Mentre
mi radono i capelli osservo il mio volto stanco e tirato, sono stati giorni
duri questi per me. Ho ingoiato sangue e odio e tutti mi guardano come fossi
merda secca. Ma sono un uomo, un semplice uomo, che ha cercato riparo mentre
imperversava la tempesta. Sono cresciuto in Oklahoma ma sarei potuto nascere in
qualsiasi altra parte del mondo. Quando ero piccolo, rannicchiato nel mio
letto, mia madre mi accarezzava i capelli e pregavamo il Grande Spirito. Poi
spegneva la luce e mi dava il bacio della buonanotte e non chiudeva mai la
porta della mia stanzetta, perché sapeva che avevo paura del buio. Crescendo,
sentivo tante cose nel mio cuore. Per questo in un diario segreto scrivevo
tutto quello che mi passava per la mente. Me lo ricordo ancora, quel quaderno
era a quadretti piccoli con la copertina verde ed è stato il mio migliore amico
per tanto tempo. Non mi ha mai tradito. L’ultima volta scrissi che da grande
volevo andare dove splende il sole, anche se è la pioggia che fa crescere i
fiori.
Quando
conobbi Esmeralda, fu subito amore. Lei era tutto per me ed io ero tutto per
lei. Facemmo l’amore per la prima volta nel granaio in mezzo alle galline.
Nessuno dei due sapeva che fare. Provammo vergogna come due bambini, ma ci
arrangiammo e fu bellissimo. Avevo sedici anni è il mondo mi rideva, portavo
collane e bracciali, avevo i capelli lunghi e scrivevo canzoni. Mio zio Tom, il
mio vecchio zio, mi aveva regalato una chitarra Stella che un marines gli aveva
venduto quando dovette partire per il Vietnam. Ora quell’uomo è tornato, non
suona più la chitarra e abita sulla collina dove coltiva marijuana. Lo zio mi
insegnò a suonare le canzoni di Hank Williams, il rock’n’roll e il blues di
Mississippi John Hurt. Ma a me piaceva cantare le canzoni che scrivevo, anche
se erano storte e sgangherate come diceva lui. Ogni tanto i miei mi
permettevano di esibirmi davanti a loro nel cortile di casa. C’erano ancora i
miei nonni, si beveva birra e mangiavamo lo stufato di montone. Bei tempi
quelli, si proprio bei tempi.
L’amavo
la mia Esmeralda, l’amavo con tutto me stesso. Tutti i giorni mi alzavo e
andavo a lavorare in un officina meccanica. Avevo le unghie nere e puzzavo di
benzina, ma mi piaceva aggiustare le moto, era il mio regno ed ero felice. Il
capo mi trattava con dignità e anche i clienti avevano imparato a rispettare un
indiano Cherokee. Il sabato, quando il buio calava sulla città, ce ne andavamo
in giro abbracciati, lei si metteva il vestito rosso e si agghindava i capelli.
Le luci al neon illuminavano i nostri sogni, ero un vero romantico con la mia
ragazza di campagna. Le tenevo la mano e le compravo sempre una rosa rossa da
Willy il fioraio che aveva i fiori più belli dell’Oklahoma. Non le promisi mai
nulla perché le promesse di un uomo sono le menzogne di un altro. Avevo tutto
scritto negli occhi. Ringrazio sempre la buona stella che mi ha dato lei. Ecco
guarda ho le sue iniziali tatuate sul braccio.
Ero
solo un ragazzo, un ragazzo normale che voleva vivere la sua vita. Volevo
costruirmi una famiglia come mio papà aveva fatto con la mia mamma. Non m’interessava
diventare ricco, ma avrei fatto del mio meglio per renderla felice, prendendomi
cura di lei e dei nostri bambini. Quando ci sposammo, ci recammo in macchina in
Nebraska a trovare dei suoi cugini. Sulla strada sognai molto e ci intendemmo
meglio. Quel giorno le nuvole in città erano nere e gonfie d’acqua, ma in
seguito il tempo fu bello che arrivammo d’un fiato. Fu in quel viaggio che lei
restò incinta di nostro figlio. Se non ero troppo stanco, alle volte suonavo
con il mio amico Steve a cui piacevano le mie canzoni. Tutte quelle che ho
scritto quando mi hanno arrestato le ho regalate a lui. Durante un colloquio mi
guardava e singhiozzava come un bambino. Non c’è giustizia in Oklahoma disse.
Una
sera tornando da lavoro mi fermai in quella stazione di servizio come avevo
fatto un centinaio di volte per prendere delle birre. Il ragazzo del banco
giaceva a faccia in giù sul pavimento in una pozza di sangue. Invece di girarmi
e scappare, feci quello che ogni buon cittadino americano avrebbe fatto:
aspettai che arrivasse la polizia. Quando giunsero, mi guardarono e solo perché
ero indiano, dissero che ero stato io a sparare e mi arrestarono. Al processo
il giudice mi condannò a morte non avevo i soldi per difendermi. Il mio
avvocato d’ufficio alzò le spalle, chiuse la valigetta, girò i
tacchi e se né andò. Fu un gioco fin troppo facile gettarmi in questa
cella per nove lunghi anni, dove ho incontrato solo poveri e negri e non tutti
colpevoli. Questa è la mia ultima ora. Il prete è venuto a prendermi. La
guardia mi ha legato i piedi e le mani con le catene e sta gridando, mentre
apre la cancellata, che sono un “Uomo morto che cammina, un uomo morto
che cammina”. Ma chi siete voi per giudicare con certezza che un uomo è
colpevole.
Mi
chiamo Billy Austin, ho 29 anni, sono nato in Oklahoma e vengo dal quartiere
Cherokee.
Bartolo Federico
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