Puoi
anche pensare di correre via da tutto, ma dal tuo destino non potrai farlo mai.
Quel vecchio signore barbuto aveva l’aria di un mendicante matto. Si era
accomodato sul sedile accanto al mio in quel pullman pieno di anime ferite,
immigrati, clandestini, disoccupati, pensionati con la minima sociale, esodati,
donne con bambini a seguito, e cinquantenni scarburati come me. Tutti quanti in
viaggio in cerca di un posto migliore. E’ il destino che t’insegue mi disse
quell’uomo, e ti lascia senza fiato quasi tramortito. Hai voglia a ruminarci
sopra, tutto continua ad accadere, che tu lo voglia o meno.
Certamente proverai a scansarlo cercando di cambiare percorso, frenando di
botto, andando a zig zag, ma è sempre la tua sorte che sta facendo il suo giro.
Mettiti l’animo in pace amico mio. E mi lanciò un’occhiata dolce come per
rincuorarmi. Gli restituii un piccolo sorriso a fior di labbra. Il
conducente con tanto di occhi sgranati, fissava la strada. Dopo qualche
chilometro fermò il bus e aprì la portiera. Una ragazza con uno strano cappello
in testa, e una piccola valigia, salì a bordo. Siamo come morti che passeggiano, non gl’importa nulla di noi. Non ti accorgi cosa è capitato alla nostra
vita? È un mondo fatto di legno. Ci
sono sette, otto, persone che comandano tutto, che scrivono i libri di storia,
che s’inventano le notizie. Ed è come se azionassero dei telecomandi a
distanza, e ci controllassero il cervello. Questi pezzi di merda plasmano a
loro piacimento qualunque cosa, e ti fanno credere che puoi avere un'altra possibilità.
Ma stanno bleffando. Chi ci prende a lavorare alla nostra età? Ti convincono
che sei tu che hai sbagliato, ed è solo colpa tua, se ti trovi con il culo a
terra. Il loro è solo uno sporco gioco. L’uomo che stava dietro al mio sedile stava
conversando con il suo compagno di viaggio, e mentre il mio cuore si era messo
a correre nel buio, non potei fare a meno di prestargli attenzione. L’autista
teneva la radio accesa che adesso stava suonando un tango argentino. Musica da
bordello come la definì il poeta Jorge Luis Borges. Prima però
mi ero dovuto sorbire Laura Pausini,
Gigi D’Alessio, e anche un pezzo di George
Michael. Per un jihadista del rock come sono stato ostracizzato dal nuovo super-eroe della musica, uno di quelli che vogliono piacere a tutti, è stata dura da sopportare. L’aria sul bus si era fatta stantia,
tanto che qualcuno pensò di abbassare il finestrino. Il vento improvviso mi
colpì in faccia come uno schiaffo. Mi sentivo dentro la scena di un vecchio
film in bianco e nero, di quelli girati in super otto. Una partenza alle volte
può sembrare un cambio, ma non è sempre così. La mia strada era una confusione
di cose, ero un ex marito, un ex lavoratore, un ex di tante cose, stanco e
senza molta speranza. Per non farmi prendere troppo dallo sconforto, cercai di
ricordarmi qualche canzone che mi faceva sentire fiero di me stesso, e provai a
intonarla. Ooooh! mi venne fuori solo un gemito sordo. Un ondata di paura mi
assalì e mi seccò la gola. Capita quando certi ricordi ritornano a galleggiare.
Incrociando le dita sarei arrivato in una nuova città, per ricominciare tutto da
capo. Era un prezzo davvero troppo alto da pagare, ma non avevo alternative.
Reclinai il capo e cercai di riposare su quei sedili duri e scomodi. L’autobus
di tanto in tanto si fermava per consentirci di andare al gabinetto e
sgranchirci un po’ le gambe. Se c’era un bar si beveva un caffè, una birra,
cose così. Prima di una di queste tappe mi svegliai agitato perché sentivo la
donna seduta nella fila accanto alla mia singhiozzare lentamente. La guardai sotto
la luce gialla della lampadina d’emergenza che era sempre accesa, e mi accorsi
che gli calavano copiose lacrime lungo il viso. La vita di chi mi stava intorno
mi si riversava addosso, come una colata lavica. La strada anche per quella
donna era un grande buco nero che faceva paura. Si muoveva anche lei senza una
direzione, in un mondo crudele che ti getta via se non sai tenergli il passo.
Ma sopra quel bus nessuno era in grado di aiutare nessuno. Adesso qualcuno in
fondo ai sedili si stava fumando uno spinello. Era un odore dolce, inconfondibile,
quello che mi arrivava. E mi voltai indietro solo per capire chi fosse. Sono
cresciuto in un quartiere ai margini della città. Un posto che mi è rimasto nel
cuore troppo allungo, e che non mi ha fatto cambiare pelle, quando invece avrei
dovuto. Mi ha condizionato la vita quel luogo. Ma allora mi sembrava che non ci
fosse posto migliore al mondo, per stare. Erano i primi anni ottanta e trascorrevo
il mio tempo quasi sempre immerso nella musica, per questo mi fu naturale propormi
a una radio privata della mia città. Dopo un provino mi assunsero. Quel giorno
in sella al mio vespone bianco mi sembrò di volare, per l’occasione che avevo di poter trasportare altri sognatori nel mio viaggio sonoro. Andavo in
onda due volte la settimana, il martedì e il venerdì, dalle ventidue alla
mezzanotte. Il nome del programma Nightfly, lo rubai a Donal
Fagen. La copertina di quel disco la
trovavo davvero bellissima con quel dj che sembrava Marlowe. Quello scatto racchiudeva tutto quello
che avrei voluto essere, anche se a dire il vero, il contenuto musicale
non mi entusiasmava più di tanto. Dopo qualche tempo però quel nome lo cambiai in Nightlights dal disco del cantautore americano Elliott
Murphy, un pugno di canzoni in cui si riflettevano meglio le mie inquietudini. La
sigla del programma l’avevo invece presa in prestito da un disco dei Fleshtones,
ed era l’omonima canzone del loro
esordio discografico Roman Gods. Trasmettevo per due ore di fila
senza interruzioni commerciali, e con mio sommo stupore fui seguitissimo da
quel popolo dei sotterranei del rock. La mia prima trasmissione la dedicai interamente
a Ian Hunter e al suo doppio live, Welcome To The Club.
Era con quella musica che fuggivo dalla mediocrità della mia vita, e mi sentivo
stregato dal buio. Come un fantasma perso in quella giungla di cemento, mi
aggiravo per la città con quell’odore di benzina bruciata che mi sfondava i
buchi del naso, in cerca di quegli incontri magici che mi avrebbero cambiato per
sempre la vita. Ma in quelle scorribande notturne incontravo spesso solo uomini
con occhi da pazzi, figli di puttana, criminali, e molestatori. E alle volte
potevo sentire anche il click di una rivoltella, che mi faceva gelare il sangue
nelle vene. Ma i sogni avevano preso il sopravvento su di me, e con le mani
alzate al cielo percorrevo la mia strada solitaria. Il duo Ian Hunter,
Mick Ronson, aveva pubblicato nel 1979 You’re
Never Alone With A Schizophrenic, un disco che era stato acclamato
dalla critica e dal pubblico, ed è ancora oggi considerato tra i suoi lavori
migliori. Il banco di prova per quelle canzoni fu il tour che scaturì da
quell’inaspettato successo. Welcome To The Club fu registrato
al Roxy di Los Angeles nello stesso anno, e mostra come non si
è mai soli a stare con uno schizofrenico. È una festa questo disco che ti
scaraventa nella notte ubriaco e felice. Un rock schietto e sincero, pieno di quelle
grandi ballate alla Blonde On Blonde che traboccano di
emozione, e che ti annebbiano gli occhi. Musica che ti fa ballare anche se te ne stai fermo. Ma se scappi puoi
sentire il loro fiato sibilarti dietro, fino a quando non ti abbracceranno per
non lasciarti mai più. Vince sempre chi ti fa tremare le gambe e il
cuore. Ecco tutto. Ci sono cose perdute e cose che ritornano, altre che
svaniscono per sempre nel vuoto. E ci sono facce e parole che non dimentichi. Mai. Il vento calava giù freddo. Ad un tratto un senso di rilassamento mi
pervase il corpo. Ero pronto a seguire il corso delle cose? O forse era solo
una mia recondita speranza? L’uomo barbuto si mise a pregare ad alta voce. “Padre Nostro che sei nei cieli...” Me lo
sentivo che da qualche parte dentro di me c’era una mossa segreta che avrebbe
cambiato le cose, ma non avevo capito di cosa si trattasse, e come fare per catturarla.
Il cuore si agitò come in un turbinio. Forse avrei dovuto deviare la rotta, e
smetterla una volta per tutte di perdermi nel mondo dei sogni. Ma farmi buttare
merda addosso da chiunque, e continuare a vivere come se fosse niente, è una
cosa che non sono mai riuscito a fare. Il vento aveva alzato nuvole di polvere
che avevano avvolto il bus, e la strada tornò ad essere quel luogo, dove tutto
poteva ancora accadere. Hey Lord
Don't Ask Me Questions cantava Graham
Parker accompagnato dai Rumour
in The Parkerilla, un doppio album dal vivo uscito nel 1978. Uno di quei dischi che mi ha cambiato la vita
per sempre. In quel periodo il rock stava cambiando pelle ed era
stato preso nuovamente in mano dai giovani che suonavano con rabbia e
disperazione, la loro crisi d’identità. Non era importante fare un assolo come Jim Hendrix o Joe Bonamassa, ma semplicemente provare a fare qualcosa. Il
rock’n’roll era un immenso regalo a chi non aveva nulla, perché lo faceva
vibrare come una corda di violino. Niente compromessi, ne censura delle parole.
Cose che in molti devono ancora imparare. Il rock è libertà, una fiamma che ti
accende, e ti brucia per sempre con se. The
Parkerilla suona un rock ruvido e pieno di passione, con al centro
della scena una voce sgraziata, imbottita di fumo e alcool. È un rock eccitante
che viene fuori dalle viscere, e che esprime tutto quello che un uomo prova.
Odio, impotenza, amore. In queste canzoni anche se guardano avanti, c’è un
legame con il passato rispetto ai dischi punk che in quei giorni si riversavano
sul mercato discografico. Graham Parker è il fratello inglese
di Southside Johnny, insieme dividono la stessa passione, lo stesso
sofferto modo di cantare, che viene dall’ascolto di pile di dischi soul e
rhythm and blues, ammucchiati nelle loro stanze. Musica che ha avuto il potere
di farmi sognare, nonostante il mondo anche allora cadesse furiosamente su di
me. Però non si è mai soli a stare con i pazzi, mai. Ma tutto è andato in
pezzi, perché adesso non abbiamo neanche la forza di ribellarci. Allora la
gente che era incazzata e aveva paura del futuro, perché sottoposta ad ogni
genere di stress da parte dei governi centrali, ha cercato in qualche modo di
fare una rivoluzione. Oggi accade la medesima cosa, ma tutto resta fermo,
immobile. E allora cosa abbiamo insegnato ai nostri figli? Questa potrebbe
essere una storia ideale per una canzone, ma nessuno più scrive canzoni su
questi argomenti. L’autobus attraversò una zona deserta l’autista ne approfittò
per accelerare, traballammo tutti quanti su quei sedili di legno. Era giovane e
massiccio quel conducente con un taglio di capelli stile militare, si accarezzò
il mento e accese nuovamente la radio che trasmetteva musica pop inconcludente,
proseguendo la sua pazza corsa. Mi alzai dal mio posto cercando di mantenere
l’equilibrio. Mi doleva tutto del mio corpo il sedere, la schiena, la nuca. Il
vecchio barbuto mi guardò rivolgendomi la parola. Ragazzo lo sai che ci
vogliono delle regole perché le cose funzionino, ma se te ne viene una migliore
vai contro il regolamento. E’ strano questo mondo. Ogni cosa che
accade sembra che sia già accaduta. Ma la strada è una sola e va in tutte le
direzioni, per tutti gli uomini. E me lo disse mentre guardava fuori dal
finestrino la strada deserta.
Bartolo Federico
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