L’insonnia ci imbratta di grigio i giorni, le
settimane, gli anni e rende la vita un inferno. Ci si alza con la bocca
impastata d’amaro e si sprofonda lentamente verso l’abisso. E in quei momenti
che comprendiamo che l’esistenza è davvero troppo corta per capire ogni cosa. Ed
allora si resta esitanti lì fermi nel buio.
La famigliola aveva trovato alloggio sulla
carcassa bruciata di un vecchio furgone Volkswagen. Chi avrebbe dovuto
prendersi cura di loro gli aveva invece pignorato la casa e gettati senza pietà
nella disperazione più cupa. Si dice che quando gli avvoltoi si posano su un
albero quell’albero comincia a morire. “Arrangiatevi!” ripeté il solerte
funzionario dell’Agenzia di Stato, non trattenendo un ghigno di soddisfazione verso
quella donna che lo supplicava, già chiedendosi come avrebbero fatto adesso senza
più una dimora. I poveri sono sempre lasciati da soli. Ed essere soli è come
allenarsi a morire. Del resto, anche il mondo fa sempre finta di avere
comprensione per i poveri, ma, se sparissero in un botto, i ricchi farebbero
salti di gioia. Insomma, ci sarebbero meno esseri spregevoli in mezzo alla
strada a chiedere l’elemosina, a vivere di espedienti. Perché ai poveri nulla è
concesso se non di crepare. Sono esseri depressi, irritabili, pulciosi. Gente che
scivola nell’alcool, che ruba e cammina sbandando. Che non si lava e puzza
maledettamente. Solo ad alcuni di loro è concesso di lavorare e così questi disgraziati
fanno di tutto per piacergli, per lasciarli contenti a quelli benestanti.
Sperando in chissà cosa. Ci vogliono uomini tristi per cantare il blues. C’è la
fila lì fuori.
A Jackson,
in Tennessee, la giornata di lavoro si spegneva là dove
iniziava, tra le piante di cotone. Sul lato opposto del campo calava la notte.
Ogni volta diversa, ogni volta la stessa. John
Lee Williamsom a soli quindici anni lascia la casa dei genitori e si reca a
Brownsville dove c’era una florida
attività musicale. Qui si unisce ad alcuni musicisti, vagabondi anche loro,come lui poverissimi. Sleepy John Estes,
Yank Rachell, Big Joe WiIliams e
Robert Nighthawk gli fanno guadagnare ben presto il soprannome di “Sonny Boy”, nomignolo che diventerà celeberrimo per ogni armonicista
blues. Dopo essere stato un po’ di tempo a Memphis,
suona con Sunnyland Slim, e nel 1937
si sposta a Chicago dove la sua fama
si diffonde in fretta e lui diventa uno dei bluesman più richiesti della scena
musicale. Tanto da collaborare con Big Bill
Broonzy, Tampa Red, Big Maceo, Blind John Davis. Fu il suo immenso, folle, geniale talento che
fece fare passi da gigante a quel piccolo strumento, fino ad allora considerato
troppo semplice da suonare. Sonny Boy inizia a usare fraseggi complessi e
articolati con uno stile molto pulito, che egli colora con effetti propri. Adopera
l’armonica come un prolungamento della voce ed è il primo ad inspirare invece
che soffiare dentro la griglia, utilizzando, come mai nessuno, le mani e la lingua per
modulare le note. Ne esce fuori un suono selvaggio, riconoscibile da subito. Sonny Boy Williamson, insieme a Blind Lemon Jefferson, Robert Johnson e Blind
Boy Fuller, fu uno di quei re del
blues che morirono giovani. Lo trovarono per strada, riverso in una pozza di
sangue, con un punteruolo per ghiaccio conficcato nella tempia. Quel sorriso
contagioso che spandeva quando suonava si era tramutato in una smorfia di
dolore. Chi lo vide per l’ultima volta raccontò che stringeva ancora l’armonica
tra le mani. Con il successo Sonny Boy stava ringiovanendo dentro, stava
perdendo per strada le menzogne e quella paura di dovere obbedire che gli era
stata inculcata sin dalla nascita nei campi di cotone. Troppa grazia per uno
nato povero e per di più di colore. Laggiù nel Delta dicevano: Uccidi
un negro ne trovi un altro; uccidi un mulo ne compri un altro.. (Complete Recorder Vol 1-5, Sonny Boy Wiliamson Vol. 1 1937-1939 )
Quel giorno era come se non ci fosse, appannato
com’era, sotto i banchi di pioggia. Al centro di riabilitazione per ex
alcolisti, mi avevano suggerito che dovevo ripartire da quello che avevo, che
dovevo fermarmi, perché la strada mi avrebbe consumato. Me lo ripeterono
all’infinito di piangere quanto ero capace, stando a loro mi avrebbe fatto
bene. Tornando a casa posteggiai l’auto e, non so per quale strano motivo, mi
sedetti sulla banchina sotto la pioggia con il bavero della giacca alzato. “Il
blues è la musica più difficile da suonare, se non lo conosci a fondo rischi di
eseguire per due ore sempre la stessa cosa”. Così aveva sentenziato un giovane Eric Clapton, uno che era stato sotto
il diluvio. Un musicista che aveva scritto pagine di musica bellissime (Cream, Derek and the Dominos) e che si
era inzuppato l’anima nei grandi King
del blues; Albert, Freddie e B.B.
Nel 1970 emerge come solista con un sound personale e moderno ispiratogli da
quel cane randagio di J.J. Cale. Clapton
sa convogliare magnificamente il country blues e il blues elettrico, vestendo le
canzoni con melodie romantiche e seducenti. Dalla sua Fender tira fuori un
suono dolente e morbido, pigro come quei
pomeriggi passati a dondolarsi senza far nulla. Quei pomeriggi senza fretta di tanti
anni fa, quando il tempo non ti rincorreva mai poichè eri tu a tentare di
afferrarlo.
Un figlio del diavolo, Eric, che si era lasciato
andare a tutte le passioni e a tutti gli eccessi che la vita consente. Quando
nel 1974 uscii 461 Ocean Boulevard, si era da poco disintossicato dall’abuso di
eroina. Ed è in questo disco che riesce a
portare il blues dal filo spinato del Delta a sotto il cielo dei caraibi. La musica,
il suono delle chitarre, e la sua voce pacata e gentile creano un atmosfera di
totale abbandono che fa venire la voglia di starsene sdraiati su una battigia
illanguidita dalle onde del mare. Le canzoni sono come sogni sognati ad alta
voce. Così, mentre guardo le nubi minacciose che incombono nuovamente nel cielo,
la melodia struggente di Please Be With Me
mi fa credere di essere come davanti a uno specchio offuscato dal vapore che quando
con un panno lo togli ti offre il tuo
riflesso. E’ l’amore o sono io a cambiarmi così velocemente?
Guardo fuori, mi sento libero, mi siedo sul letto, immagino le cose che sono
state. Ho detto che ci avrei pensato su ed ho perso la testa. Vorresti leggere
i miei segni? Sii una zingara e parlami delle cose che spero di trovare nel mio
profondo…
Gli Allman Brothers con Stormy Monday stavano ottenendo un
grande successo mentre T-Bone Walker, era relegato in un letto
d’ospedale per un brutto incidente d’auto avuto insieme al suo amico Eddie “Cleanhead” Vinson. Era un
periodo difficile, quello, per il “magro”.
Poco tempo prima aveva contratto anche la tubercolosi, ma la sua voglia di
suonare era rimasta immutata e stava lentamente rinascendo. Quell’avvenimento, però,
lo sentiva come una vera iattura. Sdraiato sul letto del nosocomio gli venne in
mente quando il suo maestro Blind Lemon
Jefferson gli disse che, prima o poi, il diavolo avrebbe bussato alla sua
porta reclamando il conto. Ma allora aveva solo dodici anni e non poté capire. A
Dallas, in Texas, le cose gli andavano a rilento. Tutto quello che aveva fatto
durante la sua vita era di attraversare il mondo portando al collo la sua
chitarra come fosse un talismano. Un vero maestro di blues, T-Bone Walker, che aveva
esplorato fino in fondo le possibilità della sei corde. Il suo modo di suonare
era ricco e variegato, sapeva enfatizzare qualsiasi passaggio ed era dotato di
una voce piena e ben impostata. Poteva suonare complessi accordi e,
indifferentemente, stare con una Big Band o con gruppi più ridotti. Ma non
sempre gli altri musicisti erano in grado di andargli dietro. Era uno dei pochi
chitarristi apprezzato anche dai jazzisti più esigenti.
Nel 1935 elettrificò il suo strumento
e fu uno dei primi a farlo. I
chitarristi B.B King, Freddie King, Albert King, Buddy Guy, Otis Rush, Jimi
Hendrix, Eric Clapton, Stevie Ray Vaughan, gli sono tutti debitori. Per
sopravvivere quel fuggiasco senza riposo aveva fatto di tutto. Sapeva come
guadagnarsi la pagnotta da quando girava con i carrozzoni itineranti e si improvvisava ballerino o mimo. Poi cominciò
ad esibirsi anche come cantante e chitarrista. Suonava con lo strumento dietro
la schiena o tra le cosce, e si lanciava in spaccate vertiginose. Chuck Berry prese spunto dai suoi gesti
per il suo famoso passo d’anatra. La
strada lo aveva forgiato duramente. Quando si è poveri, andare avanti è
durissima. Così qualche compagnia sbagliata lo aveva messo nei guai con la
giustizia. Sentì arrivare l’attacco di tosse e il dolore gli lacerò il petto. Su
quel letto d’ospedale, al di là del vetro guardava la gente andare e venire
nella pioggia. L’alcol gli piaceva, era il suo demone. Aveva imparato a bere
adolescente, nel tempo in cui andava in giro per le strade di Deep Ellum insieme
a Blind Lemon Jefferson e Lightnin’ Hopkins.
T-Bone, sfruttando il suo enorme talento, aveva provato ad uscire dalle
umiliazioni, dalla mediocrità, e cercato
di mettersi al passo con il mondo. Ed in parte c’era riuscito. Ma i nostri errori
ci disarmano e restiamo muti a fissarli quando ci travolgono.
Il Magro tirò
dalla sigaretta e il vento gli portò via il fumo a fior di labbra. Restò a
fumare li sulla porta del club. Aveva appena finito di far piovere poesia con
la sua magica chitarra, sempre addosso, sempre il suo portafortuna. Quando finì
di fumare, con un gesto brusco lanciò via la cicca che, sbattendo sul muro,
formò un fascio di scintille che gli sembrarono piccole stelle. S’incamminò
sulla stradina laterale e nel buio pesto della notte sparì per sempre. C'è
solo un ultimo favore che vi chiedo. C'è solo un ultimo favore che vi chiedo.
C'è solo un ultimo favore che vi chiedo. Badate che la mia tomba sia tenuta
pulita (See That My Grave Is Kept Clean - Blind Lemon Jefferson) T.Bone Walker
- The Bluesway Session
Lei trafficava in cucina preparando
la cena, quando, ad un tratto, disse senza guardarmi: “non avrei mai pensato
che la nostra vita potesse ridursi a questo”. Stavo alla finestra scrutando la
pioggia cadere. E mi sentii impotente e vuoto come un tamburo. Così me ne
restai in silenzio ad ascoltare il rumore dell’acqua che batteva sul colatoio
di metallo. Eravamo stati giovani, ribelli, pieni di speranza e fiduciosi. Tutte
cose che il tempo forse si era inghiottito in un botto. Cenammo senza dire
niente. La pioggia non aveva smesso di ruzzolare e dall’altra parte del vetro
non si vedeva più nulla. Sapevo che niente era più al suo posto, che tutto era
cambiato. I soldi se ne vanno alla svelta quando non ne entrano altri. Così
l’acqua alla gola ce la si trova all’altezza del naso. Forse mi sarebbe bastato
lavorare di più in estate e tutto sarebbe andato per il meglio. Dicono
che quando piove è la volta che un uomo ha il Blues. (Rainy Day Blues - Lightnin’ Hopkins). Appena finito di cenare mi
sedetti vicino la finestra e accesi una sigaretta. Soffiai il fumo sul vetro
che si intorbidì. E nel silenzio di me stesso, quasi fosse un gospel, cantai i
versi di quel blues, quel vecchio blues che mi portavo appresso come un talismano:
Il
sole splenderà sulla mia casa un giorno, il vento si alzerà e porterà via il
mio blues, porterà via il mio blues…
Bartolo Federico
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