L’amore è solo dentro quelle stupide canzonette da quattro soldi,
che fanno arricchire quei cantanti e discografici da strapazzo che le
mettono ancora in giro. Sono scritte e suonate a immagine e somiglianza
dei loro sogni… ma chi cazzo se ne frega del festival di Sanremo,
con tutti i problemi che abbiamo. Per uno come me poi, che ha preso da
tempo brutte abitudini e non ha più fiducia in nessuno, l’amore è solo
una bella e sana scopata, quando capita. Il mio compare di tavolino è davvero un tipo loquace, e da un bel pezzo mi cicaleggia vicino l’orecchio le sue inquietudini. “Li sento già gli innamorati, seguita a dire inveendomi contro; ehi stronzo, l’amore e quello che ti cambia la vita, che ti fa volare, e ti riempie di speranza”…. e bla, bla, bla,
via discorrendo. Ma a queste cose ci credono solo quei poveracci, che
ancora abboccano a quelle filastrocche. Certo, quando sei giovane e
preda dei furori infantili, sei giustificato: l’amore ti abbaglia la vista e il cuore, e ti rende vulnerabile.
Dopo, è come la pioggia e il vento. È un farsi compagnia, un tentare di
comprendersi nell’infinita differenza dei caratteri di ciascuno di noi.
Allungò un braccio e ordinò un whiskey. “Per sopportare meglio il marciume che mi porto appresso”,
asserì. Ho udito il sibilo della macchina del caffè dietro di me, e
sorridendogli ho vuotato il mio bicchiere. Mi sono messo a fumare,
cercando di far passare le ore di quel giorno di merda. Sono solo stronzate quelle canzoni.
Non hanno niente a che vedere con l’amore, folle, ribelle,
disinteressato e infuocato. Quello che ti contorce le budella e ti
ubriaca di passione. “Il fatto, amico mio, è che vogliamo prendere tutto per noi, senza mai pagare niente”, concluse, gettandosi dentro le viscere il J&B che il barista gli aveva posato sul tavolino. Poi, con tono scuro mi chiese: “E tu, da quanto sei andato a fondo?” Non è un posto cattivo il bar scommesse
dove mi trovo. Si sta tranquilli. Il titolare è un ragazzo che ci
lascia anche fumare… ma non troppo. Da lì dentro posso vedere la gente
passare di fretta, e sbirciare anche una fetta di cielo. Non è poco. La
maggior parte dei clienti sta radunata attorno a un tavolino in fondo
alla sala dove prepara le proprie scommesse, senza fare troppo baccano.
Navigano nella speranza di acchiappare, quantomeno, i soldi per la spesa
dell’indomani. Sembra di essere sospesi in un altro mondo, c’è una
strana atmosfera. Come se John Coltrane si fosse celato da qualche parte e suonasse un blues, in modo lieve ma doloroso. Mi piace questo posto… e anche quella ragazza
con tutti quei capelli sciolti di fronte a me che ha due labbra
fantastiche. Sembra una puttana, non lo dico in senso sprezzante, ma
solo per individuare le tipe per cui un uomo è pronto a fare follie, pur
di possederle. Le altre che uno incontra sono come l’aperitivo prima
del pranzo domenicale, come una pietanza un po’ sciapa. Questo loro lo
sanno bene. Difatti sono le più stronze, le più dure, le più arrabbiate
di tutte. Sono rientrato nel mio piccolo buco, e ho guardato le cose di cui mi circondo. Le chitarre, i dischi, la scrivania, i libri, e il divano malandato che mi ha lasciato in regalo il vecchio inquilino. Sullo scrittoio c’è la mitica macchina da scrivere di mio padre, che però non uso mai. Ho staccato il cellulare, ho acceso lo stereo e messo del blues a ciclo continuo. Sono andato alla finestra, dietro di me la musica si è fatta sempre più straziante.
Si resta soli senza rimedio. Succede sempre così quando hai smesso di
piacere. Chiodo schiaccia chiodo è la migliore soluzione. Ho preso la
chitarra e con le dita ho sfiorato le corde. Era intonata e pronta a
suonare. Non è altro che un combattimento la nostra esistenza,
fatta di rinunce, tristezza, piccoli e grandi dubbi. Allora si
retrocede verso la trincea, stanchi esausti, e non si ha più voglia di
combattere, ma solo di starsene lontani dal genere umano. Rintanati in
silenzio nel proprio pertugio. Quelli che hanno visto la mano della
fortuna cambiare rotta sanno che non c’è proprio nulla da vincere in
questa vita. Lei se n’era andata alla chetichella. Era fuggita di mattina presto.
Come anche a me era capitato di fare. Succede, a chi confessa qualcosa,
che provi un senso di paura, di vuoto. Può anche darsi che non aveva
retto alla mia confusione… ma non mi andava di darle alcuna colpa. In
fondo, non volevo neppure saperlo il perché. Sono andato a lavoro a piedi… è davvero piccola la mia città. Un paio di chilometri e l’attraversi tutta. Ho pensato a mia madre mentre camminavo. Una donna sola, battagliera, austera. Fumava Marlboro pacchetto duro, che comprava a stecche. Dopo passò alle Merit.
Quando la penso, lo sento ancora presente quell’odore di sigarette che
le impregnava i capelli ispidi. E la rivedo seduta vicino alla finestra
della cucina, silenziosa e assorta, con il busto piegato in avanti che
si regge il viso fra le mani. Ho attraversato la strada e ho sentito
dentro di me Bessie Smih cantare Shipwreck Blues. Come molta gente che soffre di depressione, anche lei nascondeva la bottiglia. Si comportava normale, mentre era esattamente il contrario. Se ne andava a fondo, imbarcando acqua da tutte le parti. Non era riuscita in alcun modo a trovare una rampa di salvataggio… e quei gorghi se l’inghiottirono piano piano. Era una bella donna, mia madre, sfortunata in amore come lo sono in tanti. Io l’ho amata – e anche molto – così com’era. Gli ultimi settecento dollari destinati alla droga li trovarono nascosti nella vagina a Billie Holiday.
Li aveva guadagnati in quel letto d’ospedale, dov’era ricoverata. Aveva
venduto ad un giornale i diritti sulla storia della sua vita. Ogni
tanto servirebbe fare come Sleepy John Estes per
dimenticare ogni cosa. Schiacciare dei pisolini nei posti più impensati…
è davvero un buon modo per staccare la spina e risollevarsi. John viveva a Brownswille, una squallida periferia del Tennessee, un esistenza precaria e indigente, insieme ai genitori e a quindici fratelli. “Quando sei nero, questo basta per farti vivere nella miseria”, ripeteva. Da piccolo fu colpito da un sasso e perse la vista dell’occhio destro. Suo padre gli regalò una chitarra che lui iniziò a suonare nelle feste e ai banchetti, facendosi accompagnare dal mandolinista James “Yank” Rachell e da suo cognato Hammie Nixon all’armonica. Un bluesman Sleepy
dalla voce rauca e sofferente, che arrivava a spezzarsi di commozione
nei momenti più intensi, eseguendo un blues semplice e scarno, ma assai
emozionante. L’aria era di nuovo fredda. Mi sono fatto un caffè e versato due dita di Jack Daniels
in un bicchiere. Ho acceso la lampada sulla scrivania. Non mi va di
firmare assegni in bianco, ed è per questo che non ho mai preteso nulla
da nessuno. Ho sentito un freddo pazzesco, e nella penombra della stanza ho visto molte cose di me. Mi sono reso conto che sono stanco di fingere e di dire bugie per cercare di salvarmi ad ogni costo. Ho sentito una profonda tristezza attraversarmi. Al diavolo! Alle volte occorrerebbe lanciarsi a volo d’angelo nel precipizio e senza paracadute. Il rullo del piano di Poor John Blues mi ha fatto tremare di paura. Sleepy John Estes iniziò a registrare nel 1929 in una stanza del Peadboy Hotel di Memphis per la casa discografica Victor. Fu in quelle sessions che incise anche una rivisitazione magnetica del classico Milk Cow Blues di Kokomo Arnold. Bisogna
stare attenti che non si finisca di sognare. Può accadere tutto in una
volta, senza che nessun campanello d’allarme ce lo segnali… ad un tratto si diventa pigri, abulici, e non si vuol fare più niente, neanche parlare con le nostre ombre.
Me lo disse lei una sera, mentre eravamo seduti a tavola, che
l’esistenza è una messa in scena. C’è ne andiamo tutti quanti in giro,
con la nostra pantomima, calandoci sempre più nel nostro personaggio… e
non c’è verso che si cambi finzione. Siamo attori e registi del nostro
film. Ho fatto una smorfia ed ho pensato che, alla fine, sono quelli che
hanno smesso di dire bugie ad essere chiamati pazzi. Sleepy John Estes era come un cane che aveva preso troppe botte,
e non si fidava più di nessuno. Sin da ragazzo gli piaceva starsene da
solo, e camminare nell’oscurità. Non aveva paura, era in quei meandri
che, in fondo, si sentiva a suo agio. Aveva un carattere ruvido,
difficile, e con l’ombra del male di vivere sempre presente nella sua anima.
Fu una vita durissima la sua. Se penso ad un volto per definire il
blues, quello è il suo. Senza dubbio. Dopo le incisioni per la Victor, se ne andò a Chicago, dove incise per la Decca e anche per la Bluebird, vivendo, però, sempre in modo assai precario. Arrivò a registrare anche con la Sun Records, prima che Sam Philips scoprisse Elvis. Era diventato quasi cieco: si ritirò e scomparve di scena, finendo nel dimenticatoio più assoluto. Nel 1962 lo riscopre, alloggiato in un fienile con la moglie e i suoi cinque figli alla periferia di Brownsville, il regista David Blumenthal che stava girando un documentario sul blues.
Una musica nata nella povertà e nell’ignoranza che, a dispetto del
tempo, non ha perso un grammo della sua magia. Una musica indefinibile
perché racchiude dentro di sé lo spirito stesso dell’uomo. “Il blues non si scrive ma si vive”. Questo me lo ha detto Johnny Shines. Non sempre, ma è possibile dimenticare. Le strade traboccano di bar, di visi, di sorrisi, di cose che lei non avrebbe potuto darmi. Nel primo pomeriggio qualcuno aveva suonato più volte al citofono, ma non avevo risposto. Sleepy John è morto nella povertà più assoluta, i suoi funerali furono pagati da Michael Bloomfield e Ry Cooder, suoi grandi estimatori. Come sempre mi ha soccorso la musica. Mi ha salvato dal precipizio.
Forse, sarà stata colpa della luna, ma avevo trovato ciò che cercavo.
Quando ho smesso di prestarle attenzione, ho pensato che a quell’ora della notte solo i lupi mannari erano in giro, e chi viaggia dalla parte opposta della strada. Il dolore, però, si era tramutato in rabbia, ed allora sono uscito. I miei passi risuonavano sul selciato, e faceva un freddo boia. Ho camminato per dei chilometri, nascosto nel buio. I blues continuavano a venire giù, come in un diluvio. Nudo, diritto, silenzioso, immobile, ho ascoltato il vento… ed era come se mi parlasse. In quelle folate ho avvertito l’anima di mia madre,
e anche di altri che non ci sono più. E’ probabile che non abbia saputo
comprendere il suo disagio e prendermi cura di lei. Avevo il morale a
terra. Forse non ho capito mai nulla… ma forse un giorno… Forse,
domani…
nn e'
RispondiElimina'un sogno?!
Tu esisti davvero! BARTOLO FEDERICO !piu' like per te' O.I.
troppo generoso, grazie sempre.
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