Lei si accese una
stupida sigaretta, di quelle lunghe e sottili. Aspirò un paio di boccate
nervose e gettò il fumo dritto sul mio viso. Le luccicavano gli occhi
per la rabbia. Si avvicinò ancor di più e attaccò: - Sei un piccolo
uomo! Dopo averti dato tutto, levandoti dalla merda, te vieni fuori con
questa storiella che le nostre strade non portano da nessuna parte. Hai
sbagliato i conti! te la farò pagare. E con gli interessi, una volta per
sempre.Il
tono duro e minaccioso mi diceva che era nel panico più totale. Vedeva
la sua preda sfuggirgli e questo non poteva tollerarlo. Si dimenava,
urlava, voleva tenere ferme le redini del gioco, come sempre aveva fatto
o come pensava che fosse. La guardai ed anche così infuriata era bella
ed attraente. Ma ero stanco di fingere, di mentire. Come se poi fosse
così facile mentire a se stessi. Da un pezzo l’amore si era corroso il
resto era un dettaglio, uno stupido dettaglio da passarci sopra, da
annientare. Compreso io. Probabilmente
avevamo corso per la stessa meta, ma con il passare del tempo le crepe
del nostro rapporto si erano allargate a un punto tale che era finito in
sala di rianimazione, agonizzante.Ad
Emma tutto ciò non interessava. Ne avevamo parlato spesso negli ultimi
tempi ma, abilmente, sapeva far cadere il discorso. Ciò che le premeva
era una cosa sola: il parere del suo entourage. Non poteva presentarsi
ai loro occhi come una donna sconfitta. Proprio lei, brillante avvocato,
sedotta e abbandonata da uno squattrinato, un fallito, un musicista del
cazzo, come usava dirmi quando voleva ferirmi. Nel suo codice non era
ammesso. Ma quella solitudine mi stava uccidendo, dovevo darci un taglio
e provare a salvare quantomeno quel che restava di me.
-
Sei un bastardo-, continuò feroce e cinica, - Ma chi credi di essere!
Non avendo nulla da rimproverarmi glielo dissi, con una calma che la
fece andare ancora più in bestia. Avrebbe voluto la battaglia, ma non le
offrivo il fianco; allora mi colpì con un pugno. La guardai e, con
quella stessa calma, le dissi di non farlo mai più. E glielo ripetei due
volte. Ma non mi ascoltava, non l’aveva mai fatto prima, perché avrebbe
dovuto farlo adesso che eravamo alla resa dei conti. Tutto il suo corpo
sprizzava odio e disprezzo; aveva il sangue agli occhi e mi colpì
nuovamente con più violenza. Le diedi uno schiaffo, un solo schiaffo in
pieno viso. Barcollò e cadde battendo la testa sullo spigolo del
mobile. Il
mio compagno di cella restò qualche attimo in silenzio poi mi augurò la
buonanotte dicendomi: - Dormi Lee, domani sarà una dura giornata. Mi
avevano trasferito in quel penitenziario dopo aver tentato l’ennesima
fuga. Il trasferimento era una punizione e quello era un carcere di
massima sicurezza, uno dei più duri a cui ero approdato. Ma ero stato
fortunato a finire in cella con Teo perché a volte, raramente ma accade,
si incontrano persone che sin dalla prima occhiata si percepisce che
sono sulla stessa lunghezza d’onda. Con Teo fu proprio cosi. Non appena
varcai la soglia della cella, capii immediatamente che mi sarei potuto
fidare di lui. Mi
svegliai di soprassalto mentre la guardia urlava: - Sveglia! Alzatevi!
Mi tirai su e rifeci il letto. Una volta terminato, uscimmo dalla gabbia
e camminammo in fila indiana. Attraversammo il corridoio fino alla sala
colazione. Stavo imparando le regole, perché ogni carcere ha le sue
regole, a cui devi attenerti se vuoi sopravvivere. Lo avevo appreso a
mie spese. Ci sedemmo nel mezzo del refettorio , di fronte a cinque
detenuti che mi osservarono senza mai rivolgermi la parola. Era il
“Consiglio di Amministrazione”, “i fine pena mai”, gli ergastolani. Teo
fece le presentazioni, spiegando il motivo per cui ero dentro; il mio
biglietto da visita alla comunità. Tra l’altro fu anche la prima cosa
che mi chiese quando varcai la porta della cella. Teo
era un oriundo francese, medico e professore universitario. Un
intellettuale, un uomo leale e corretto, come se ne trovano pochi che,
un bel giorno, si era convertito all’eco-guerriglia. Fondò un quartetto,
chiamato “i Sabotatori”, un gruppo di visionari romantici decisi a
salvare il mondo dagli scempi ambientali voluti dal governo e
dall’industria. Aveva fatto saltare decine di mostruosità restituendo
alla natura ciò che l’uomo ingordamente le toglieva. Lo catturarono i
federali a St Louis insieme alla sua compagna, anch’essa sua complice,
prima che portasse a termine il progetto più ambizioso: far esplodere la
diga del Glen Canyon, che aveva provocato cambiamenti climatici e
geologici irreversibili in tutta l’Arizona.Nei
tre anni passati insieme diventammo amici inseparabili. In quella
prigione, se non ci fosse stato Teo, sarei impazzito. Anche adesso,
mentre guido lentamente su questa vecchia pista di polvere e sudore,
battuta da un venticello tiepido, ho il cuore a brandelli e un immenso
vuoto. Teo continua a mancarmi maledettamente ogni giorno che passa. Mi
mancano le nostre conversazioni, il suo romanticismo squilibrato, la sua
generosità, il suo sorriso semplice e schietto.Nel penitenziario era
amato da tutti. Anche le guardie più “ostiche” lo stimavano. Mai uno
scatto di rabbia o un gesto che potesse offenderle. Non potevi non
volere bene a Teo. Ma a volte i sogni muoiono all’alba. E’ ciò che
successe in quella mattina d’estate. Una debole luce filtrava da sotto
la porta della cella. Mi svegliai agitato, quasi stessi soffocando nel
sonno. Guardai verso la sua branda per chiedergli aiuto, ma non lo vidi.
Appena il tempo di abituare gli occhi alla penombra e lui era lì che
penzolava dal soffitto insieme alla lampadina. Restai nel mio lettino,
accucciato e annichilito, con i brividi di freddo che mi scorticavano le
ossa, incapace di qualsiasi azione. Da quel momento in poi nel carcere
nessuno fu più lo stesso. Su tutti calò una tristezza che non andò mai
più via. Non ricordo altro dei mesi che seguirono la sua scomparsa. Non
sentii più fame, né freddo, né sonno. Ero ridotto uno zombie. E’ come se
il mio cervello si fosse bloccato e avesse cancellato tutto. Fino al
giorno in cui riuscii ad evadere e sparire ero ad un passo dal fare la
sua stessa fine. “I fine pena mai” vennero in mio aiuto. Quando
mi resi conto che Emma non si sarebbe più rialzata chiamai la Polizia e
aspettai il loro arrivo, seduto sui gradini del salone. I poliziotti
giunsero a sirene spiegate, entrarono in casa e fecero un veloce
sopralluogo. Dopo, mi ammanettarono e mi portarono al comando. Sbrigate
le formalità di rito, mi interrogarono. Avrebbero voluto una
confessione, dato il blasone della vittima, ma non caddi mai in
contraddizione, perché semplicemente raccontavo la verità. Risposi alle
loro domande, anche le più scabrose, spiegando che era stato un
incidente, un fottuto banale incidente. Lo gridai più volte, ma nessuno
mi ascoltava, proprio come lei. Ero l’ultimo della fila. A chi vuoi che
importi di un musicista del cazzo!La mattina dopo, ormai sfinito, con
gli occhi che cadevano dalle palpebre, firmai il verbale della mia
deposizione e mi chiusi nel silenzio più totale. Non parlai più neanche
al processo. Non ne valeva la pena. Lo sbarramento di fuoco innalzato
dalla famiglia di Emma contro di me avrebbe distrutto chiunque. E cosi
fu.
Bartolo Federico
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