Quando si ascolta "All That
May Do My Rhyme" di Roky Erickson uscito nel 1995, è come starsene nella California
dei vagabondi con un sacco in spalla, e certi sogni sudati e stonati sotto
il cappello. Sono gli anni sessanta, i giorni di quando si aveva fiducia nel prossimo e si dormiva in spiaggia
attorno a un falò, e c'erano viandanti che sbucavano da tutte le parti che incrociavi anche
solo con uno sguardo, e pure quella era un emozione profonda. Allora non contava dove eri diretto, quello che
importava era la voglia di sentire strisciare sulla tua pelle quel
brivido caldo che ti sconvolgeva, per essere passato soltanto da
lì. Era il tempo dell'autostop e della difficoltà a farsi prendere su,
mentre le nuvole t'inseguivano e l'odore dell'erba ti sfangava le narici.
C'erano un mucchio di novelli Jack Kerouac lungo la strada presi da quell'andare non importa dove, antiborghese, antimilitare, schiocchi e
babbei che credevano che si potesse cambiare il mondo con le chitarre e la
musica rock, sgasando e frenando in quelle fughe solitarie attraverso il deserto, insieme alle canzoni di Bob
Dylan e la poesia eccitata
di Allen Ginsberg. Ma come si spiega adesso che quel mondo è
morto e sepolto, che quello spirito di ribellione è rimasto soffocato
sotto rotoli di catrame, di odio, di sogni infranti e promesse mai
realizzate? Quel modo di scolarsi la vita, non esiste più. Ma è quel viaggio che senti scorrere attraverso queste canzoni e
questa voce libera e pura, perché l’animo di Roky Erickson non conosce malizia, ma soltanto la confusione selvaggia di chi si
è perso nella più eccitata quotidiana disperazione di vivere.
Bartolo Federico
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