sabato 13 maggio 2017

Bersaglio Facile


John Mellencamp come il vecchio personaggio di Waits Frank Leroux ha da tempo appeso i suoi anni selvaggi al chiodo ma, invece di conficcarli nella fronte di sua moglie e di dar tutto alle fiamme, si è abbandonato alla malinconia e alla riflessione. Quel duro teppista che ai tempi di “America Fool” (1982) si faceva chiamare il puma, e che anche nel seguente “Uh-Huh” (1983) suonava un rock selvaggio figlio dei Rolling Stones; lentamente ha cambiato direzione facendo posto a canzoni dalla forte presa sociale, scavando nelle zone buie dell’animo umano. Così come un nuovo Woody Guthrie, disco dopo disco è diventato portavoce degli sconfitti, e di quell’America dalle mani rugose lasciata da sola a combattere contro gli spaventapasseri. Usando un songwriting privo di intellettualismi, e un linguaggio semplice e diretto, ispirato dalla lettura di scrittori come John Steinbeck o Larry McMurtry, è riuscito ad arrivare al cuore della sua gente. “C’è pioggia sullo spaventapasseri e sangue sull’aratro. Questa terra ha nutrito una nazione, questa terra mi ha reso orgoglioso. Mi dispiace figliolo, che questi siano soltanto ricordi per te. (Rain on the Scarecrow) Quando nel 1987 incide “The Lonesome Jubilee” nel suo rock fino ad allora prettamente chitarristico avviene la prima delle sue tante svolte; inietta nel suo sound rollinstoniano un’impetuosa dose di strumenti acustici (violini, fisarmoniche, mandolini, lap-steel, autoharp, dobro, banjo, pedal-steel) per raccontare della difficoltà del vivere e di quella solitudine in cui sono stati lasciati agricoltori e contadini, da un sistema bancario spietato e disumano, che sa solo strangolarli fino alla morte. Un album che è un urlo di dolore per le ferite subite, da non potersi più rimarginare. A distanza di trent’anni “The Lonesome Jubilee” mantiene intatta tutta la sua magnetica bellezza, e resta un caposaldo per ogni nuova band dedita al genere americana. Il piccolo bastardo però non è mai stato un tipo facile: un carattere spigoloso e burbero il suo, che alle volte lo ha fatto apparire indisponente quasi al limite dell’antipatia; ma che lo ha anche protetto e gli ha consentito di non montarsi la testa di fronte ai milioni di dischi venduti; usando invece quella forza per sperimentare sempre nuove strade sonore. “Big Daddy” del 1989 è il disco in cui si firma per l’ultima volta Cougar, ed è una lunga e malinconica ombra su un piccolo e misconosciuto Nebraska, che attraversa con toni dimessi e tormentati la povertà della gente e le umiliazioni, raccontando di quei sogni infranti e della disperazione che l’amministrazione Reagan ha causato a milioni di persone. In quel drappello di canzoni secche e solitarie, c’è spazio per rilasciare un piccolo capolavoro folk, che è la memorabile Jackie Brown. Per qualche strana ragione John Mellencamp è sempre stato sottovalutato dai più, ritenuto un gregario, una penna di secondo livello; ma la sua è una discografia solida, piena di stelle arrotolate nel cielo, dischi che sanno spaziare anche tra suoni più moderni, come ha fatto in “Dance Naked” (1994) e “Cuttin’ Heads” (2001) rimanendo comunque sempre fedele a se stesso, sempre attento a raccontare quelle storie di quegli uomini che non c’è l’hanno fatta, ma che nonostante la sofferenza e le mortificazioni restano pieni di dignità. Musica rock libera, calda e nuda, influenzata dal country, dal blues, come dal folk la sua, che meriterebbe ben altri riconoscimenti. John Mellencamp è uno che non si è mai messo in vendita, anzi ci ha sempre messo la faccia nel criticare i vari Presidenti che si sono avvicendati alla White House, cosa che di certo non gli ha portato favoritismi. Anche dopo l’elezione di Donald Trump non ha fatto mancare il suo grido di dolore pubblicando in anteprima il singolo Easy Target, tratto dall’album appena uscito, “Sad Clown & Hillbillies” qui posta in chiusura del disco. Una canzone che è ancora una volta una denuncia politica, una preghiera austera e implacabile, cantata con una voce malinconica, sempre più simile a quella del crooner Bob Dylan.
“Well let the poor be damned and the easy targets too. All are created equal, equally beneath me and you. Children crying under the time keeping sun. The war on the easy targets. We won’t ever, get this done. Easy targets.”
L’album da qualche giorno in circolazione è un tuffo nelle radici più profonde dell’american music. Sembra che aleggi lo spirito dell'uomo nero lungo il tragitto di questo disco, non per la presenza di Carlene Carter, ma per quell’atmosfera rurale e mistica assai cara a Johnny Cash. È una strada piena di dolore quella che attraversa, una scia di polvere marrone, giacigli e carri merci, angeli desolati con fagotti sulle spalle, ferrovie e albe grigie. Corpi infreddoliti e indifferenza, gente ferita dalla vita che si muove nel mondo con una certa cautela. I primi tre pezzi dell’album sono in perfetto stile Mellencamp, e anche il duetto con Martina McBride non aggiunge nulla di nuovo a quello che già sappiamo su di lui; poi arriva Indigo Sunset (cantata con Carlene Carter) e il disco decolla, anche se What Kind Of Man Am I ha la stesso intro di accordi della Hurt di Cash, non si ha più voglia di mollarlo questo disco, per quella profondità della voce mai così espressiva e piena di pathos che ha raggiunto; e che lo apparenta sempre di più al cantato maturo di Bob Dylan: esplicativa in questo senso è proprio la title track Sad Clown. Chi non ha mai prestato attenzione alle sue canzoni può iniziare da qui il suo viaggio; gli altri con le suole degli stivali bucati arrancheranno nel buio, reduci da quella fuga solitaria che li ha messi un giorno su quelle strade polverose, sapendo bene che non sarebbero più tornati indietro da quelle notti con la fuliggine sulla fronte, e il cuore a pascolare fuori da qualsiasi recinto. Ha smesso di piovere adesso, e il sole è venuto su. Non si sentono più rumori lungo la strada, e le nuvole cigolando sembrano dissolversi nell’ombra. Un disco per tutti, buoni e cattivi. 
Bartolo Federico


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