John Mellencamp come
il vecchio personaggio di Waits Frank
Leroux ha da tempo appeso i suoi anni selvaggi al chiodo ma,
invece di conficcarli nella fronte di sua moglie e di dar tutto alle fiamme, si
è abbandonato alla malinconia e alla riflessione. Quel duro teppista che ai
tempi di “America Fool”
(1982) si faceva chiamare il puma, e che anche nel
seguente “Uh-Huh” (1983) suonava un rock selvaggio
figlio dei Rolling Stones; lentamente ha cambiato
direzione facendo posto a canzoni dalla forte presa sociale, scavando nelle
zone buie dell’animo umano. Così come un nuovo Woody Guthrie, disco dopo disco è diventato
portavoce degli sconfitti, e di quell’America dalle mani rugose lasciata da
sola a combattere contro gli spaventapasseri. Usando un songwriting privo di
intellettualismi, e un linguaggio semplice e diretto, ispirato dalla lettura di
scrittori come John Steinbeck
o Larry McMurtry,
è riuscito ad arrivare al cuore della sua gente. “C’è pioggia sullo spaventapasseri e sangue sull’aratro. Questa
terra ha nutrito una nazione, questa terra mi ha reso orgoglioso. Mi dispiace
figliolo, che questi siano soltanto ricordi per te.“ (Rain on
the Scarecrow) Quando nel 1987
incide “The Lonesome Jubilee”
nel suo rock fino ad allora prettamente chitarristico avviene la prima delle
sue tante svolte; inietta nel suo sound
rollinstoniano un’impetuosa dose di strumenti acustici (violini, fisarmoniche,
mandolini, lap-steel, autoharp, dobro, banjo, pedal-steel) per raccontare della
difficoltà del vivere e di quella solitudine in cui sono stati lasciati
agricoltori e contadini, da un sistema
bancario spietato e disumano, che sa solo strangolarli fino
alla morte. Un album che è un urlo di dolore per le ferite subite, da non
potersi più rimarginare. A distanza di trent’anni “The Lonesome Jubilee” mantiene
intatta tutta la sua magnetica bellezza, e resta un caposaldo per ogni nuova
band dedita al genere americana.
Il piccolo bastardo però non è mai stato un tipo facile: un carattere spigoloso
e burbero il suo, che alle volte lo ha fatto apparire indisponente quasi
al limite dell’antipatia; ma che lo ha anche protetto e gli ha consentito di
non montarsi la testa di fronte ai milioni di dischi venduti; usando invece
quella forza per sperimentare sempre nuove strade sonore. “Big Daddy” del 1989 è il disco in cui si firma
per l’ultima volta Cougar,
ed è una lunga e malinconica ombra su un piccolo e misconosciuto Nebraska, che attraversa con
toni dimessi e tormentati la povertà della gente e le umiliazioni, raccontando
di quei sogni infranti e della disperazione che l’amministrazione Reagan ha causato a milioni di
persone. In quel drappello di canzoni secche e solitarie, c’è spazio per
rilasciare un piccolo capolavoro folk, che è la memorabile Jackie Brown. Per qualche
strana ragione John Mellencamp
è sempre stato sottovalutato dai più, ritenuto un gregario, una penna di
secondo livello; ma la sua è una discografia solida, piena di stelle
arrotolate nel cielo, dischi che sanno spaziare anche tra suoni più
moderni, come ha fatto in “Dance
Naked” (1994)
e “Cuttin’ Heads” (2001) rimanendo comunque sempre
fedele a se stesso, sempre attento a raccontare quelle storie di quegli uomini
che non c’è l’hanno fatta, ma che nonostante la sofferenza e le mortificazioni
restano pieni di dignità. Musica rock libera, calda e nuda, influenzata dal
country, dal blues, come dal folk la sua, che meriterebbe ben altri
riconoscimenti. John Mellencamp è
uno che non si è mai messo in vendita, anzi ci ha sempre messo la faccia nel
criticare i vari Presidenti che si sono avvicendati alla White House, cosa che di
certo non gli ha portato favoritismi. Anche dopo l’elezione di Donald Trump non ha fatto
mancare il suo grido di dolore pubblicando in anteprima il singolo Easy Target, tratto dall’album
appena uscito, “Sad
Clown & Hillbillies” qui posta in chiusura del disco. Una canzone che è ancora una
volta una denuncia politica, una preghiera austera e implacabile, cantata con
una voce malinconica, sempre più simile a quella del crooner Bob Dylan.
“Well let the poor be damned and the easy targets too. All are created equal, equally beneath me and you. Children crying under the time keeping sun. The war on the easy targets. We won’t ever, get this done. Easy targets.”
L’album da qualche giorno in circolazione è un tuffo nelle radici più profonde dell’american music. Sembra che aleggi lo spirito dell'uomo nero lungo il tragitto di questo disco, non per la presenza di Carlene Carter, ma per quell’atmosfera rurale e mistica assai cara a Johnny Cash. È una strada piena di dolore quella che attraversa, una scia di polvere marrone, giacigli e carri merci, angeli desolati con fagotti sulle spalle, ferrovie e albe grigie. Corpi infreddoliti e indifferenza, gente ferita dalla vita che si muove nel mondo con una certa cautela. I primi tre pezzi dell’album sono in perfetto stile Mellencamp, e anche il duetto con Martina McBride non aggiunge nulla di nuovo a quello che già sappiamo su di lui; poi arriva Indigo Sunset (cantata con Carlene Carter) e il disco decolla, anche se What Kind Of Man Am I ha la stesso intro di accordi della Hurt di Cash, non si ha più voglia di mollarlo questo disco, per quella profondità della voce mai così espressiva e piena di pathos che ha raggiunto; e che lo apparenta sempre di più al cantato maturo di Bob Dylan: esplicativa in questo senso è proprio la title track Sad Clown. Chi non ha mai prestato attenzione alle sue canzoni può iniziare da qui il suo viaggio; gli altri con le suole degli stivali bucati arrancheranno nel buio, reduci da quella fuga solitaria che li ha messi un giorno su quelle strade polverose, sapendo bene che non sarebbero più tornati indietro da quelle notti con la fuliggine sulla fronte, e il cuore a pascolare fuori da qualsiasi recinto. Ha smesso di piovere adesso, e il sole è venuto su. Non si sentono più rumori lungo la strada, e le nuvole cigolando sembrano dissolversi nell’ombra. Un disco per tutti, buoni e cattivi.
“Well let the poor be damned and the easy targets too. All are created equal, equally beneath me and you. Children crying under the time keeping sun. The war on the easy targets. We won’t ever, get this done. Easy targets.”
L’album da qualche giorno in circolazione è un tuffo nelle radici più profonde dell’american music. Sembra che aleggi lo spirito dell'uomo nero lungo il tragitto di questo disco, non per la presenza di Carlene Carter, ma per quell’atmosfera rurale e mistica assai cara a Johnny Cash. È una strada piena di dolore quella che attraversa, una scia di polvere marrone, giacigli e carri merci, angeli desolati con fagotti sulle spalle, ferrovie e albe grigie. Corpi infreddoliti e indifferenza, gente ferita dalla vita che si muove nel mondo con una certa cautela. I primi tre pezzi dell’album sono in perfetto stile Mellencamp, e anche il duetto con Martina McBride non aggiunge nulla di nuovo a quello che già sappiamo su di lui; poi arriva Indigo Sunset (cantata con Carlene Carter) e il disco decolla, anche se What Kind Of Man Am I ha la stesso intro di accordi della Hurt di Cash, non si ha più voglia di mollarlo questo disco, per quella profondità della voce mai così espressiva e piena di pathos che ha raggiunto; e che lo apparenta sempre di più al cantato maturo di Bob Dylan: esplicativa in questo senso è proprio la title track Sad Clown. Chi non ha mai prestato attenzione alle sue canzoni può iniziare da qui il suo viaggio; gli altri con le suole degli stivali bucati arrancheranno nel buio, reduci da quella fuga solitaria che li ha messi un giorno su quelle strade polverose, sapendo bene che non sarebbero più tornati indietro da quelle notti con la fuliggine sulla fronte, e il cuore a pascolare fuori da qualsiasi recinto. Ha smesso di piovere adesso, e il sole è venuto su. Non si sentono più rumori lungo la strada, e le nuvole cigolando sembrano dissolversi nell’ombra. Un disco per tutti, buoni e cattivi.
Bartolo Federico
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