Nella notte aveva piovuto di continuo e al mattino la carreggiata era ancora bagnata. Sembrava una giornata di fine ottobre per quella malinconia che aveva avvolto il paesaggio. Dei pettirossi passarono sopra la mia testa sfarfallando qua e là. Li osservai massaggiandomi la schiena. Avevo il corpo indolenzito dopo la nottata trascorsa a riposare sul sedile del furgone. Ma era anche vero che non ero più vispo come una volta. Fatto il pieno, controllato l’olio e l’acqua del radiatore, cambiate le pasticche dei freni e riparate le ammaccature che ricoprivano la carrozzeria del camioncino, ero partito. Mi sentivo braccato dagli eventi, e quell’ inquietudine di andarmene senza meta mi aveva nuovamente morso nel cuore. Ma non era più il tempo di fughe precipitose, della ricerca frenetica, da perdenti sballati, o da esausti, che una volta ingolfavano la linea bianca di mezzeria. Non era più il tempo di facce sperdute, di capelloni con chitarra, di mistici, tutti quanti diretti verso i propri confini interiori. No, non era più quel tempo. Ma avevo la consapevolezza che la strada era l’unico luogo dove potevo fare chiarezza alla mia stessa confusione e in qualche modo salvarmi dalla pazzia. Sapevo che durante il viaggio sarei stato ciò che sono, finalmente senza più alcuna finzione. Per questo avevo deciso di seguire quell’ansia che ad un tratto mi attaccava e mi lasciava senza respiro. Quella smania che provavo sin da ragazzo e che mi aveva divorato la vita. La strada era ancora lì, nera e lucente, selvaggia e inafferrabile, apparentemente immobile, e con occhi spalancati aspettava di essere nuovamente percorsa.
“Attento alla strada lanciata sotto le mie ruote non so come dirti quanto avverta la pazzia di questa vita” (Running On Empty - Jackson Browne).
”Metà cotone va al banchiere, l’altra metà al negozio, sul bancone. Mentre alla moglie del contadino resta solo un vecchio vestito di cotone, pieno di buchi,pieno di buchi (Bo Weevil).
Se nasci nel sud, puoi starne certo, sarai un emigrante. Mio nonno Iano me lo ripeteva sempre. Ad un uomo del sud gli viene il blues. Gli viene dal cuore quel modo di dirti come vive, come viene trattato da chi in tutti i modi cerca di umiliarlo, di fotterlo, di piegarlo sulle ginocchia. Chester Burnett aveva sentito che la gente se la passava meglio nella Wind City. Saltò in piena notte su un treno merci e dal profondo sud del Mississippi si spostò a nord. Cantando il blues. Al sud a quasi tutti viene affibbiato un soprannome. Chester, veniva chiamato “Bull Cow”, ma anche “Big Foot”, per via della sua stazza. Ma poi suo nonno John Jones, sentendo i racconti di un songster, un certo John “Funny Papa” Smith, per via del suo carattere intemperante lo chiamò Howlin’ Wolf. Il giovane lupo lavora nelle piantagioni di cotone ed è qui che incontra Charlie Patton e Willie Brown. Patton lo prende subito sotto la sua custodia insegnandogli i primi rudimenti alla chitarra, impressionato da quella voce selvaggia e roca che ricordava la sua. Howlin’ è un uomo alto quasi due metri e dal peso di un quintale ma questo non gli impedisce di dare libero sfogo a tutta la sua fisicità. Durante le esibizioni dal vivo, salta per il palcoscenico, si arrampica sugli amplificatori e si getta ululando sul pubblico. È il blues nel suo aspetto più carnale, è il diavolo che si impossessa del suo corpo e guaisce. Il blues è la storia di un popolo di migranti. Un popolo che riusciva a sentire, ascoltare e guardare in faccia le cose che accadevano ed a parlarne con la forza della musica. Persone ricettive, i bluesman, che tramite il viaggio, il continuo spostamento da un luogo ad un altro, aprivano gli occhi sul mondo. “Voglio piangere, voglio urlare, mi sento così male, che ho voglia di morire. Ma se domani mi sento come mi sento oggi, preparerò la valigia e me ne andrò via”(Big Bill Broonzy). Howlin’ inizia ad incidere che è già abbastanza grande e questo giocherà a suo favore. Nel suo blues saprà convogliare la tradizione dei vecchi poeti del Delta, con quello che la strada gli ha spiegato.
La statale passava su ponti, costruiti sopra ampi letti ghiaiosi, che collegavano le sponde delle fiumare. Ero circondato dal verde intenso degli agrumeti che si estendevano per chilometri e da incolti dominati dalla canna. In un pomeriggio avanzato seguivo il sentiero sterrato che avevo imboccato per caso. Percorrendo un'altra via, ad un tratto, senza alcun preavviso, mi ritrovai su quella strada delimitata da muretti di pietra, costruiti a secco, che continuava a entrare in aperta campagna. In questa beata solitudine ad un tratto vidi un uomo camminare su una mulattiera limitrofa. Anche se non c’era nessuno nei paraggi, azionai la freccia e mi fermai su un lato. Scesi dal camioncino e mi diressi verso di lui. Antonio Strazzera era stato un uomo-tonno, a capo di una paranza con otto marinai a bordo. Me lo raccontò lui stesso più tardi a casa sua mentre mangiavamo una frittura di pesce cucinata dalla moglie Giuseppina e che, per quanto buona, era da erigere a divinità. Sono sempre i poveri che ti offrono tutto quello che hanno. Dopo cena, sotto il patio con un venticello caldo che soffiava dietro le nostre spalle sorseggiammo della birra artigianale ghiacciata. Il tempo trascorse in un baleno e si fece notte. Gli Strazzera vivevano di una modesta pensione in quella piccola ma accogliente casa che grazie a Dio gli era stata lasciata in eredità dal padre. Non avevano avuto figli ma non se ne erano mai fatto un cruccio. Erano felici della vita che avevano vissuto e il signor Antonio continuava ad arrangiarsi ancora con piccoli lavoretti. Nonostante l’età avanzata, era ancora robusto e nodoso come un rovere. Il mare lo aveva forgiato a dovere. Quella sera mi addormentai su un lettino improvvisato nel magazzino degli attrezzi agricoli. All’indomani mattina quando mi svegliai il sole era già alto nel cielo e prima di andarmene la signora Giuseppina abbracciandomi mi sussurrò di guardare alle cose nuove che avrei incontrato con curiosità e rispetto. Loro avevano vissuto aggrappati ai sogni e dandogli molto spazio. E me lo disse porgendomi un sorriso luminoso. “Ho sognato di avere un miliardo e per moglie una bella sirena. Ho sognato di vincere il ponte di Brooklyn giocando a dadi in ginocchio. Ho sognato che giocavo al lotto, e che scommettevo ai cavalli. Ho vinto tanti di quei soldi da non sapere più cosa farne. Ma era un sogno solo un sogno nella mia testa. Quando al mattino mi sono svegliato, neanche un soldo ho più ritrovato” (Just A Dream - Big Bill Broonzy.
“Oh, baby don't you want to go, Oh, baby don't you want to go, Back to the land of California, To my sweet home Chicago (Sweet home Chicago - Robert Johnson).
Alle tre del pomeriggio mi fermai per fare rifornimento lungo una strada a doppia corsia completamente deserta. Il ragazzo della pompa di benzina aveva la faccia stanca e ansimava per l’alto tasso di umidità che rendeva l’aria irrespirabile. Mentre attendevo che si riempisse il serbatoio parlottammo del più e del meno. Poi ripresi il viaggio. Su quel versante dell’isola l’acqua era davvero poca, tanto che la campagna intorno era senza alberi, gialla e rinsecchita. Il cielo, però, era di una luce come non l’avevo visto mai prima di allora. Costeggiai una lunghissima spiaggia dai sapori oceanici e mi ritrovai su una grande piana. Con l’ultimo bagliore del giorno arrivai in una città. “La tua mente ti dice di viaggiare dovunque. Quando sei là, non ci starai molto. Non sai restare in nessun luogo” (Out On Santa Fè Blue s- Arthur Petties). Wolf a Chicago arrivò nel 1952, insieme alla sua chitarra e l’armonica a bocca che Sonny Boy Williamson, nel frattempo diventato suo cognato, gli aveva insegnato a suonare. Quel contadino portava con sé il suo caratteraccio smanioso e diffidente sempre pronto alla rissa, tanto che i suoi rapporti con gli altri bluesman furono problematici, specie con Muddy Waters, suo eterno rivale. Scritturato da Leonard Chess, per l’omonima casa discografica, condivise con Waters, le canzoni che il prolifico e immenso Willie Dixon gli scrisse. Spoonful, Little Red Rooster, Evil, Back Door Man, I Ain’t Superstitious, sono alcune di quelle perle. Quando nel 1955 il chitarrista della sua band Willie Johnson viene sostituito da Hubert Sumlin troverà in lui uno dei pochi musicisti in grado di assecondarlo, tanto che lo considerò sempre come un figlio. Il blues del “lupo ululante” era oscuro e martellante, aggressivo e privo di compromessi. Wolf era un figlio del Mississippi, radicato nelle tradizioni e cresciuto con la lezione del grande Charley Patton. Anche quando alla fine della sua carriera il successo gli arrise, non si scordò mai dei suoi dolori, dei suoi disagi, delle sue origini. Non scordò mai chi era stato. Ho i buchi nelle tasche, piccola, e le toppe nei calzoni. Sono in arretrato con l’affitto e il padrone di casa lo vuole tutto in anticipo. Ho le cavalette nel cuscino, piccola,ho i grilli nei miei pasti. Ho i chiodi nelle scarpe, piccola, e mi pungono il calcagno (I’m Leaving Blues- Leadbelly).
L’estate si allunga lenta e dilata il tempo e i giorni si muovono in armonia. Il caldo scioglie il catrame e le emozioni corrono veloci, come la pazzia. Ma sono cose che non tutti riescono a percepire. La notte era atterrata rastrellando alcuni pensieri, mentre altri erano rimasti sparpagliati nel buio. Lungo il tragitto mi accompagnavo con le note di I've Got A Mind To Give Up Living/ All Over Again, che mi sfibbiarono il giusto l’anima. Dal bar avevo telefonato nuovamente a Concetta, ma anche questa volta non aveva risposto. Una macchina mi superò suonando nervosamente il clacson. Erano le dieci della sera e faceva un caldo boia. Mi sentivo teso con il corpo sveglio ma la mente addormentata. Non riuscivo a tenere in piedi un pensiero e quello strano senso di vuoto si era nuovamente impadronito di me. Facevo strada cambiando umore di continuo. Adesso avrei potuto rimanere per sempre immobile nella notte. Quando avevo sedici anni me ne stavo a fantasticare romanticherie, ero nel pieno di quel desiderio di solitudine ma anche convinto che un incontro mi avrebbe cambiato la vita. Poi le cose avevano fatto il loro corso e c’erano stati lunghi inverni passati da lupo. Alla fine qualcuno aveva bussato alla porta. Guidavo stando a colloquio con i miei spiriti, e avrei voluto che piovesse nuovamente. Non c’era più quella magia intorno a me che rendeva tutto più sopportabile. Il tempo si era distorto. Ma il tempo è l’unica certezza che abbiamo. Forse, pensai, avrei dovuto imparare a lasciarmi andare, a nuotare senza gli stivali e guidare senza freni. Guardai la strada nera e profonda davanti a me e poi il cielo che era un fragore di stelle. Calai il finestrino e ascoltai il vento sibilare tra l’erba.
Bartolo Federico


Ciao,
RispondiEliminaho trovato il tuo blog dal tuo profilo.
Ti ringrazio per avermi inserito in google+.
Non potevo non fermarmi a leggere, mi sono unita ai tuoi lettori.
A presto
Marilena
grazie per la tua presenza, e per la tua pazienza nel leggermi.
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