sabato 30 gennaio 2016
venerdì 22 gennaio 2016
giovedì 21 gennaio 2016
Perso Nella Folla
Alla seconda sorsata gli si riempirono gli occhi di lacrime. Nemmeno gli
angeli del paradiso lo avrebbero potuto consolare. Si sentiva come un bambino,
terrorizzato da quell’attacco di panico. Posò lo sguardo sui suoi pensieri e
rimase stranito, tremante, fermo in mezzo alla strada. Si era attaccato alla
bottiglia, anche se quel vino sapeva d’aceto. Ma alla fine ci si sbronza con
quel che si trova. L’alcool gli esplose dentro lo stomaco, facendolo quasi
vomitare. La strada puzzava di merda di cane. Mentre un pallido velo di fumo,
infiacchiva la luce dei lampioni. Aveva sempre fatto una gran fatica a
sbaraccarsi da quelle barriere in cui si era recintato. Anche se uno non lo sa,
o fa finta di niente, s’impara tutto da piccoli, quando si è deboli e insicuri.
Un suo zio prediletto, quello che ti porta al cinema e ti offre da fumare, gli
disse di comportarsi bene, se non voleva finire in galera. Adesso la pioggia
aveva cominciato a cadere densa. Sotto quel diluvio, i suoi spettri presero a
far rumore e a urlare violentemente. Gli parve di vedere dei corvi alzarsi in
volo. Girò lo sguardo verso il muro, e quando alzò nuovamente gli occhi, il
giorno arrivò. In una tromba di luce accecante. La vita è piena di delusioni. Di sogni rancidi, di
profili sbiaditi, di amori fasulli, di merda e morte. Dopotutto la speranza non
costa granché. Anche quella di diventare ricchi e famosi, non costa nulla. A
lui piaceva viaggiare nelle strade buie e silenziose, osservando la linea di
mezzeria. In fuga da tutto e da tutti.
Ed Cassidy aveva suonato la batteria con Thelonious
Monk, Gerry Mulligan, Art Pepper, Cannonball
Adderley. Quando a Los Angeles
incontra Randy California - un chitarrista fantasioso e originale
che aveva suonato con Hendrix e Jimmy James The Blue Flames - con
Mark Andes, John Locke e Jay Ferguson, danno vita a uno dei gruppi più atipici della scena
rock americana. Gli Spirit suonavano musica davvero difficile da
etichettare. Erano tra i pochi a sapere mescolare il pop, (uno dei più grandi
riff rock rimane la loro I Got A Line On You) con spunti jazzistici, musica psichedelica e limpide armonie
vocali. Musicisti eccelsi, impeccabili, ma non per questo privi di cuore. “The
Family That Plays Together”
venne fuori nel dicembre del 1968
e conteneva sette canzoni, che suonano misteriose e inquietanti,
ambigue e tenebrose. Ma anche oniriche e rilassanti. Come fantasmi nella
notte, riescono
ancora ad aprirsi un varco in quei frammenti di luce, che in un modo o
nell’altro ci tengono vivi. L’autunno e
il freddo. Fondi di caffè e sfere di cristallo. Imposte chiuse, campanelle e
fanfare. Alle volte non riesci a respirare. Quel morso che ti
attanaglia, non si calma. Toc! Toc! Toc! Si fermò ansimando come un cane rabbioso. In quel grande vuoto, poteva
anche marcire di malinconia. E allora si mise a canticchiare "Sunny".
Quella canzone lo faceva sentire meglio. Il cuore riprese a battere, tremare,
tuonare. La musica lo ripuliva. Il sogno era come un’ambulanza che lo
soccorreva. Prese a camminare a testa alta, con il passo di chi non ha più
paura.
“E musica che potete sentire in ogni
luogo, allo radio, nelle strade, blues, soul, country, rock, musica religiosa e
suoni del traffico, della folla, della strada e dei prati, il suono del
silenzio della gente”.
Questo scriveva il
chitarrista Mike Bloomfield
nelle note di copertina di A Long Time
Comin’ l’album d’esordio targato 1968,
degli Electric Flag. Con Michael
c’è anche il vecchio amico Nick
Gravenites, Buddy Miles, Barry Goldberg, e Harvey Brooks. Una sezione di fiati
completa l’ensemble, per un progetto stilistico ambizioso. La band è davvero
esplosiva, soprattutto dal vivo. Si esibiscono con buon successo al festival di
Monterey e partecipano alla
colonna sonora del film The Trip.
Ma in studio forse per colpa di certi arrangiamenti, non riescono a essere
convincenti. Sicuramente Bloomfield è l’esatto opposto di una rockstar. Un uomo
stracarico di tormenti interiori. Un carattere schivo e taciturno, che lo mette
in difficoltà a stare sotto le luci della
ribalta. Soffre anche di una grave forma d’insonnia, tanto che comincia a farsi
di eroina. Prima di formare gli Eletric Flag, tra il 1964 e il 1965, suona in
studio con Bob Dylan in Highway 61 Revisited. In seguito farà
parte della Butterfield Blues Band,
e dopo aver accompagnato per un pezzo di strada Eddie Vinson, forma i Flag. “A Long Time Comin’” rappresenta uno spaccato di quell’epoca del
rock, quand’era più facile tuffarsi su qualche strada, e dare gas ai propri
sogni. Ma allora si aveva voglia di ubriacarsi a ogni fermata che si faceva,
pronti a ricominciare, qualsiasi cosa capitasse. Ci sono dentro queste canzoni i
frastuoni ossessivi della città del vento, e i suoi rumori. E anche i miei
giorni innocenti.
La cucina era in
miniatura e dava su un piccolo cortiletto sporco, pieno di vecchie cose
arrugginite, accatastate l’una sull’altra. Un motore diesel, dei copertoni, un
manubrio. Fusti di latta, scatole di polistirolo, sopramobili, un portacenere di
marmo, un quadretto con foto in bianco e nero. Ferri da stiro, un campanello
elettrico, caraffe di legno, quel che restava di una macchina per cucire, un
paraurti, delle scatolette di cibo per gatti. Un ventilatore a colonna, un
saldatore elettrico, un rullo per pittura, mazze da carpentiere, uno scappello
a punta. Un cane arrotolato su se stesso dormiva a ridosso di
quella catasta. Nella tromba delle scale del palazzo, i ragazzi giocavano a carte
bevendo succo di pera mischiato a gin. Prese una birra e accese lo stereo. Con
suo fratello da bambini giocavano ad ammazzare gli scarafaggi che passavano sul
davanzale del balcone della cucina. Un pomeriggio né contò più di cinquanta.
Era cresciuto in quel quartiere dove conosceva tutti, e in qualche modo in
quel luogo, si sentiva al sicuro. Ma nel tempo molte cose erano cambiate. Molti luoghi della sua memoria erano spariti per fare spazio a inutili
palazzi, e a quei centri commerciali del cazzo, che stavano sterminando il suo
passato.
Alle prime note di
“God Bless The Child” alzò il volume dello stereo. Aveva sempre uno strano
effetto quella canzone su di lui. Quel disco gli emanava una sensazione dolce,
lo metteva a suo agio. Rimase a guardare fuori dalla finestra la strada che si
faceva buia. Quando la musica terminò stappò la birra che teneva in mano, e si
sedette sul bordo del letto. Dopo si distese e si addormentò di colpo. Certo
che non sarebbe male, se ci fosse qualcosa che ci facesse distinguere da subito
i buoni dai cattivi. Ma alle volte basterebbe guardarle da vicino le cose,
per vederle. Il quartiere della diciottesima circoscrizione era abitato da
operai, gente umile, alla buona. Fin da piccolo aveva imparato frequentando
quelle strade, che c’erano solo due modi per cavarsela nella vita. O ci
penetravi inzuppandoti fino alla testa col rischio di soffocare, oppure era
meglio risalire il fiume spingendo lentamente la canoa, in modo tale da potere
vedere i giorni che passano. Lo avevano svenduto quel quartiere in nome del
progresso, i fantocci che amministravano la città. I piccoli negozi avevano chiuso,
gli affitti erano diventati vertiginosi, ed erano arrivati in massa i cinesi ad
arraffare tutto quello che potevano, per aprire i loro punti vendita, e
riempirli di pattume. Camminava stordito anche tra le cose che gli sembrava di conoscere.
Era tremendo osservare come ce ne fossero di cose, e persone smarrite nei
ricordi, che non si muovevano più. Come i morti. Quando uno invecchia non sa
più chi risvegliare. Ascolti vai! Poi ti ritrovi. Sali in cima e scendi, guardi
dappertutto. Un passo, due passi, adagio, non vedi nessuno. Buongiorno angosce.
Cadrai a pezzi come un rottame. Niente di grave. Ma vada come vada, non farai
domande. La gente sbraita e rompe le palle. Mi concentrerò solo sul respiro,
solo sul respiro. Siamo tutti tremendamente soli, in questo mondo.
Bartolo
Federico
lunedì 18 gennaio 2016
Stelle Di Rock'N'Roll (vivrò domani)
Il cantante vestito
di nero, era pallido e ansioso d’iniziare la sua performance. Con il
braccio destro piegato dietro il collo, si reggeva la testa e con l’altra mano
afferrato il microfono, guardava il pubblico con un ghigno allucinato. Come di
uno che spia il suo stesso disfacimento. La musica è selvaggia e le canzoni danzano
in un improbabile immaginario, che va da Bob Dylan al Marchese De Sade. Una
marea di gente era assiepata sotto quel palco. Esaltati e impazienti precipitavano in quell’inferno metropolitano, di violenza e angoscia. Ma anche
di Amore. Un pubblicò giovane ma che capì il senso delle sue parole,
che non era robetta da top of the pops.
“La gente rimaneva stupita dal trucco sulla
faccia rideva ai suoi lunghi capelli neri, alla sua grazia animale il ragazzo
nei blue jeans chiari saltava sulla scena e la signora polvere
di stelle cantava le sue canzoni di
oscurità e disgrazia.”
Si consuma la
musica rock come le mutande, il sesso, la droga la vita. Carolina la puttana
del quartiere, risaliva stanca sulla strada principale. Era triste come la
domenica mattina. Cento dollari e un pompino. Ecco laggiù che arriva il suo uomo.
Ma è solo una comparsa. IGGY POP trascorse quasi un anno della sua vita
in un ospedale psichiatrico per cercare di disintossicarsi, seguito con amore
da David Bowie. Poi di ritorno dal quel soggiorno inglese, si rinchiuse per
quattro mesi al Bevery Hotel. Quando un giorno uscì incontrò Nico, una femmina
talmente bella che gli sbarellò il cervello, più di una botta d’eroina. Ma
anche lei era sballata. Affittarono una casa e con un mucchio di soldi, e una
montagna di roba, si rinchiusero dentro. Cosi fan tutte le strafottute
Rock’n’roll Star.
“Eccola che viene è meglio che guardi dove vai,
ti spezzerà il cuore in due non ci vuol molto a capirlo”.
Sembra un invito al suicidio, ma forse è solo il
caldo che ci rende suscettibili. Ci sono domande? Eroi, rotocalchi, riviste, manifesti, gadget, soldi, droga, donne.
Concerti, dischi, interviste. Vita spericolata. Gente che si vende come un
prodotto al mondo dello svago. La loro nuova prigione. Solo per cercare di
rappresentare una rivolta, un sogno giovanile, che finisce come merda nel buco
del cesso. Tirato via per sempre da due tre sciacquoni d'acqua, in un giorno
qualunque.
“Nonostante i Rolling
Stones siano conosciuti per avere incoraggiato e glorificato la droga, gli
sforzi di Richard per liberarsi dalla sottocultura delle droghe, possono avere
un effetto salutare su milioni di persone che lo ammirano”.
Il giudice Lloyd Graburn emise questo verdetto
dopo che Keith Richard accusato di detenzione di 22 grammi d’eroina, e
una cura disintossicante allo Stevens Psychiatric Center di N.Y, AVEVA DONATO
500.000 STERLINE per la COSTRUZIONE di UN CENTRO PER tossici. TENNE CONTO di
questo quel giudice accomodante. Ci Sono Sempre I Soldi Di Mezzo. Che Cazzo Pensavate
voi eh! Fottuti Romantici.
Jimi Hendrix è
morto soffocato dal vomito fra le braccia della sua ultima ragazza. “Il sole non arriva dalle mie finestre mi
sento come se vivessi in fondo a una tomba. vorrei che ti affrettasi a salvarmi
così continuo per la mia vita miserabile. Io non vivo oggi. Vivrò domani?”(I
don’t live today)
Mi sento stordito,
ho il volto teso e gli occhi spalancati. Credo di avere tutta l’aria di essere
pazzo, o sono solo come un bambino spaventato. Ho bevuto mezza birra, e non
m’importa se vinco o perdo. A che serve avere in mano un trofeo. Le porte si
chiudono e poi si riaprono. Siamo tutti collegati fra noi. “C’era sangue dappertutto. Sulle tende sui
muri, sui materassi. E le tracce andavano fino al bagno”. Qualcuno aveva
ucciso Nancy. Quando le auto della polizia arrivarono al Chelsea
Hotel, Sid Vicious era dentro uno sporco Trip. Il poliziotto gli
chiese: perché l’hai fatto ragazzo? “Fatto cosa” rispose Sid. Perché L’HAI
UCCISA? “Io non l’ho Uccisa” rispose. “Se non l’hai fatto perché non hai il
coraggio di guardarmi negli occhi”.
“Questa
è la fine, la mia sola compagna, la fine dei nostri piani elaborati, la fine di
ogni realtà.”
David Bowie è
numero uno nella classifica americana dei dischi più venduti. Da vivo non gli
era mai riuscita questa cosa. Cosi fan tutte le rock’n’roll star. Un lampo
illuminò la sala, ma era la luna che si spostava nel cielo. C’era del fumo
denso in quel bar. La musica suonò rigirandosi su se stessa. Sarebbe
potuta diventare qualsiasi cosa, qualunque cosa, putrefatta come un fiore
morto. Ma era ancora lì che pulsava. Martellante dentro l’anima. La musica.
Bartolo Federico
domenica 17 gennaio 2016
Melissa
Erano quasi le dieci di
una mattina di fine maggio, senza sole e con le nuvole dietro la collina che
minacciavano una pioggia torrenziale. Me ne stavo sotto la pensilina di legno
della veranda di casa di Melissa e guardavo il Mississippi scorrere. Lei era in
ospedale, dove lavorava come infermiera. La mattina, quando era uscita, mi
aveva baciato sugli occhi che ancora dormivo, sussurrandomi di fare la spesa
perché “di lì a poco il frigorifero
avrebbe fatto le ragnatele”. La sera prima avevo suonato, dopo
l’esibizione di Zach Williams and the Reformation, con una band
locale dei vecchi classici del blues e avevo tirato tardi. Mi ero divertito
parecchio insieme a quei ragazzi ed anche il pubblico aveva gradito, visto
l’entusiasmo che si era scatenato a riascoltare quelle vecchie canzoni, che
sono la spina dorsale della musica del Delta. Avevamo reso omaggio a Charlie
Patton, e al suo blues selvaggio e ispido, che sapeva, essere anche tecnico
e sofisticato. Fu tra i primi a utilizzare le accordature aperte per suonare in
slide con il collo di bottiglia.
Quel piccolo (appena un
metro e sessanta di altezza) grande bluesman era un uomo di forte personalità,
individualista e vagabondo ma con una miniera d’oro in fondo al cuore. Aveva
capacità artistiche non comuni che lo fecero diventare una stella nell’ambiente
del Sud. Fu uno dei primi bluesman ad avere un repertorio di canzoni scritte di
proprio pugno: “Pony Blues”, “The Dirty Road”, “ Banty Rooster
Blues” e se ne andava con questo tesoro lungo il Mississippi accompagnato
dal suo fedele amico, il chitarrista Wille Brown, suonando in qualsiasi
posto fosse possibile, dando mostra delle notevoli capacità di showman. Riusciva
sempre a infiammare le platee perché era un grande istrione, pieno di voglia di
comunicare che era anche una caratteristica del suo modo di fare blues. Charlie
Patton suonava la chitarra come un funambolo, tenendola tra le ginocchia o
dietro le spalle, molto tempo prima che lo facesse Jim Hendrix. Nei suoi
duri blues raccontava di sceriffi e guardiani, “High Sheriff Blues”, ma
anche della provvisorietà della vita, “Oh Death”, toccando temi come la
droga, “Spoonful Blues”, o l’ecologia, “High Water Everywhere”,
cantando con una voce rauca e sabbiosa come il fondo del suo fiume. Da Howlin’
Wolf a Elmore James, passando per Robert Johnson, Muddy
Waters e Son house, tutti gli sono debitori.
Patton fu anche il
progenitore di uno stile di vita depravato e dissoluto che ebbe molti epigoni
nel rock’n' roll. Fumava e beveva esageratamente, andava a puttane ed era
rissoso e irascibile. Si sposò una miriade di volte e fini più di una volta in
galera. Insomma il padre putativo di Keith Richard. Bob Dylan,
uno che ha il blues tatuato nel cuore, gli ha dedicato una canzone,“High
Water”, nell’album “Love and Theft” ed io gli sono grato. Acque
alte che crescono, le baracche crollano giù, La gente perde le sue proprietà -
sta lasciando la città Bertha Mason lo ha scosso, lo ha spezzato, poi lo ha
appeso al muro. Dice, “Balla con chi ti dice di farlo o non ballare per niente”
Lì fuori è dura, Acque alte dappertutto.” Mentre il chitarrista John
Fahey ha raccontato la sua storia in un libro: Charlie Patton
(Studio Vista, Londra 1970).
Raccolsi il biglietto
della spesa dal tavolo, uscii da casa e m’incamminai per andare al supermercato.
Il vicino di Melissa stava lavando l’automobile tirando via lo sporco con una
spugna insaponata. Quando gli passai accanto mi lanciò un’occhiata fugace
L’occhiata di un uomo che non bada ai fatti propri. Però,tutto sommato, non
potevo dargli torto: ero uno straniero e non è che passassi inosservato con
quei lunghi capelli, i jeans a zampa d’elefante, la camicia aderente, gli
stivaletti e il gilet con le frange. Parevo fuoriuscito da una copertina di un
vecchio disco di Southern Rock, un reduce allampanato degli anni 70. Quando
il rock divenne monotono come una maglia sformata da infilarsi tutti i giorni,
ecco che dietro l’angolo fu pronto il mutamento. Una generazione di musicisti,
stufa dei lustrini ormai sbiaditi del glam rock e della leziosità borghese del
progressive, riportò tutto a casa. Gli tolsero le incrostazioni, i sedimenti
che lo avevano imbambolato e lo fecero nuovamente suonare in maniera forte e
aggressiva, ma anche melodica. Gli restituirono la voglia di vivere, di
divertirsi. Quella forza trascinante, naturale e istintiva, che è nel suo DNA e
che conquistò subito quel pubblico d’insoddisfatti che voleva altro rispetto a
quelle saghe barocche in cui si era impantanato. Lo ricondussero cosi al suo
stato primordiale, prendendo spunto da Elmore James, T-Bone Walker, Muddy
Waters e dall’esperienza di band come Cream, Zepp, Who,
Faces, Rolling Stones. E ripartirono con orgoglio per una
nuova musica tutta americana. I ragazzi che fecero parte di questo movimento e
che formavano i vari gruppi divisero tutto come una grande comunità hippie e il
denaro fu veramente l’ultima delle loro preoccupazioni. Per questo motivo il
rock suonò libero e innocente. Macom, una città della Georgia,
divenne il centro della scena, dove i musicisti divisero casa, famiglia e anche
vizi di vario tipo. Famosa a tal proposito fu la Big House degli Allman
Brothers Band, dei fratelli Duane e Greg Allman, che insieme ai Lynyrd Skynyrd
di Ronnie Van Zandt, ai Wet Willie, alla Marshall Tucher Band dei
fratelli Caldwell, furono i principali protagonisti della scena musicale.
Feci la spesa stando
ben attento a non dimenticare nulla. Non volevo deludere in nessun modo
Melissa, che era premurosa e felice di avermi con sé. Lei era stata l’unica
donna a riuscire a illuminare i miei angoli bui. Nulla succede all’improvviso,
alla fine basterebbe guardare meglio negli altri e in noi stessi per capire
come vanno le cose. Melissa lo sapeva che prima o poi il mio sangue zingaro mi
avrebbe costretto nuovamente a vagare senza meta per rincorrere quella cosa che
non avrei mai raggiunto. Ma proprio per questo ci amavamo, perché ognuno di noi
aveva il suo mondo parallelo, la sua linea d’ombra, il suo giardino segreto
dove conservare qualcosa per sé. Ed entrambi lo rispettavamo. Quando arrivai a
casa raccolsi dal pergolato dei fiori che appoggiai sul tavolo dell’entrata,
mangiai dei biscotti e disposi nel lettore il cd che Zach Williams and the
Reformation mi avevano regalato dopo il concerto della sera precedente. “Electric
Revival” era il loro debutto. I ragazzi erano galvanizzati per come si
erano messe le cose. Stavano suonando in tutti gli States, e raccoglievano
consensi da più parti. Si preparavano anche per un tour in Europa. Quella sera
omaggiarono la Marshall Tucher , con una bella versione di “Cant’You See”
e i Corvi Neri con “Wiser Time”.
I Reformation sono una
formazione ben impostata, con musicisti di ottimo livello, dediti al verbo del
rock di matrice sudista. Zach, nonostante la giovane età, ha una voce con la
giusta dose alcolica. La chitarra di Robby Rigsbee, disegna traiettorie
che riportano direttamente ai giorni in cui Ronnie Van
Zandt bruciava i suoi giorni vivendo di corsa. Nelle loro canzoni nulla
suona patetico o superfluo, anzi riaccendono quello spirito rock, potente ed
elettrico, che è alla base di tanta musica da strada che parte dai Creedence
e arriva allo Steve Earle di “Copperhead Road”. Luther
Dickinson, dei North Mississippi All Stars, dà una mano a questi
“ Angeli con un’ala rotta”, suonando per loro la sua sfavillante chitarra.
Avevo il volume alto e
non senti Melissa rientrare. Mi prese alle spalle mentre stavo seduto sul
divano e mi cinse il collo con un abbraccio proprio mentre stavo ascoltando
Zack che cantava “ Take Me Home ”. Una gettata di emozioni mi attraversò
il cuore mentre la osservavo. Portava i jeans e una camicia color ottanio
attillata. E un foulard dello stesso colore le legava i capelli. Mi sorrideva
ed era bellissima. Il cielo si era rasserenato. Adesso era di un blu intenso,
come solo al sud si può vedere. Mentre lei preparava la cena, mi sporsi sulla
veranda e osservai il Mississippi. In quell’attimo mi tornarono in mente le
parole che aveva scritto Jack Kerouac in On the road: ”E
qui per la prima volta vidi il mio adorato fiume, il Mississippi, asciutto
nella calugine estiva, l’acqua bassa con quel suo forte odore che è lo stesso
del crudo corpo dell’America perché la lava tutta”. Poi scrutai
la strada, lì immobile, pronta in ogni momento a riprendermi con sé. Ma quando,
rigirandomi, incrociai i suoi occhi fui certo che stavolta mi avrebbe atteso
per molto tempo.
Bartolo
Federico
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