Guidare
mi era sempre piaciuto, specie quando non avevo mete da raggiungere e potevo
tenere gli occhi incollati sull’asfalto e naufragare dentro le mie rovine
interiori. Ma era anche un modo per staccarmi da me stesso e da quello che mi
circondava innalzando le mie barriere di protezione. In quel pomeriggio dai
colori opachi provavo quella sensazione. Guidavo con la radio spenta,
accompagnato dal rumore della pioggia che era arrivata fredda e inaspettata
picchiando con foga sul parabrezza dell’auto. Facevo strada e mi chiedevo
perché mai le cose che mi riguardavano avessero preso da molto tempo ormai
quella brutta piega. Certo non ero mai stato un tipo accomodante, di quelli che
si mettono seduti in silenzio dopo un buffetto sulla guancia. No, non ero
mai stato quel genere di persona. Anzi, a guardarmi col senno del poi, ero
stato anche fin troppo ribelle ma anche un ingenuo. Tanto che, per non
impazzire del tutto, avevo dovuto saltare la staccionata infilandomi dritto
dritto su quelle strade secondarie, intrise dalla polvere e battute da un
venticello muto e solitario. Quelle strade ignorate, dimenticate dai più.
Troppo scomode per percorrerle, se sei un turista, con quell’asfalto abraso dal
tempo ma proprio per questo suggestive e struggenti. Quelle strade che ti
restano incollate al cuore, fatte apposta per tutti quei pazzi allo stato brado
che in questo mondo si sentono soffocare.
La
stanza dove alloggiavo aveva i muri screpolati e grandi chiazze di umidità
negli angoli. Le tende di poliestere una volta bianche erano ingiallite e quasi
trasparenti. Il copriletto di colore beige con grandi fiori rossi era una vera
sciccheria che neanche a girare in un mercatino dell’usato lo avresti
trovato più. Un tavolinetto da picnic, una sedia pieghevole e un piccolo
televisore in bianco e nero che non funzionava facevano l’arredamento. Una
stanza senza troppi fronzoli, a modo suo anche rivoluzionaria, nella sua
semplicità. Una stanza che aveva visto alloggiare un’umanità di diseredati, di
persone che dalla vita non pretendevano più nulla se non di starsene in santa
pace con se stessi. Uomini soli che cercavano il modo per non finire omologati
e di conseguenza anche di esistere.
Tutto il tuo denaro riuscirà a comprare il perdono, a tenerti
lontano dalla malattia o dal freddo? Tutto il tuo denaro ti proteggerà dalla
follia? Ti terrà lontano dalla tristezza quando sei giù in fondo al buco?(Down
In The Hole - Rolling Stones)
In
quella camera con le pareti disegnate, scarabocchiate, imbrattate di frasi
celebri, ma anche di espressioni senza senso apparente, respiravo le storie di
quegli uomini che si erano dispersi nell’immaginario di un mondo troppo vasto,
ma anche troppo crudele. Uomini bruciatisi in fretta, sovrastati dalla
malinconia dei loro stessi sogni. Quella solitudine profonda che regnava in
quelle quattro mura metteva a nudo quelle anime che ci potevo quasi parlare. Mi
addormentai senza mangiare con la faccia rivolta alla finestra mentre gocce di
pioggia entravano dall’infisso bagnandomi il viso. L’indomani un sole sparato
filtrò dalla persiana svegliandomi. E quando schiusi gli occhi lessi quella
frase che la sera nella penombra mi era sfuggita. Qualcuno l’aveva
scritta con una biro nera e con mano tremante ”ogni obbedienza è un’abdicazione”(Bakunin). Mi alzai dal letto di scatto ché ero pronto
ad andare. Alle volte bisogna accontentarsi e prendere quel che capita per
tirare avanti.
Uscito
dal paese, proseguii diritto per un paio di chilometri, poi svoltai a destra e
subito dopo a sinistra. Seguendo le indicazioni che un uomo fermo sul ciglio
della strada mi aveva dato, mi ritrovai lungo quella via polverosa, stretta e
tortuosa. Una stradina piena di buche e avvallamenti, affiancata da un ruscello
ormai in secca. Una stradina davvero solitaria. Fu allora che ripensai a quella
frase che avevo letto sulla parete della stanza, quella frase di Bakunin
l’anarchico, che avevo scritto anch’io da ragazzino cerchiando una A sulla
pagina interna della mia copia di On The Road. E non so spiegare perché
mi venne in mente il villaggio dov’ero cresciuto io, mio nonno Sebastiano e
tutti i miei amici del quartiere. Mi ricordai di quel senso del vicinato che
avevano le nostre famiglie, del sentirci una comunità che ci rendeva davvero la
vita speciale. La nostalgia arrivò e stringò il cielo limpido proprio dove due
uccelli stavano svolazzavano e, intanto che riaprivo la pellicola dei ricordi
sui visi di quelle persone, accesi la radio.
Ebbene, sono così stanco di piangere. Ma sono di nuovo fuori in
strada. Sono di nuovo in strada. Ebbene, sono così stanco di piangere. Ma sono
di nuovo fuori in strada. Sono di nuovo in strada.(On The Road Again -
Canned Heat)
Ascoltai
un giornale radio e, mio malgrado, le previsioni del tempo. Dopo presi a
seguire un dibattito politico sullo stallo governativo che si era verificato in
seguito alle votazioni politiche. Ma tutto quello sbattimento mi suonava
alquanto anomalo. Mio nonno e mio padre erano di pasta antica e da loro avevo
appreso che una volta che stringi un patto, caschi il mondo, lo devi onorare.
Un paese dalla memoria corta, il nostro. Tutto è concesso ai signori del potere
e, abituati come siamo al vassallaggio, non ci si scandalizza dei loro
misfatti. Il dibattito si fece sempre più rovente e basato sul nulla. Eravamo
davvero un paese diviso, lacerato nel profondo, un paese di tifosi che sapevano
farsi egregiamente del male, ma la partita che si giocava riguardava un’orda di
persone senza lavoro e senza alcuna protezione sociale. Gente lasciata sola al
proprio destino che, insieme ad un marea di giovani, era la vittima
sacrificale di quelle politiche, orrende e disumane, che i belzebù europei
avevano dettato e che i politici senza scrupoli avevano messo in vigore. Ma
adesso, come non era mai accaduto prima, una massa di disperati premeva
sull’uscio del grande portone e questa volta si percepiva che qualcosa sarebbe
accaduto. In un modo o nell’altro.
E’ indispensabile che la
gente sia ispirata ad ideali universali,che essi abbiano una generale idea dei
loro diritti e una profonda appassionata fede nella validità di questi diritti.
Quando quest’idea e questa fede popolare si uniscono alla miseria che porta
alla disperazione,allora la Rivoluzione Sociale è vicina ed inevitabile e
nessuna forza al mondo può fermarla.(Michail Bakunin)
Guidai
per ore con la mente impegnata a mettere insieme i tasselli degli ultimi
avvenimenti, accompagnato da qualche nuvola vagabonda e dalla musica di uno
strepitoso John Mayall dell’album The Turning Point. Un disco senza batteria
ridotto strumentalmente ai minimi termini e registrato al Fillmore di New York
il 12 luglio 1969, insieme a Jon Mark, chitarra acustica, Steve Thompson,
basso, e Johnny Almond, sax e flauto. Come un vero beatnik, Mayall da vita ad
un set formidabile, suonando un blues fantasioso e pieno d’anima, mescolando
jazz, strada e poesia che il tempo non ha corroso. Quel sentiero ad un tratto
prese a salire. Il percorso era pieno di gobbe e curve a gomito. Nello
specchietto retrovisore cumuli di polvere si alzavano al mio passaggio.
Cosa hanno fatto loro per la terra? Cosa hanno fatto per la
nostra sorella sempre giusta? Devastata, saccheggiata, strappata e colpita.
Bloccata con pugnali dalla parte dove nasce il sole e bloccata da recinti e
trascinata nella desolazione. (When The Music Is
Over - The Doors)
Con
Sal ci andavamo spesso sul monte Navajo. Così avevamo battezzato quel luogo da
dove potevamo osservare dall’alto la città. Da quel punto sembrava che
potessimo afferrarla e stringerla nel palmo della mano per poi farla sparire.
Ci inerpicavamo in sella alla moto di suo fratello che utilizzavamo di nascosto
quando lui era a lavoro e ci sentivamo liberi, con il vento che ci tagliava in
due il viso, accelerando per quei tornanti e urlando con quanto fiato avevamo
in gola: We want the
world and we want it ..Now Now Now!
Era il nostro urlo di
liberazione intanto che bruciavamo e la pazzia iniziava a serpeggiare dentro di
noi mentre ci “aprivamo
come ragni tra le stelle” (Jack
Kerouac).
In
quale inferno puoi andare lontano dalle cose che conosci, lontano dalle distese
di cemento che continuano a serpeggiare mille miglia al giorno? Guardati ancora
una volta alle spalle, dedica ciò alla memoria e ricorda: che non ti manchi
questo deserto, questo luogo tremendo. Quando te ne vai lascia il cuore fuori
dalle maniche. (Motherland
- Natalie Merchant).
Io
e Lucilla eravamo andati a vivere in un monolocale che avevamo affittato nella
zona nord della città dove i prezzi erano più abbordabili per due squattrinati
come noi. Entrambi eravamo studenti alla facoltà di scienze politiche e per
mantenerci quell’alcova ci arrangiavamo con dei lavoretti nei fine settimana o
dando lezioni private ad ore. Ma era pur vero che la madre di Lucilla veniva in
nostro aiuto puntualmente ogni fine mese. I primi tempi le cose tra di noi
andarono a gonfie vele, addirittura pensavo fosse la donna della mia vita. Poi,
con il passare dei giorni, i nostri rapporti si incrinarono e divennero sempre
più difficoltosi, a tal punto che quando ci si parlava non ci ascoltavamo. Una
sera al mio rientro, trovai la tavola apparecchiata con la cena già pronta e un
solo posto. Mi tolsi il giubbino e lo appoggiai sulla sedia, poi andai nella
camera da letto. Lei era sotto le coperte girata di fianco e non si
voltò. Le chiesi se stava bene. Di rimando mi bofonchiò qualcosa del tipo che
era tutto a posto. Tornai in cucina e cenai. Mangiai molto lentamente e
bevvi la bottiglia di vino per intero. Poi fumai una sigaretta. Mi guardai
intorno e mi sentii un estraneo in quella casa. Ero dentro un mondo che non era
il mio che non mi apparteneva più. Cercai un appiglio a cui aggrapparmi, non trovai
nulla. Davvero, non c’era niente che mi appartenesse in quel posto. Continuai a
sbandare e sentii la testa girarmi, ma fu solo per un attimo. Mi accesi
un’altra sigaretta. Ad un tratto lei apparve sull’uscio, mi guardò con gli
occhi gonfi di lacrime e la faccia stravolta e disse “ci sono mille ragioni per
odiare uno come te, ma anche per amarti. Ancora non ho ben capito quale delle
due sovrasta l’altra”. Girò le spalle e ritornò a letto. Fu tutto. Non le
risposi, non dissi nulla. Racimolai le mie cose ed uscii da quell’appartamento
senza fare rumore. Senza farmi più sentire.
Correvamo verso i sobborghi stringendo tra i denti la fede,
dormivamo sulla spiaggia, in quella vecchia casa abbandonata, distrutti dal
caldo, e ci nascondevamo nelle strade secondarie. Con un amore così difficile e
pieno di sconfitte. Correvamo nella notte per salvare la vita, per quelle
strade secondarie (Backstreets - Bruce Springsteen).
Mi
sistemai a un tavolino che dava sulla strada ordinai un toast e un birra
grande. Tirai fuori un libro dalla sacca e lessi qualche riga. Lo riposi quasi
subito perché non riuscivo a concentrarmi. Bevvi altre due birre, pagai il
conto ed andai via. Quali tracce di me stavo seguendo, mi chiesi mentre
raggiungevo l’automobile. Perché tutto era sempre così complicato?
Era proprio vero, per alcuni la vita non cambia mai di foglio. Quando
ripartii, sgommando, erano le sei del pomeriggio e mi sembrò di essere come un
ladro del mio tempo. Accesi la radio e la slide di Johnny Shines, un perdente
pieno di dignità, mi colpì come un pugno nello stomaco. La sua voce tonante
chiamò il buio e la disperazione, e mi ritrovai all’incrocio tra due strade,
solitario e mesto. Come sempre prigioniero del blues.(Tratto da: Viaggiatori Nella Notte)
Bartolo
Federico
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