Secchiate di malinconia gli caddero addosso.
Rivide lei, colma di odio e con il diavolo nel cuore strepitargli che
era un coglione, un bastardo, una merda rinsecchita. Fermo sotto un
cartello stradale con quella faccia da tenebre e nebbia che si
ritrovava, fece una risata rauca. Le aveva replicato “questo è ciò che mi hanno fatto diventare, bambina, non averne a male”…
e le disse queste parole con una voce metallica, puntando dritto dentro
ai suoi occhi freddi. Poi, lentamente, girò lo sguardo intorno e con
garbo si aggiustò il cappello… e si sentì andare in pezzi. Si avviò
arrancando lungo la strada fosca. Dal taschino della giacca prese il
pacchetto nuovo di sigarette e scartandolo si rese conto di avere il
cervello come appannato da cumuli di polvere. Le lacrime gli sfondarono le palpebre
e attese che il suo cuore si calmasse. La pioggia continuava a cadere
diritta sulla sua testa, incurante di tutto. Come la sorte.
“Lontano dove il vento leggero soffia, lontano da tutto, c’è il posto dove vai dove cadono le lacrime. Lontano nella notte tempestosa, lontano ed oltre il muro, sei là in una luce lampeggiante dove cadono le lacrime”. (Where Teardrops Fall – Bob Dylan).
Con il passare del tempo le cose si mischiano un po’. Così quelle certezze che ti sei cullato lasciano posto ai dubbi, alle indecisioni, alla paura. Camminava piano costeggiando il muro delle case, senza fare rumore, come se stesse aspettano qualcuno. La pioggia, fredda zampillando sul corrimano di un balcone, gli schizzò sul viso facendogli increspare la pelle. Trattenne il respiro e sentì il suo cuore cigolare nel buio. Doveva riorganizzarsi, ma così su due piedi non era facile. Non era per niente semplice mettere in fila gli eventi e farsene una ragione. Si sentiva strano, come sperduto nel guazzabuglio di se stesso. Certo, c’erano alcune cose da recuperare e altre da buttare, ma doveva farlo alla svelta, prima che queste s’infilassero tutte insieme in quella strettoia buia dell’anima. Correva il rischio di vederle sbucare dall’ombra, tenendosi strette strette l’una con l’altra. Allora sarebbe stata davvero la fine.
“Bottiglie spaccate, vassoi spaccati, interruttori spaccati, cancelli spaccati, piatti spaccati, oggetti spezzati, le strade sono piene di cuori spezzati, parole spezzate che non si sarebbe mai voluto pronunciare, tutto e’ spezzato”. (Everthing Is Broken – Bob Dylan).
Lungo la via un umanità di derelitti soggiornava pacifica. Gente che si lamentava con se stessa, imprecando al cielo. Tanto, nessuno gli avrebbe mai prestato attenzione. Neanche lui. Il camion della nettezza urbana stava raccogliendo la spazzatura. Il conducente, stiracchiandosi sul sedile, fumava tirando lunghe boccate e scomparendo dietro una strato di nebbia azzurra. Gli altri operatori, intenti a raccattare i sacchetti sparpagliati in mezzo alla strada, scherzavano tra di loro, ridendo così forte da fare un baccano inaudito. Li osservò al riparo di un muro. Il suo lavoro lo aveva portato tante volte a rovistare nel pattume e, suo malgrado, vi era scivolato dentro ma, fin quando gli era stato possibile, aveva tenuto duro. Poi era bastato un istante, un nonnulla… e tutto era precipitato, trasformandogli qualsiasi cosa in raccapriccio. Quello che non si spiegava è che era accaduto per cose che alla fine potevano essere anche irrilevanti.
“Abbiamo battuto sul tamburo lentamente e suonato il piffero sommessamente, tu conosci la canzone nel mio cuore. Nel volgere del tramonto fra le ombre della luce lunare puoi mostrarmi un nuovo posto per cominciare”. (Where Teardrops Fall – Bob Dylan).
Ci prendiamo gusto a sfidare la vita a dichiararle guerra… ma la partita è persa, questo sia chiaro. Il cielo si era capovolto sulla sua testa ma, nonostante ciò, i colori del passato gli tornavano in mente nitidi, insieme a quelle storie che sua nonna gli raccontava prima che lui andasse a dormire. Non le sue brutte storie, no, quelle non aveva il coraggio di raccontarle neanche a se stesso. Sentì nell’aria nuovamente forte quella puzza di sangue e merda. Il giorno stava sorgendo sulla città. Si accese una sigaretta ma lasciò che si consumasse tra le dita. Da un balcone aperto il crepitio di una radio lo scosse. “Viviamo in un mondo politico la saggezza è sbattuta in prigione marcisce in una cella e viene fuorviata come dal diavolo senza lasciare nessuno che ne segua le orme. Viviamo in un mondo politico dove la pietà cammina sull’asse la vita è negli specchi, la morte scompare sui gradini della banca più vicina (Political World – Bob Dylan).
Nei momenti in cui il nostro egoismo ci lascia andare, i ricordi diventano autentici e allora ripensiamo a quelle donne che ci hanno amato almeno un po’. In un bar fece colazione con brioche e un cappuccino cremoso. Un poliziotto in divisa entrò e si mise vicino a lui ordinando un caffè ristretto. I loro sguardi s’incrociarono, ma solo per un attimo, attraverso lo specchio che avevano di fronte al bancone. Dopo lo sbirro se ne andò. Da quando era tornato in città la pioggia non aveva smesso di cadere. Uscì dal bar e riprese a camminare lento dando le spalle al marciapiede. Si fermò guardandosi nella vetrina di un negozio. Rimase lì, assorto per qualche minuto, poi riprese a camminare. Un antifurto suonò forte. Il suo passato gli tornava a sprazzi dall’abisso più profondo per annientarlo con le sue lingue di fuoco. Lei era uscita dalla sua vita definitivamente, pensò osservando la sua mano ossuta.
“C’era qualcuno che ci guardava quando mi hai dato quel bacio? Qualcuno là nell’ombra, qualcuno che potrei non aver visto? C’è qualcosa di cui hai bisogno, qualcosa che non capisco? Che cos’era che volevi? E’ qui nella mia mano?” (What Was It You Wanted – Bob Dylan).
Alla fine, dove vogliamo arrivare nessuno di noi lo sa. Era giovane quel poliziotto, di quelli palestrati e baldanzosi. Portava una giacca di pelle nera e un cappello di lana di colore grigio. Lo aveva fermato non appena uscito dalla villetta e stava salendo sull’auto. Lo agguantò dal polso, stringendolo con brutalità. Senza dire nulla gli fece appoggiare i palmi delle mani sulla macchina, obbligandolo ad allargare le caviglie con dei duri colpi al tallone. Mentre terminava questa operazione lo chiamò per nome due volte, ma lui non rispose. Con un gesto fulmineo l’agente gli mise le manette ai polsi intanto che un gruppo di altri cinque sei sbirri sbucati dal nulla arrivavano correndo. Una Mercedes bianca sgommando si accostò al marciapiede. Adesso lo tenevano fermo in due ma lui non si dimenava. Conosceva le regole e non fece nulla che potesse innervosirli. Lo spinsero con forza verso l’auto e, in quattro e quattr’otto, lo caricarono sui sedili posteriori coprendogli la testa con un cappuccio.
“Il predicatore stava parlando, stava facendo un sermone disse che la coscienza umana è vile e depravata, non puoi contare su questo per farti guidare quando sei tu che devi soddisfare tutto questo. Non è facile da mandare giù, ti si ferma in gola. Lei ha dato il suo cuore all’uomo dal lungo cappotto nero”. (Man In The Long Black Coat – Bob Dylan).
Attraversò il corridoio buio e spostò una tapparella per fare entrare uno spicchio di luce. Passò dalla camera da letto, dove c’era ancora appesa al muro la loro foto, e si tolse la giacca. L’odore di chiuso e alcool faceva venire il vomito, ma era come se non la sentisse più quella puzza di marcio. Aveva sempre cercato di uscire dalle menzogne, dalle umiliazioni, voleva fare a tutti i costi una buona impressione alla gente, voleva stare al passo dei ricchi… ma quando non sei abituato come loro a mentire la faccenda si complica. Mise sul piatto del giradischi “Gravity Talks” dei Green On Red, un 33 giri pieno di rughe e ferite e si versò da bere. Amava quel disco uscito nel 1983, amava quell’organo febbrile e irrequieto suonato da Chris Cacavas (il Roy Bittan dei poveri) e le canzoni di Dan Stuart. Quelle canzoni cantate con una voce irriverente, svogliata, ma anche profonda e lirica, aprivano un varco nella sua anima nera. Un disco ricco di influenze importanti, dai Doors ai Velvet Underground a Bob Dylan. Un disco che gli ricordava chi era stato, e cosa aveva amato.
“A che servo sia per gli altri che per me stesso se ho avuto tutte le possibilità e ancora non riesco a vedere se le mie mani sono legate, non dovrei domandarmi chi le ha legate e perché. Ed io dov’ero. A che servo se dico cose banali e rido in faccia a quello che il dolore porta e giro le spalle mentre tu muori in silenzio, a che servo?” (What Good Am I? – Bob Dylan).
Anni dopo lo aveva conosciuto Dan Stuart. Era successo d’estate, quando le giornate si allungano e la strada è inondata dal sole. Di solito non usciva mai, ma quella volta il richiamo fu davvero forte. Si esibiva in concerto insieme a Steve Wynn dei Dream Syndicate sotto la sigla di Danny&Dusty. Due bambini smarriti, due spiriti ribelli con in una mano una bottiglia di whisky e nell’altra una Fender. Non andare a vedere quelli che lui considerava gli ultimi romantici del rock’n’roll sarebbe stato un delitto. Un vero weekend di rock perduto.
“Mama, metti le mie pistole per terra non posso più sparare quella lunga nuvola nera sta scendendo mi sembra di bussare alle porte del cielo” (Knockin’On Heaven’s Door – Bob Dylan).
Subito prese posto in prima fila e dopo, quando ebbe inizio lo show, si posizionò lateralmente vicino all’organo dove un ispirato Cacavas dirigeva la band. Cantò le loro canzoni con passione e trasporto facendo il coro insieme a Chris che gli sorrideva dal palco. La luna era alta e il cielo era pieno di stelle. Quella sera si sentì leggero.
“Suona quelle campane per il cieco e il sordo, suona quelle campane per quelli di noi che sono abbandonati, suona quelle campane per i pochi eletti che giudicheranno i molti quando il gioco volgerà al termine. Suona quelle campane per il tempo che vola, per il bimbo che piange quando l’innocenza muore” (Ring Them Bells – Bob Dylan).
Il telefono squillò per terra, nell’ombra, una volta soltanto. Alzò il ricevitore e si sedette sulla seggiola. Con le labbra incollate alla cornetta disse: “Si!… Ciao, sono Wilma. Buon Natale“.
“Ho visto una stella cadente stanotte e ho pensato a te. Cercavi di entrare in un altro mondo un mondo che non ho mai conosciuto. Mi sono sempre domandato se tu ce l’abbia fatta. Ho visto una stella cadente stanotte e ho pensato a te.” (Shooting Star – Bob Dylan).
“Lontano dove il vento leggero soffia, lontano da tutto, c’è il posto dove vai dove cadono le lacrime. Lontano nella notte tempestosa, lontano ed oltre il muro, sei là in una luce lampeggiante dove cadono le lacrime”. (Where Teardrops Fall – Bob Dylan).
Con il passare del tempo le cose si mischiano un po’. Così quelle certezze che ti sei cullato lasciano posto ai dubbi, alle indecisioni, alla paura. Camminava piano costeggiando il muro delle case, senza fare rumore, come se stesse aspettano qualcuno. La pioggia, fredda zampillando sul corrimano di un balcone, gli schizzò sul viso facendogli increspare la pelle. Trattenne il respiro e sentì il suo cuore cigolare nel buio. Doveva riorganizzarsi, ma così su due piedi non era facile. Non era per niente semplice mettere in fila gli eventi e farsene una ragione. Si sentiva strano, come sperduto nel guazzabuglio di se stesso. Certo, c’erano alcune cose da recuperare e altre da buttare, ma doveva farlo alla svelta, prima che queste s’infilassero tutte insieme in quella strettoia buia dell’anima. Correva il rischio di vederle sbucare dall’ombra, tenendosi strette strette l’una con l’altra. Allora sarebbe stata davvero la fine.
“Bottiglie spaccate, vassoi spaccati, interruttori spaccati, cancelli spaccati, piatti spaccati, oggetti spezzati, le strade sono piene di cuori spezzati, parole spezzate che non si sarebbe mai voluto pronunciare, tutto e’ spezzato”. (Everthing Is Broken – Bob Dylan).
Lungo la via un umanità di derelitti soggiornava pacifica. Gente che si lamentava con se stessa, imprecando al cielo. Tanto, nessuno gli avrebbe mai prestato attenzione. Neanche lui. Il camion della nettezza urbana stava raccogliendo la spazzatura. Il conducente, stiracchiandosi sul sedile, fumava tirando lunghe boccate e scomparendo dietro una strato di nebbia azzurra. Gli altri operatori, intenti a raccattare i sacchetti sparpagliati in mezzo alla strada, scherzavano tra di loro, ridendo così forte da fare un baccano inaudito. Li osservò al riparo di un muro. Il suo lavoro lo aveva portato tante volte a rovistare nel pattume e, suo malgrado, vi era scivolato dentro ma, fin quando gli era stato possibile, aveva tenuto duro. Poi era bastato un istante, un nonnulla… e tutto era precipitato, trasformandogli qualsiasi cosa in raccapriccio. Quello che non si spiegava è che era accaduto per cose che alla fine potevano essere anche irrilevanti.
“Abbiamo battuto sul tamburo lentamente e suonato il piffero sommessamente, tu conosci la canzone nel mio cuore. Nel volgere del tramonto fra le ombre della luce lunare puoi mostrarmi un nuovo posto per cominciare”. (Where Teardrops Fall – Bob Dylan).
Ci prendiamo gusto a sfidare la vita a dichiararle guerra… ma la partita è persa, questo sia chiaro. Il cielo si era capovolto sulla sua testa ma, nonostante ciò, i colori del passato gli tornavano in mente nitidi, insieme a quelle storie che sua nonna gli raccontava prima che lui andasse a dormire. Non le sue brutte storie, no, quelle non aveva il coraggio di raccontarle neanche a se stesso. Sentì nell’aria nuovamente forte quella puzza di sangue e merda. Il giorno stava sorgendo sulla città. Si accese una sigaretta ma lasciò che si consumasse tra le dita. Da un balcone aperto il crepitio di una radio lo scosse. “Viviamo in un mondo politico la saggezza è sbattuta in prigione marcisce in una cella e viene fuorviata come dal diavolo senza lasciare nessuno che ne segua le orme. Viviamo in un mondo politico dove la pietà cammina sull’asse la vita è negli specchi, la morte scompare sui gradini della banca più vicina (Political World – Bob Dylan).
Nei momenti in cui il nostro egoismo ci lascia andare, i ricordi diventano autentici e allora ripensiamo a quelle donne che ci hanno amato almeno un po’. In un bar fece colazione con brioche e un cappuccino cremoso. Un poliziotto in divisa entrò e si mise vicino a lui ordinando un caffè ristretto. I loro sguardi s’incrociarono, ma solo per un attimo, attraverso lo specchio che avevano di fronte al bancone. Dopo lo sbirro se ne andò. Da quando era tornato in città la pioggia non aveva smesso di cadere. Uscì dal bar e riprese a camminare lento dando le spalle al marciapiede. Si fermò guardandosi nella vetrina di un negozio. Rimase lì, assorto per qualche minuto, poi riprese a camminare. Un antifurto suonò forte. Il suo passato gli tornava a sprazzi dall’abisso più profondo per annientarlo con le sue lingue di fuoco. Lei era uscita dalla sua vita definitivamente, pensò osservando la sua mano ossuta.
“C’era qualcuno che ci guardava quando mi hai dato quel bacio? Qualcuno là nell’ombra, qualcuno che potrei non aver visto? C’è qualcosa di cui hai bisogno, qualcosa che non capisco? Che cos’era che volevi? E’ qui nella mia mano?” (What Was It You Wanted – Bob Dylan).
Alla fine, dove vogliamo arrivare nessuno di noi lo sa. Era giovane quel poliziotto, di quelli palestrati e baldanzosi. Portava una giacca di pelle nera e un cappello di lana di colore grigio. Lo aveva fermato non appena uscito dalla villetta e stava salendo sull’auto. Lo agguantò dal polso, stringendolo con brutalità. Senza dire nulla gli fece appoggiare i palmi delle mani sulla macchina, obbligandolo ad allargare le caviglie con dei duri colpi al tallone. Mentre terminava questa operazione lo chiamò per nome due volte, ma lui non rispose. Con un gesto fulmineo l’agente gli mise le manette ai polsi intanto che un gruppo di altri cinque sei sbirri sbucati dal nulla arrivavano correndo. Una Mercedes bianca sgommando si accostò al marciapiede. Adesso lo tenevano fermo in due ma lui non si dimenava. Conosceva le regole e non fece nulla che potesse innervosirli. Lo spinsero con forza verso l’auto e, in quattro e quattr’otto, lo caricarono sui sedili posteriori coprendogli la testa con un cappuccio.
“Il predicatore stava parlando, stava facendo un sermone disse che la coscienza umana è vile e depravata, non puoi contare su questo per farti guidare quando sei tu che devi soddisfare tutto questo. Non è facile da mandare giù, ti si ferma in gola. Lei ha dato il suo cuore all’uomo dal lungo cappotto nero”. (Man In The Long Black Coat – Bob Dylan).
Attraversò il corridoio buio e spostò una tapparella per fare entrare uno spicchio di luce. Passò dalla camera da letto, dove c’era ancora appesa al muro la loro foto, e si tolse la giacca. L’odore di chiuso e alcool faceva venire il vomito, ma era come se non la sentisse più quella puzza di marcio. Aveva sempre cercato di uscire dalle menzogne, dalle umiliazioni, voleva fare a tutti i costi una buona impressione alla gente, voleva stare al passo dei ricchi… ma quando non sei abituato come loro a mentire la faccenda si complica. Mise sul piatto del giradischi “Gravity Talks” dei Green On Red, un 33 giri pieno di rughe e ferite e si versò da bere. Amava quel disco uscito nel 1983, amava quell’organo febbrile e irrequieto suonato da Chris Cacavas (il Roy Bittan dei poveri) e le canzoni di Dan Stuart. Quelle canzoni cantate con una voce irriverente, svogliata, ma anche profonda e lirica, aprivano un varco nella sua anima nera. Un disco ricco di influenze importanti, dai Doors ai Velvet Underground a Bob Dylan. Un disco che gli ricordava chi era stato, e cosa aveva amato.
“A che servo sia per gli altri che per me stesso se ho avuto tutte le possibilità e ancora non riesco a vedere se le mie mani sono legate, non dovrei domandarmi chi le ha legate e perché. Ed io dov’ero. A che servo se dico cose banali e rido in faccia a quello che il dolore porta e giro le spalle mentre tu muori in silenzio, a che servo?” (What Good Am I? – Bob Dylan).
Anni dopo lo aveva conosciuto Dan Stuart. Era successo d’estate, quando le giornate si allungano e la strada è inondata dal sole. Di solito non usciva mai, ma quella volta il richiamo fu davvero forte. Si esibiva in concerto insieme a Steve Wynn dei Dream Syndicate sotto la sigla di Danny&Dusty. Due bambini smarriti, due spiriti ribelli con in una mano una bottiglia di whisky e nell’altra una Fender. Non andare a vedere quelli che lui considerava gli ultimi romantici del rock’n’roll sarebbe stato un delitto. Un vero weekend di rock perduto.
“Mama, metti le mie pistole per terra non posso più sparare quella lunga nuvola nera sta scendendo mi sembra di bussare alle porte del cielo” (Knockin’On Heaven’s Door – Bob Dylan).
Subito prese posto in prima fila e dopo, quando ebbe inizio lo show, si posizionò lateralmente vicino all’organo dove un ispirato Cacavas dirigeva la band. Cantò le loro canzoni con passione e trasporto facendo il coro insieme a Chris che gli sorrideva dal palco. La luna era alta e il cielo era pieno di stelle. Quella sera si sentì leggero.
“Suona quelle campane per il cieco e il sordo, suona quelle campane per quelli di noi che sono abbandonati, suona quelle campane per i pochi eletti che giudicheranno i molti quando il gioco volgerà al termine. Suona quelle campane per il tempo che vola, per il bimbo che piange quando l’innocenza muore” (Ring Them Bells – Bob Dylan).
Il telefono squillò per terra, nell’ombra, una volta soltanto. Alzò il ricevitore e si sedette sulla seggiola. Con le labbra incollate alla cornetta disse: “Si!… Ciao, sono Wilma. Buon Natale“.
“Ho visto una stella cadente stanotte e ho pensato a te. Cercavi di entrare in un altro mondo un mondo che non ho mai conosciuto. Mi sono sempre domandato se tu ce l’abbia fatta. Ho visto una stella cadente stanotte e ho pensato a te.” (Shooting Star – Bob Dylan).
tutto ciò,è semplicemente irripetibile!
RispondiEliminaciao Carlo, grazie di avelo letto.
Elimina