Spanish Jack è stato uno che cantava i battiti del suo cuore, che scriveva canzoni che sapevano scaraventarti addosso raffiche di passione, vizi, e poesia. Un musicista che non si è mai addomesticato come hanno fatti in tanti, ma che alla fine si è ritrovato a combattere per la mera sopravvivenza. Strano come vanno le cose in questo mondo, mezze schiappe che si arricchiscono, e talenti che restano al palo. Pure da morto Willy DeVille non è mai stato preso in considerazione dalla stampa e dal pubblico, solo quell’anima gentile di Peter Wolf gli ha tributato un sentito omaggio per le straordinarie pagine di musica che ci ha lasciato, e per quel fiume di emozioni che ha saputo regalare. Dagli altri “colleghi” solo un assordante silenzio. Persino uno stracotto come George Michael ha avuto tutti gli onori quando se n’è andato nel regno dei morti, ma per Willy nulla, come se fosse scomparso il gatto del vicolo. Eppure il rock quello vissuto a rischio e pericolo della propria vita, passa dai suoi dischi, sin da quando, nella metà degli anni settanta, infiammava le notti newyorkesi al CBCG’s con la sigla Mink DeVille. Un tipo sentimentale e tormentato Willy, un gentiluomo che saliva sul palco offrendo rose rosse alle signore, ma anche un artista pieno di dubbi e solitudine. Uno che ha ecceduto in tutto quello che ha fatto, ma che non ha mai tradito la sua musica per nessun motivo. Prima di “Coup De Grace” album uscito nel 1981, bisognerebbe andare a rispolverare anche “Cabretta” del 1977, “Return To Magenta” del 1978, e Le Chat Bleu del 1980, dischi pieni zeppi di soul e rhythm&blues, di ballad notturne e affascinanti e di quel rock latino suonato da chi è veramente nato e vissuto nella Lower East Side. I suoi amici si chiamavano Ignazio, Carlito, Juan, Pedro, Flaco… ragazzi con cui se ne andava in giro nei quartieri di Little Italy o China Town, nella notte zozza e depravata di una New York al neon, in cui tutti abbiamo sognato almeno per una volta di perderci. Quando uscì “Coup De Grace” il mondo correva dietro a “The River” di Springsteen, quindi in pochi si accorsero di quel disco con etichetta Atlantic Records. Una nuova line up, e i concerti di quel periodo dimostrano come sapeva infiammare la notte con un suono secco e selvaggio, romantico e vizioso, cantando con una voce che non ha uguali nel rock, che sapeva intaccarti fin dentro le ossa. Un colpo di grazia a tutti gli effetti, che suonava nel chiaro scuro dei sogni di tutti quelli che vivevano appesi alle canzoni di Gene Vincent, Ben E. King, Chuck Berry, Otis Redding, e i languori di donne come Edith Piaf e Billie Holiday. Gente dimenticata nei bassifondi, con l’immancabile sigaretta accesa tra le labbra, e James Cagney tatuato sul braccio. Un disco che tutti dovrebbero possedere se si crede nella magia del rock’n’roll, e se si ha nel petto un cuore vero, che pulsa sangue ed emozioni, e non un stimolatore cardiaco. Maybe Tomorrow è polvere calda e soffice sul viso, è la mano di un amante che ti accarezza e ti fa respirare basso e roco, portandoti in giro in quella parte della città dove anche gli angeli hanno paura a camminare. So long Willy.
Bartolo Federico