Stanno giocando sempre con lo stesso mazzo di carte segnante,
e quel professore è un baro. Bisogna dar fuoco alla casa per liberarci una
volta per tutte da queste sanguisughe. Parlava come fosse Joe Strummer la zia Amalia mentre
spegneva la tele. Era talmente incazzata che temevo le venisse un accidenti. Si
leggeva chiaro dentro i suoi piccoli occhi semichiusi dalle cataratte l’odio
che nutriva verso quei reazionari del potere.Sbraitando proseguì: sbucano dal
teleschermo giocando al “guarda chi si rivede”, non hanno pudore queste facce
di merda. Prima si sono mangiati il bue, adesso anche le corna vogliono
sgranocchiarsi. Con i suoi seicentocinquanta euro al mese di pensione doveva
pagarci l’IMU, è la colpa era quella di possedere un appartamentino
nientediche, che i suoi genitori gli avevano lasciato in eredità. Quella casa
con il suo lavoro non se la sarebbe mai potuta comprare neanche a vivere due
volte. Mica era un boiardo di Stato qualsiasi, infilato senza nessun merito in
un posto di rilievo dal suo padrino politico e dalla modesta paga di cinquanta
mila euro al mese. Lei si era dovuta sempre arrangiare nella vita insieme al
suo defunto marito, un ciabattino, un uomo integerrimo che aveva passione e
amore per la sua attività. La zia, per far quadrare il loro magro bilancio
economico, cuciva gli orli dei pantaloni e andava a fare le pulizie ad ore.
Tutto in nero ovviamente (ma è meglio non farglielo sapere a quel boiardo di
Stato, la braccherebbe per evasione fiscale). Insieme allo zio Iano, avevano
tirato la carretta con modestia e dignità. “A che pro adesso chiedono a me i
sacrifici questi vermi schifosi” concluse sbattendo la porta della cucina,
ormai completamente fuori dai gangheri.
Quella domenica mattina mi alzai dal letto cercando di
scrollarmi la sbornia della sera precedente Era il mio primo giorno di libertà,
per cui mi sparai ad alto volume il cd di Slackeye
Slim. El Santo Grial: La Pistola Piadosa. Un disco per bastardi che hanno attraversato
l’America rurale imboccando le strade secondarie, quelle più dure e polverose.
Musica all’apparenza sghemba e malandata, ma suonata con passione e abilità che
sembra fuoriuscire da un grammofono dove un 78 giri magicamente scatarra
rockabilly, western swing, country e
blues, che ti fa ruzzolare dentro una saga epica del 1800. Un viaggio duro e
brutale nel selvaggio west. Slackeye Slim ha una voce sverniciata dall’alcool
(Shan Mac Gowan docet) è un attitudine alla musica che partendo da Hank Williams
(a cui assomiglia anche fisicamente) trascina con se tante passioni che vanno
da Ennio Morricone a Link Wray al duo Nick Cave-Johnny Cash, finendo come tutti
i romantici malinconici nelle braccia del più grande ballader della tarda
notte, Tom Waits.
Al bar da Gino, la sera precedente, con Tony il poeta,
avevamo discusso e al nostro solito alzato il gomito. Mi aveva raccontato che
si era iscritto ad un concorso per nuove promesse letterarie. E da lì che era
partita una discussione interminabile sui poeti vecchi e nuovi e su chi secondo
noi sapesse scrivere la vera poesia. Citammo Borges, Dylan Thomas, Allen Ginsberg, T.S.Eliot, Salinas, Ungaretti e
quel vecchio sporcaccione di Charles Bukowski. Poi, ad un certo punto, Tony, si lanciò in un iperbole ubriaco letteraria su Omero. Lo ascoltai con
meraviglia affabularmi dell’Odissea guardandolo con occhi strabici e la testa
penzoloni, senza capirci molto di quello che proferiva. Tutta colpa ovviamente
di quel vino ambrato fatto in casa che andava giù nelle viscere che era una
bellezza. Alla fine concordammo su un punto: i giganti se ne erano andati e non
c’era stato nessuno a rimpiazzarli.Anche nel rock era avvenuta quasi la stessa
cosa, accidentaccio.Questa mattina però, a mente fredda, mentre mandò giù un caffè
lungo e amaro, gli avrei detto che c’è un poeta fortunatamente vivente che
regge il passo con chiunque. Il suo nome è Bob Dylan.
Ci vuole un bel bagaglio di fortuna per affrontare la vita e
la mia come quella di molti altri è cattiva da tempo. Ma vale sempre la pena
provare ad andare avanti per tentare di esplorare quei coni d’ombra che con ci
fanno mai vedere il sole. Intanto che
zia Amalia era andata in gita, non so dove con il suo esercito della
salvezza, ne approfittai anche per
organizzarmi delle seratine a tema di sesso e rock’n’roll. La pollastrella che
mi ero portato a casa l’avevo conosciuta al bar da Gino. avevamo scambiato
quattro chiacchiere bevendo del gin tonic che lei mandava giù come fosse acqua
minerale è già questo mi piaceva e ci accomunava. Poi, tra una cosa e un’altra
era scoccata la scintilla. Un po’ brilli, non
appena fummo fuori dalla porta del bar cominciammo a palpeggiarci nelle
parti intime. Salimmo in casa che eravamo eccitati come due ragazzini alle
prime armi. Lei era bella soffice e con la lingua ci sapeva fare, altroché se
ci sapeva fare. Tra gemiti e sospiri godemmo alla grande. Quella sera venne
fuori una scopata coi fiocchi. Ad un tratto però accadde quello che non ti
aspetti e che ti fa vedere una persona con altri occhi. “Senti” mi fa la tipa
accartocciata tra le lenzuola nel momento in cui i Rolling Stones ci davano dentro con It’s Only Rock
and Roll “non è che per caso possiedi Miracle, di Willy De Ville”. Lì per lì
restai sorpreso della richiesta perché non mi era mai capitata una femminuccia
che conoscesse il gitano.
Mi alzai dal letto e dallo scaffale dove tenevo i vinili
tirai fuori quel disco uscito nel lontano 1987, dove per la prima volta Willy
usa il suo nome al posto di Mink. Un disco anomalo nella sua discografia causa
la produzione che Mark Knopfler leader dei Dire Straits gli riserva. De Ville
non è per niente contento di quel suono che Mark gli ha confezionato. Perché lo
fa assomigliare troppo ad un disco degli Straits più che a se stesso. Willy è uno tosto che
proviene dai bassifondi e i suoi dischi fino a quel momento hanno sempre
puzzato di blues e di rock’n’roll anni cinquanta. La faccenda è talmente seria
per uno che non prendeva mai sottogamba il suo lavoro e la sua musica che, alla
fine del giro, interromperà con Knopfler qualsiasi rapporto umano. Ma le
canzoni che scrive per Miracle sono belle fino allo sfinimento. Canzoni che
vengono buone quando vi affacciate nei baratri dell’ombra. Canzoni assassine che si insinuano sottopelle e che
riescono ad arrivare a quei ricordi
rintanati nell’oblio per farvi un sopralluogo a raggi X del cuore. Cantate come
sempre da una voce unica e inimitabile, una voce che ha cuore e anima e che
nessun soul lover ha dimenticato. Il tempo fuori non era un granché. Ci
stringemmo tra le lenzuola mentre la melodia di Nightfalls imprigionava la
notte. Ed allora le chiesi a bassa voce e con tutta la grazia di cui disponevo:
“Come ti chiami baby”. Lei guardandomi per un attimo dritto negli occhi mi
rispose altrettanto sommessamente: “Toot, ma credo di avertelo già detto,
tesoro”.
La mattina mentre aspettavo l’autobus per andare a lavoro
incappai in Rino il pianista, uno che suona l’organo Hammond B3 da Dio. Non
appena mi vide fermo sotto la grondaia stampò una frenata che solo per fortuna
non causò un incidente a catena e, dietro gli strali degli altri conducenti,
saltai velocemente sulla sua macchina. Durante il tragitto, a gengive stirate,
mi raccontò che aveva sempre diffidato dei grandi quotidiani come il Corriere
Della Sera,La Repubblica, La Stampa, il Giornale (non li cito tutti se no
facciamo notte). La loro pseudo informazione, sosteneva, non ha mai toccato i
potentati e mai, mai, ripeteva con ossessione, è stata dalla parte dei
cittadini. Rispondono solo a quei politici massoni che li sostengono
finanziariamente e che fanno parte dei loro consigli d’ amministrazione.
Servono per coprire i loro sporchi giochini. Sono organizzati come i mafiosi
questi signori attenti a non calpestarsi i piedi a non invadere l’altrui terreno.
Alle volte danno l’impressione di alzare un polverone per dare giusto l’idea
che loro sono i cani da guardia della libertà d’espressione, di verità e
giustizia, ma stanno fingendo, soffiano solo un po’ di fumo sugli occhi
dell’opinione pubblica. Il problema è che c’è chi ancora ci crede in questi
ciarlatani, dove il più pulito dei loro giornalisti ha la rogna.
Le elezioni sono alle porte continuò e sono tutti in azione a
difendere l’indifendibile come hanno sempre fatto. Incominciare a non comprarli
più questi giornali da circo equestre, spegnere la tele e non votare più quella
gente che proteggono, sarebbe un primo vero atto rivoluzionario di
quest’italietta clericale che mai si ribella, sempre accondiscendente con chi
la bastona e la depreda. Poi nell’autoradio inserì una casetta (uno degli
ultimi nostalgici Rino eh!) di Van Morrison e le note magiche di Redwood Tree
ci mandarono in paradiso. Una canzone contenuta in un disco uscito nel 1972,
dal titolo Saint Dominic’s Preview, uno di quei dischi dove si sono abbeverati
per suonare il loro rock stradaiolo personaggi come Springsteen, Bob Seger, e
lo stesso De Ville. Musica che è come una goccia di pioggia che, man mano che
scivola sul vetro, traccia nuovi percorsi e poi esitando si biforca e devia ancora,
mentre le altre gocce la rincorrono, e infine
si unisce ed esplode in una botta di vita senza limiti, con cui si
potrebbe fare il giro del mondo correndo come dei novelli Forrest Gump. Così
quella mattina Van Morrison mi cambiò l’umore, che si era fatto nero di rabbia
per la discussione aperta da Rino. E per un po’ dimenticai anche gli strani
avvenimenti della mia scombinata esistenza.
Tra non molto, come accade ogni fine anno, assisteremo a
quella kermesse che è lo scegliere i migliori dischi, i migliori film, i
migliori libri, i migliori concerti, i migliori vestiti, le migliori attrici,
insomma chi più ne ha più ne metta. Certamente ognuno è libero di divertirsi come meglio crede. A me non è mai
piaciuto parteciparvi perché non sono mai riuscito a catalogare le mie
emozioni, e quando ho provato a farlo me ne sono subito pentito. Ma se proprio
ci tenete a saperlo, visto che sono in tema di confidenze e ancora un po’
alticcio, vi dirò che i migliori sono tutti quelli che stanno lottando senza
tutele per un posto di lavoro, e sono in tanti, tantissimi. Gli esodati, i
minatori del Sulcis e tutti quelli che come loro hanno tenuto la schiena
dritta, succeda quel che succeda. Gli imprenditori che si sono uccisi perché
questo Stato sordo e muto è bravo solo a ramazzarti e a pretendere. Uomini
dalla troppa dignità per sentirsi umiliati, vilipesi e svergognati da chi
invece li doveva con ogni mezzo sorreggere. Gli abitanti dell’Aquila che
resistono e dell’Emilia che si sono prontamente rialzati e quelli di Taranto
che invece subiscono. E chi non voterà la balena bianca. Un pensierino ai
peggiori. Quelli che scendono, salgono, e si posteggiano per sempre in politica
evocando l’alto senso civico del loro gesto. Un sonoro vaffanculo a tutti loro.
Con il web in questi ultimi anni ho avuto modo di ascoltare
molta musica che prima mi sarei solo sognato. Ma mi rendo conto che è anche
troppa e alle volte ci perdo pure quel gusto che la ricerca di accaparrarmi un
disco mi infondeva. Allora, quando ne venivo in possesso lo sorseggiavo
come se fosse stato un bicchiere di
bourbon e l’ascolto durava mesi, alle volte anni. Adesso è tutto più veloce si
consuma nel giro di qualche giorno e si dimentica in fretta. Ma è anche vero
che il web dopo i Clash è l’unica vera rivoluzione che abbiamo vissuto. Ci ha
aperto mille possibilità come quella di farci un blog e di scrivere di noi. Che
in un informazione ovattata come quella che abbiamo non è poca cosa. Oggi di
dischi se ne vendono sempre meno e comunque il download gli ha dato il colpo di
grazia. Ma con quello che costano se tieni famiglia e un lavoro malamente
retribuito a conti fatti non ti puoi permettere l’acquisto neppure di un cd
(che comunque per il sottoscritto, resta un supporto orribile). Qualcuno dirà
che anche un tempo l’acquisto dei dischi era caro e salato ed era relegato per
lo più a chi era benestante e colui che non poteva comprarsi i dischi si faceva
registrare le musicassette da un amico. Quindi, alla fine dei conti, è la
stessa cosa che scaricare gratuitamente quello che bramiamo.
Vero anche questo. Ma sapete come vanno certe cose, sarà che
il tempo passa e quello passato ci sembra sempre migliore, anche quando forse
non lo è stato per niente. Non posso non pensare a quando, con quei soldi che
riuscivo in qualche modo a racimolare, passato quasi un mese dall’ordine mi
arrivava il pacco postale contenente i vinili desiderati. C’era trepidazione in
me nel toccare quelle copertine, e sentire anche solo l’odore del cartone era
inebriante. Con gli occhi sbarrati dallo stupore, poggiavo sul piatto quei dischi come fossero
una reliquia. Perché quello che avevo appena aperto era davvero come un forziere dei pirati, non
sapendo mai fino in fondo cosa mi aspettasse di ascoltare. Ma questi sono solo
ricordi, nostalgie brucianti, considerazioni di un vecchio rocker, che il tempo
ha fatto fuori irrimediabilmente e che citando Bruce, ha imparato molto di più
dai quei dischi che dai libri di scuola (o
da professori arroganti in loden blu).
Stavo ascoltando a tutto volume Carmagnola #3, un brano
scritto da Giorgio Canali e i Rossofuoco e cantavo rabbioso insieme a lui: ma non se ne
va con i "per favore"non se ne va chi ha troppo da lasciare non se ne
va, con le buone Simon dice: "rivoluzione!" quando il citofono iniziò ripetutamente e nervosamente a
suonare tanto che pensai che la zia Amalia fosse già di ritorno dalla sua gita.
Spensi in tutta fretta lo stereo e andai
a rispondere. Con la sua vocina leggera che sembra che ti prenda per il culo mi
rispose il poeta: che aspetti ad aprirmi sta venendo giù il cielo. girai lo
sguardo fuori dalla finestra ed effettivamente la pioggia scendeva copiosa. Non
ci avevo fatto caso, preso com’ero dalla musica. Entrò in casa spavaldo con una
bottiglia del nostro vecchio amico Jack Daniels in mano, riportandomi un cd che
gli avevo prestato e che finalmente dopo tempo immemore ritornava all’ovile. Ci
versammo da bere e subito prese a
recitarmi quella poesia che aveva scelto per il concorso letterario. L’intensità
che promulgò mi fece rivedere in lui il Robin Williams del film l’Attimo
Fuggente.
In una stanza senza armadi c’è un tavolo senza cassetti, una
sedia e un appendiabito vuoto, una torcia elettrica e una bottiglia di whiskey,
mozziconi di sigaretta, una chitarra acustica e un armonica in tonalità di mi
maggiore. Un pacco di dischi, dei libri, e una lettera d’amore. Alle volte
succede che sono le canzoni che cantano gli uomini e le loro gesta e non
viceversa. In Public Domain, un disco pubblicato da Dave Alvin nell’anno 2000,
accadde proprio questo. Canzoni con radici nel “sentiero delle lacrime”, che
come spiriti hanno viaggiato nelle polvere del tempo e di porta in porta, di
bocca in bocca, si sono depositate nel cuore delle persone, ritornarono vestite
di tutto punto per il ballo della festa, lucidate e rimesse a nuovo pronte
nuovamente a risplendere di una nuova luce. Canzoni che sono un patrimonio
dell’umanità. Che fanno parte di tutti noi e che per questo vanno difese e
celebrate. Canzoni alle volte anche ingenue suonate su tre semplici accordi,
quegli stessi accordi sempre uguali, che hanno fatto poi grande il rock’n’roll.
Che sono passate tra le dita e il grande cuore di Woody Gutrie, Doc Watson,
Tommy Johnson, Johnny Cash, Bob Dylan, Carter Family, Blind Willie Mc Tell solo
per citarne alcuni. Canzoni che parlano di ferrovie, vendette, omicidi, di
cuori impavidi, inseguimenti e gelosie, di speranza e sopravvivenza. Di persone
lasciate sole. Di te e di me.
Tony si era addormentato accovacciandosi sul divano. Erano
quasi le quattro del mattino e la pioggia continuava a cadere. Non gli avevo
raccontato che ero rimasto stregato da Toot e neanche che ero stato licenziato
dalla ditta di pulizie dove lavoravo. La signora Elvira, finita la giornata,
con le lacrime agli occhi mi aveva chiamato e dato la paga. Poi abbracciandomi
mi spiegò che aveva tenuto duro finché le era stato possibile, ma questa crisi
feroce e inutile l’aveva sovrastata. Non possedeva più i soldi per andare
avanti e la banca gli aveva revocato il fido e chiuso il conto. Ancora una
volta tutto quello che toccavo era andato in malora. Mentre aspettavo l’alba di
un nuovo giorno provai una stretta al cuore e pensai a mio padre e a Sal, alle
loro anime, e cercai coraggio. Nonostante tutto continuai a scrivere, fumando e
bevendo troppo. Ma questo voi lo sapete già. Buon Anno a tutti.
Bartolo Federico