L’unica vera rivoluzione musicale dopo il 1968 è stato
il punk. Piaccia o meno, a cavallo tra il 1976 è il 1977, il mondo ad un
tratto fu invaso da una miriade di band. Fiori malati e sovversivi, miracolosamente
nati da quei germogli sbocciati qualche anno prima dentro le mura del CBCG. Un
club, per chi non lo sapesse, situato nel Lower East Side di Manhattan a New
York. Il punk fu musica diretta, senza
inutili orpelli. Un ritorno al rock’n’roll nudo e crudo, alla Elvis delle
Sun Sessions. Magari tecnicamente non fu del tutto perfetto, ma il rock che
suda e rotola ansie non ha mai badato troppo a questo aspetto. E’la forza
d’urto che sa sprigionare la sua peculiarità. Il messaggio fu da subito chiaro:
chiunque poteva prendere uno strumento e salire sul palco. Questo può sembrare
insignificante, ma é proprio da quel semplice gesto che nacque la sovversione.
L’energia, la voglia di esserci, il sentirsi parte di qualcosa, fece il resto.
In qualche modo, il punk fu il collante per milioni di giovani proletari per
credere che la propria vita potesse in qualche modo cambiare. Il suo avvento
fece piazza pulita di tutti quei gruppi in classifica guidati da musicisti
ultrapreparati tipo: Yes, Emerson Lake e Palmer, Gentle Giants, Genesis, Camel,
Mike Oldfield, ecc.., e delle loro saghe barocche, che a tanti, ormai,
smascellavano solo le palle. Gli ammiratori di quel genere, lo zoccolo duro,
odiarono il punk e lo considerarono, e lo considerano ancora, immondizia
musicale. Ma di rock’n’roll in quella musica leziosa, borghese, da primi della
classe non c’è mai stata neanche l’ombra.
Oggi, con la grave crisi economica che attraversiamo,
e con i narcotrafficanti che ci governano, ci sono tutti i presupposti per un
nuovo fermento musicale. La gente è abbandonata a se stessa, e se da un lato
questo genera violenza, dall’altro produce idee, cambiamenti. Nelle cantine,
per la strada, c’è rabbia, tensione, voglia di sperimentare. E i tempi sono
maturi per un nuovo disordine. E’ ora di andare a guardare in quelle fessure
con coraggio, ma solo certi occhi e
certo rock lo potranno fare con la giusta lucidità. Anche nell’editoria
italiana, che non è un mondo finito, come qualcuno erroneamente pensa, c’è
bisogno di uno scossone, di un smottamento che la faccia traballare per
poi rinascere. A mio modo di vedere, servirebbe più audacia. Magari la si potrà
trovare in qualche editore arguto che potrebbe dar vita ad una nuova rivista, il cartaceo rispetto a internet sprigiona ancora
un attrazione fatale alla stregua del vinile. Una rivista che racconti i
tempi che stiamo vivendo attraverso la musica, l’arte, la letteratura, la
poesia, il cinema. Che sappia cogliere i nuovi fermenti e l’aria che tira nel
mondo. Scritta con un nuovo linguaggio. I tanti blog sono un esempio di come
oggi si è rinnovata la capacità di parlare di musica, rispetto ai magazine
classici presenti in edicola. Da tempo vorrei potere leggere un giornale che
abbia una visione ampia della materia e che si affidi ancora all’esuberanza del
rock. Per il ruolo di direttore, per quanto mi riguarda, Paolo Vites sarebbe
perfetto. E non è una leccata la mia. Ma la piccola consapevolezza, da
“vecchio” militante del rock, che, nonostante il tempo trascorso, lui sia rimasto,
tra i giornalisti del settore, ancora curioso come un bambino. E il rock’n’roll
ha questa necessità, oggi come allora, per sopravvivere. Aprite il vostro
cuore, se potete.
Bartolo Federico – Marzo 2012-
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