Quando
mi alzai soffiava un vento gelido di tramontana. Le previsioni del tempo che
stavo ascoltando dalla tele, davano un peggioramento nella serata, con vere
bombe di pioggia in arrivo. Dall’armadio tirai fuori il trench nero,
e la sciarpetta di seta in fantasia cachemire, che era stata di mio nonno Iano.
M’infilai gli occhiali, e presi il cappello nel momento in cui i Sonic Youth suonavano “No Queen Blues”, una canzone contenuta
nell’album “Washing Machine”.
Dall’interruttore della luce spensi lo stereo. Una diavoleria escogitata da Salvo, quando ancora frequentava il
regno dei vivi. Scesi le scale dell’appartamento e una volta in strada, ficcai
i pugni nelle tasche del soprabito. Insieme a quella nuova indecifrabile
tristezza che da giorni mi aveva imprigionato il cuore, m’incamminai. Il rumore
delle macchine fece presto a prendere il sopravvento. Osservai i passanti
infagottati in quegli enormi piumini da neve che procedevano per la strada con
il viso fasciato da grandi sciarpe di lana, e mi parevano come tanti
spaventapasseri. Un ragazzo con lo skateboard, e un walkman in mano, mi passò
accanto. Il vento fischiava rude, ma la città
pareva la solita. Mi diressi verso l’entrata della metropolitana. Cercando mentalmente le cose che mi servivano, pensai che la
mia casa era davvero così piena di musica, da potermi considerare quasi come un suo
ospite. Ci nutriamo di convinzioni banali e misere, ma nello stesso tempo
essenziali, per tirare avanti. Poi ci scordiamo di quel brivido che un giorno, abbiamo
rubato dalle sue labbra. L’amore vince su tutto! Anche se vivere, è un atto di fede.
Scesi
i gradini della metrò e afferrai per un soffio il treno della linea A. Ognuno di noi ha le sue rogne ma
vallo a sapere quando iniziamo a perdere terreno, e tutto tracolla. Chissà
cosa gli era successo a Jeffrey Lee Pierce? Qual era stata la ferita che
non si era più rimarginata, e
lo aveva fatto cadere precipitosamente nel fondo delle cose, e di se stesso. Un
uomo che credeva nei sogni. Ma la sua profonda solitudine, lo spingeva ai lati
del mondo. Uno dei tanti eroi ribelli e drogati, che ha attraversato la grande
storia del rock. Uno che probabilmente come tutti noi, avrebbe voluto
continuare a vivere. Dopo l’esordio folgorante e schizofrenico di “Fire Of Love”, fu con “Miami” che si conquistò un po’ di
visibilità. Un disco notturno e denso
di emozioni, che anche ad ascoltarlo a distanza di tre decadi, ti mette paura.
Tanta è l’intensità di quella sventagliata di rock feroce e viscerale, che
sorregge il suo canto tormentato e lirico. Un canto che mai come in questo
disco, riecheggia lo spirito anarchico di Jim Morrison. Chris Stein è il produttore di questo lavoro, un ex membro dei Blondie,
gruppo da Jeffrey molto amato per via della cantante, Deborah Harry. Chris con il suo
lavoro tende a evidenziare soprattutto la voce di Jeffrey, al contrario di
quanto accadeva in “Fire Of Love”,
dove la musica la sovrastava. In “Miami” ci sono canzoni di un uomo molto
scosso, ma che ancora riesce a sopportare il dolore. Un uomo che sa che non può più tornare indietro, per nessun motivo, e allora prende a correre con il diavolo alle calcagna.
In fondo è sempre dai sobborghi che sono
arrivate le star del rock. Disperati, omosessuali, delinquenti, tutti
con quel dono magico di avere carisma e talento. Durante una pausa per le
registrazioni del disco, Jeffrey si accese una Camel, e si sedette sul divano.
Indossava degli sbrindellati stivali texani, e un jeans sdrucito. Dalla
bottiglia di whisky bevve un lungo sorso, come solo un dannato sa fare. La
notte non faceva presagire nulla di buono. Pioggia e freddo intenso avevano
recitato quelli del bollettino meteorologico. Quasi una metafora della sua
vita. Se ne stava in silenzio per quella semplice ragione, che le parole alle
volte non servono a nulla. Nelle sue visioni, la vedeva protendersi e
chiamarlo. Lo chiamava amore, e lo pregava di proteggere il suo ricordo, di
difenderlo. Chiuse gli occhi. La vide
camminare verso di lui. Voleva stare con lei, ricongiungersi a lei. Dopo aver
bevuto un altro sorso, afferrò
la chitarra acustica, e per scaldarsi le dita, suonò
una sequenza di accordi. Do-Sol-La-Mi. Su quegli stessi accordi, ciondolando la
testa intonò una nuova
canzone. I presenti si commossero ad ascoltarlo mentre
bisbigliava con il cuore pesante come un macigno, i versi di Mother Of Earth, ancora arrotolati
dentro una melodia traballante.
"Sono
andato giù nel fiume
della tristezza Sono andato giù
nel fiume del dolore nell’oscurità,
li ho sentiti chiamare il mio nome Oh, madre terra. Il vento è
caldo, ho provato a fare del mio meglio, ma non riesco. E i miei occhi si sono
chiusi su questa grande terra. “ (Mother Of
Earth)
Era
il blues che risuonava dentro di lui. E sarà
sempre il blues a tingere di scuro le sue canzoni. Anche quando suoneranno
furiose e rumorose. Anche quando una lap steel s’intrometterà per addolcirne i
suoni, sarà il blues demoniaco e disperato della sua anima, che tirerà pugni, e
vagherà per le strade della morte. Quanti colori, note, combinazioni, si possono
ottenere da una chitarra. E quante melodie vengono fuori dagli stessi accordi.
Ma i blues sono sempre diversi, pure se sembrano uguali. Perché parlano degli
uomini, e dei loro bisogni. Perché anche i pazzi vivono una loro vita, amano e
soffrono, anche se non riescono a spiegarlo. Un viaggio quello di Jeffrey, colmo
di una malinconia indelebile. Un’ombra errante e triste, la sua. Ma i
sentimenti, che proviamo, sono più potenti delle parole. “Torna da me amore”. “Sono
qui, sono stanco di queste lacrime”, e lo disse abbaiando dentro il microfono, con
l’anima sanguinante. I suoi blues risuonavano impetuosi e perfetti, per tutti quei
selvaggi che avevano il diavolo alle spalle, e l’anima incendiata.
Quel
giovane tecnico del suono, osservò Lee Pierce per un
lungo istante. Poi riprese il suo lavoro. Ci sono
persone la cui vita sembra un lungo tormento. Poi un bel giorno decidono di
morire. Come se non ci fosse nulla di meglio da fare, niente per cui valga la
pena di andare avanti. Anche per mia madre è andata così. Avrei
voluto incontrare Jeffrey, per potergli dire che nella vita tutti noi bariamo, perché
altrimenti non avremmo via d’uscita. Tutti noi c’è
ne stiamo ammassati nella stessa barca, logori, ammaccati, trattati senza
troppi riguardi. E che la destinazione è
per tutti la stessa. Gli avrei voluto raccontare che le sue canzoni avevano
attraversato la mia vita, e che mi avevano dato una speranza. Avrei voluto
vedere la sua espressione del viso, e come si sarebbero increspate le ciglia.
Comunque vadano le cose, tutti nessun escluso, abbiamo sempre bisogno di sentire
un altro punto di vista. A mia madre però, non ho avuto il coraggio di
dirglielo.
Quella
mattina era il mio giorno libero. A una fermata qualunque del metrò
scesi. Ballonzolando senza meta per la città,
mi sentivo come immagino si sentisse Jeffrey. Un cane che aveva preso troppe
botte, e non si fidava più di nessuno.
Andando in giro, mi resi conto che
quello che attraversavo era un mondo d’infelici, di gente sconsolata, che aveva
paura di tutto. Tutte persone in esubero. La loro scomparsa sarebbe stata solo una semplice,
banale formalità. Nelle
saracinesche dei negozi chiusi, stavano appesi i cartelli con la scritta Affittasi o Vendesi. Una donna di mezza età, mi chiese dei soldi. Il sole nel cielo era come
oscurato da grossi vetri, spessi e scuri. La vita non ha prezzo. E l’amore
vince sempre. Se conosci il nemico,
non ti troverai in pericolo. Il fatto è che questo nemico che ci annienta, non
lo puoi colpire, non lo puoi distruggere. Davanti alla
prefettura, una manifestazione di disoccupati invadeva i marciapiedi, e parte
della strada viaria. Gli automobilisti però sembravano comprensivi, con quelle
persone. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli che ho incrociato
erano spenti e bui. Occhi dove non si scorgeva nulla. Forse servirebbe un vero
cambiamento. Una rivoluzione. Ma non sono più così sicuro, neanche di questo. Tornare
a combattere, invece di starsene inermi ad aspettare, servirebbe a cambiare lo
stato delle cose? Non lo so. Non so più un cazzo di niente. La tristezza abita
il mondo. Un anziano signore che rovistava
tra le cassette della frutta stipate al lato di un cassonetto, girò
la testa e adocchiandomi mi disse: “non è che abbia una grande
pensione figliolo”, lo disse mentre il vento agitava gli
alberi. È un blues
spietato quello in cui ci hanno ficcato quelle teste di cazzo dei nostri
governanti. Dei gran figli di puttana. Nessuno escluso.
Sid
Vicious fu arrestato il 12 ottobre 1978 con
l’accusa di aver pugnalato la sua ragazza Nancy Spungen mentre si
trovavano nella loro camera al Chelsea Hotel di New York. Sid
dichiarò che in
quel momento non si trovava in possesso delle sue facoltà
mentali essendo sotto l’effetto dell’eroina e che non si ricordava
assolutamente nulla di quello che era accaduto nella stanza. Fu rilasciato in
libertà
provvisoria su cauzione di 50.000 dollari e con l’obbligo di seguire una cura
disintossicante a base di metadone. Il 7 dicembre 1978 Sid venne alle mani con Todd
Smith, fratello di Patti, mentre si trovavano al club punk Hurrah’s
dove suonava la band degli Skafish. Vicious ruppe una bottiglia di birra
sulla faccia di Todd, che rimase ferito a un occhio. Arrestato l’otto
dicembre il giudice revocò
la sua libertà
provvisoria e lo rimandò
alla prigione di Rikers Island. Di nuovo
rilasciato con l’obbligo di presentarsi ogni giorno alla polizia, Sid Vicious
si uccide con un overdose di eroina, il 2 febbraio 1979.
Alle
volte capita che ci ricordiamo di ogni cosa che ci è
successa. Guardai a lungo la mia chitarra, ma siccome non riesco più
a scrivere una canzone, l’ho lasciata in pace. Le chitarre hanno un cuore
grande, sanno sempre come prenderti. Dovrei smettere di ascoltare le canzoni.
Perché sanno come ferirmi. Accidenti se lo
sanno. Alle volte mi chiedo cosa non abbia funzionato in me, e perché
ho perso quel treno per la gloria. Chissà se ci fossi salito a quale stazione,
sarei dovuto scendere? Perché alla fine torniamo sempre da dove siamo partiti. È
troppo tardi però per ricominciare, per crederci ancora. È
troppo tardi per i rimpianti, perché
ci sono cose che non si possono più
fare. E' vero comunque, che le porte più
difficili da chiudere, sono quelle che si trovano sul proprio pianerottolo.
Quando rientrai a casa, l’orologio a muro segnava le due e venti del
pomeriggio, e mi sentivo affranto per tutto quello che stava accadendo. E’
l’anno 2015, ma niente è cambiato per quelle orde di poveri, che si muovono
silenziosi nel mondo. Mangiai poco e di controvoglia.
Ero
di cattivo umore, così negli scaffali dei dischi rintracciai gli “ X” la banda
di John Doe e Exene Cervenka. Mi accesi una
sigaretta e mi sedetti sul divano, cercando quantomeno di non ascoltare più
me stesso. E’ del 1980 "Los
Angeles”, l’album prodotto da Ray
Manzarek l’ex tastierista dei Doors.
E’ in questi solchi che riaccade il miracolo di risentire quel binomio di
rabbia e poesia, che fu prerogativa di Dylan, Jim Morrison,
Patti Smith, e Jimi Hendrix. “Los Angeles” è
un viaggio nell’incubo urbano, nell’emarginazione sociale, nella crisi dei
valori umani. Ma è anche la grande
voglia di non arrendersi, sotto quel grande
sole nero che ci affligge. Avendo chiara la consapevolezza, che il
momento più duro, è quello
del risveglio. In alcuni pezzi di questo disco, con il suo inconfondibile suono, la tastiera di Manzarek si
presta per colorare il buio dopo la pioggia. Musica
che ha infilato la chiave nell’interruttore del mio cuore. Qui oltre alla forza
dirompente del punk, ci sono quei duetti bellissimi tra John ed Exene che
cantano nove canzoni, bastarde e violente, fino a raschiarsi le corde vocali.
Fino a cadere sanguinanti, in fondo a un vicolo qualsiasi. Non importa quanto
sia sbagliata la strada che imbocchiamo, tanto le cose più belle sono quelle
che ancora dobbiamo scrivere. L’amore vince sempre su tutto! Vero mamma!
Procediamo
nella terra di nessuno cambiando continuamente tragitto, una volta a destra,
un’altra volta a sinistra. Acceleriamo, freniamo, cercando di capire quello che
nessuno ci spiega. Nella musica punk, c’è
sempre stata una specie di ruvida tenerezza. In quella sfrontataggine, c’era
molta sincerità. Quello che non capiva il punk, lo intuiva. Poi come in una
sorta di auto indulgenza, non sapendo barare, sé né
tornato in quelle strade buie e solitarie, dove è
difficile raggiungerlo.
Quando
la musica è finita, ho rimesso a posto il disco. Ho buttato via il caffè
che era rimasto, ho rassettato la cucina, e ho pulito i miei stivali texani. Poi
ho fatto una doccia, mi sono rasato, cosa che non faccio mai nel pomeriggio. Ma
mi era venuta voglia. Piccole cose semplici di un uomo solo. Che non fanno male
a nessuno.
Bartolo
Federico
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