagliata la strada che imbocchiamo, tanto le cose più belle sono quelle che ancora dobbiamo scrivere. L’amore vince sempre su tutto! Vero mamma!

Procediamo nella terra di nessuno cambiando continuamente tragitto, una volta a destra, un’altra volta a sinistra. Acceleriamo, freniamo, cercando di capire quello che nessuno ci spiega. Nella musica punk, c’è sempre stata una specie di ruvida tenerezza. In quella sfrontataggine, c’era molta sincerità. Quello che non capiva il punk, lo intuiva. Poi come in una sorta di auto indulgenza, non sapendo barare, sé né tornato in quelle strade buie e solitarie, dove è difficile raggiungerlo.

Quando la musica è finita, ho rimesso a posto il disco. Ho buttato via il caffè che era rimasto, ho rassettato la cucina, e ho pulito i miei stivali texani. Poi ho fatto una doccia, mi sono rasato, cosa che non faccio mai nel pomeriggio. Ma mi era venuta voglia. Piccole cose semplici di un uomo solo. Che non fanno male a nessuno.


Bartolo Federico











Nessun commento:

Posta un commento