La
notte come una vecchia baldracca era uscita traballante dal suo
nascondiglio segreto, conquistando qualunque cosa. Non avevo molto da
fare quella sera perciò me ne stavo seduto nel buio della mia auto,
fumando e guardando la città. Me lo ripeteva sempre mio padre che “tutto s’aggiusta nella vita” ma,
nel guazzabuglio in cui mi trovavo, non ero più sicuro neanche di
questo. Mi sentivo stanco di gironzolare, di camminare, e non trovare
mai nulla che mi somigliasse un po’. Accesi la radio per riascoltare “Words From The Front”, un vecchio disco del 1982 di Tom Verlaine. L’ex leader dei Televison
è sempre stato un uomo schivo e profondo, un tipo con l’aria provata.
Uno che non ha mai usato droghe, brillante e istruito, sghembo e ossuto,
che ha sempre scritto canzoni nervose, aspre e agitate e, solo
all’apparenza, fredde e ciniche. Allungai un braccio e la chitarra
tagliente e affilata di Postcard From Waterloo, non
fece alcuna fatica a conficcarsi proprio dove c’era freddo e silenzio.
E’ sempre meglio non farsi illusioni, serve a non perdere quel poco
d’anima che è rimasta rintanata dentro di noi. La vita prima o poi si
riprende tutto, senza sconti. Così quella brutta smorfia che nascondiamo
viene fuori, e si mette in bella mostra sul nostro viso, insieme ai
nostri fallimenti, alle nostre angosce, che solo a guardarci allo
specchio diventa una fatica assurda. Days On The Mountain toccò
spietatamente altri punti deboli rimasti scoperti, e mi obbligò a
stoppare quei pensieri. Una macchina con più persone a bordo per qualche
istante si accostò accanto alla mia. Erano le undici e trenta e mi
parve che la musica si muovesse inquieta sotto quell’illusorio gioco di
luci che la strada offriva. “Attraverso luoghi di timore,
attraverso luoghi di dolore, sotto la pioggia, vedo mio padre varcare i
cancelli della fabbrica. La fabbrica lo ascolta, la fabbrica gli dà
vita, è vita, vita, nient’altro che vita di lavoro. (Factory – Bruce Springsteen). Da giovane con i miei genitori e mia sorella abitavo in una casa vicino allo scalo merci.
Dalla mia finestra potevo udire a qualunque ora del giorno i locomotori
dei treni che aspettavano il loro carico, per poi scivolare lentamente
sulle rotaie. Nella città in cui vivevo non accadevano molte cose. Era triste e noioso quel posto, fatto prevalentemente di vecchi fabbricati anneriti dal fumo dell’acciaieria. La maggior parte degli abitanti ci lavorava in quella fabbrica, compreso mio padre, e tutti erano iscritti al sindacato. Le cose sembravano che funzionassero, tanto che avevamo comprato il televisore, la lavatrice, e il frigo
era quasi sempre pieno… ma non tenere gli occhi aperti e vigili su
quegli uomini gli era costato caro. Lentamente, giorno dopo giorno, quei ciarlatani dei sindacalisti, avevano svenduto le loro tutele. Fin quando accadde che la proprietà licenziò tutti i lavoratori. Velocemente smantellarono i macchinari per andare a produrre all’estero. La loro mattanza sociale, inseguendo un profitto sempre più alto, sarebbe continuata sulla pelle di altri uomini, di altre famiglie. La città in breve tempo si svuotò,
e anche noi prima che finissero i soldi della liquidazione, andammo
via. Spensi rabbiosamente la sigaretta nel posacenere dell’auto. C’ero
cresciuto al bar di Pietro Lombardo, un posto che puzzava di acqua di colonia “Mennen”, e “Nazionali” senza filtro. L’unico posto dove potevi farti una partita a biliardo, e bere qualche birra senza che nessuno ti rompesse le palle. Pietro era stato un marinaio,
uno a cui piaceva andare in fondo alle cose, un tipo stravagante che
sapeva sempre come fare per alzare il morale, e la temperatura corporea
agli astanti. Un appassionato di musica rock che ogni sera ci apriva i cancelli del cielo,
facendoci ascoltare i dischi che aveva comprato in giro per il mondo.
Fu mentre che la pioggia cadeva a rovesci sulla città, che conobbi i Dr. Feelgood. Una band operaia che suonava del rock blues, ad alta gradazione alcolica. Un gruppo di giovani emarginati, capace d’infuocare la notte in quei luoghi di Londra frequentati dal sottoproletariato urbano, da disperati, sbirri e malviventi. Musica diretta al cuore di chi non riusciva a pagare l’affitto, ed era vestita fuori moda. Lee Brilleux suonava l’armonica e cantava, mentre Wilko Johnson suonava la chitarra. Tipi tosti che con la loro miscela fecero da ponte per far traslocare il rock anni settanta, alla rivoluzione punk. Sparavano cannonate micidiali, rollando e fumando le cover di Chuck Berry, Elmore James e Sonny Boy Williamson.
Erano dei maledetti selvaggi, e ogni loro esibizione si chiudeva quasi
sempre in rissa, per quel troppo vigore di vivere, e di passione che
c’iniettavano. Il loro live “Stupidity” uscito nel 1976 ha
quel senso di libertà che ti svuota gli occhi dall’odio, e tra il
fruscio dei solchi si può sentire ancora il rumore di quel blues che
soffia impetuoso solo sulle sponde del Mississippi, mentre la chitarra e l’armonica sono così sincere che ti fanno commuovere. Canzoni sepolte dalla polvere del tempo,
ma che mantengono ancora oggi quell’aria scomoda, e quel brontolio
rabbioso di chi ha bevuto a sazietà e continua anche da solo a cantare
uno sporco trasandato blues. Seduto dentro la macchina tenevo il braccio fuori dal finestrino,
lo tenni tanto al freddo, che ad un certo punto sentii dei brividi
percorrermi la schiena. Dal lunotto posteriore vedevo la strada piena di
luci, e l’insegna di un motel per cuori infranti… e allora chissà perché pensai a Salvo, il mio vecchio amico Sal, sparito per sempre nel buio della notte. Quando eravamo ragazzi ci piaceva guardare i treni,
ce ne stavamo per ore distesi sull’erba ascoltando il loro
suono. Avevamo condiviso un mucchio di cose che il tempo adesso ha
disteso sul letto dei ricordi, come ha fatto anche il suo viso, un volto che sapeva tenere qualunque segreto.
Accartocciato nell’ombra il cuore ha preso a battermi forte, e tutti
quei pensieri mi è sembrato che si sparpagliassero nel cielo. Tra le
stelle. La mia stanza era rettangolare, c’erano pochi
mobili e anche quelli per nulla invitanti. Davanti al mio letto c’era
uno specchio e una poltrona di velluto che mi aveva regalato un vicino,
quando era andato via da quel palazzo. Sul tavolo accanto la finestra
c’era appoggiato un abat-jour di rame, un cappello di carta
color avorio, e la mia radiolina. Sulla parete sopra il letto una
fotocopia in bianco e nero della foto di copertina dell’incredibile
isterico debutto, nell’ormai lontano 1977, dei Television. Un disco che rimane un caposaldo assoluto del rock’n’roll, con quell’odore di pioggia e malinconia
che sprigionano quelle canzoni secche e appuntite come chiodi. Ho
sentito un cigolo nel cuore, e ho preso a traballare. Un sapore amaro mi
ha riempito la bocca. “Don’t Point Your Finger”, è uno dei tanti dischi nascosti negli sgabuzzini del rock. Un figlio bastardo, forse anche minore dei Feelgood, ma
pure lui è stato una corrente d’aria fresca. Un unghiata nei polmoni
pieni di catarro da fumo, su uomini con facce di granito e occhi smorti.
Lo pubblicarono nel 1981 i Nine Below Zero, un gruppo che ebbe la fortuna di andare in tour con i Kinks, e gli Who e che suonava con
grinta e convinzione musica blues e rock’n’roll. Un disco che andrebbe
rivalutato, imperfetto come deve essere sempre il rock quando suona
sincero e onesto. “Don’t Point Your Finger” fu prodotto da Glyn Johns, uno che ha lavorato con Stones, Who, Faces, Zeppelin, Dylan, J. Hiatt, e tantissimi altri ancora. L’ho riascoltato l’altra sera mentre con gli occhi lucidi e spiritati, scartabellavo vecchie foto di famiglia.
Mi sono accorto che mantiene inalterata la sua carica vibrante e
tremolante e, soprattutto, quello stupido orgoglio che una volta
mi faceva sentire di una specie superiore, quando scaraventato nella
notte riuscivo ugualmente a vedere la luce del sole. Non come adesso che sono precipitato nel gradino più basso delle ombre. Ho fatto un sacco di lavori sottopagati,
e anche non pagati. Forse mi è sempre mancato il coraggio di andarmene
da qualche altra parte. Ma sono come intossicato dal tempo che passa e
ti divora; ma stasera, seduto su questa macchina mi fa quasi piacere
tenere gli occhi chiusi, aspettando che la luna sparisca dal cielo… è il
momento giusto per lasciare che anche “Five” di J.J. Cale, un disco edito nel 1979, mi prenda con sé, con quel suo twang morbido, increspato, e quella voce di J.J. roca e sussurrata, mi racconti ancora un po’ di sogni, e dei cercatori d’oro. Si vive soprattutto di calore.
Un tenue sorriso mi è affiorato sull’angolo della bocca. Mentre un
nuovo miscuglio di sensazioni, un rimescolamento, mi sta facendo
nuovamente sussultare, esitare, gemere. Come la vita. Anche questo mi
avrebbe aiutato a tenere insieme i miei brandelli. “Ho
fatto le mie valigie e mi dirigo verso la tempesta. Diventerò un
imbroglione per spazzare via tutto quello che non si regge in piedi da
solo. Spazzare via i sogni che ti distruggono, spazzare via i sogni che
ti spezzano il cuore, spazzare via i sogni che ti spezzano il cuore,
spazzare via i sogni che ti lasciano perdente, straziato dal dolore”. (The Promised Land – Bruce Springsteen).
Bartolo Federico
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