La strada era buia e
taciturna, non mi restava che spingere sull’acceleratore e dimenticare
quel senso di vuoto che mi portavo appresso e che mi attaccava senza
tregua. Ho imparato a cadere, pensai, quando i fari di un camion che
procedeva in senso opposto illuminarono l’abitacolo. Per tutte le volte
che ero franato sarei dovuto essere ridotto in pezzi, ma mi rendevo
conto di non sentire più male, ero diventato uno stuntman di
professione, sapevo smorzare i colpi, tuffarmi, saltare, assumere con il
corpo angolazioni innaturali, fare piroette. Ero diventato un acrobata,
solo che le cadute erano tutte vere, non c’erano controfigure venute a
salvarmi.
Intanto
che pensavo questi pensieri,con una mano tirai fuori le sigarette dalla
tasca della giacca di tweed. Ne accesi una e aspirai una lunga boccata,
guardando la fiammella bruciare nel buio. Sbuffai, ed abbassai il
finestrino per liberare fuori dall’abitacolo quella nuvola di fumo che
avevo incamerato nei polmoni. Una folata di vento gelido mi sferzò il
viso.Hai sempre qualcosa da perdere. Ciascuno di noi ha qualcosa da
perdere, sempre. Anche se fai finta che non esista, è li che ti divora i
pensieri. Ti senti spinto, pur con gli occhi gonfi e tristi, a cercare
di realizzare i tuoi progetti.
Nina
me lo disse a sua insaputa una sera,dopo che il mio ennesimo fallimento
era andato in onda sulle reti della mia vita e mi ero ubriacato da fare
ribrezzo. Le mie velleità artistiche,vere o presunte di diventare uno
scrittore, si erano nuovamente infrante di fronte all’ennesimo rifiuto
di un editore di pubblicare i miei racconti. Così, quel desiderio di
riconoscimenti e quella frustrazione che covavo vennero fuori in tutta
la loro crudezza. Quella sera bevvi a più non posso, da svegliarmi in un
letto d’ospedale, ricoverato d’urgenza in coma etilico. Non appena
aprii gli occhi lei era li, pronta a fare di tutto per proteggermi da me
stesso e dalle intemperanze della vita. Era Nina, la donna che un
giorno aveva aperto il suo ombrello materno e mi aveva avvolto tra le
sue braccia, come quel bambolotto con cui giocava da bambina. Nina, che
inconsapevolmente mi feriva per non aver saputo ricambiare tutto l’amore
che mi donava. Se prendi devi dare qualcosa indietro, ma ero troppo
egoista per preoccuparmi dei suoi sentimenti, delle sue necessità,
troppo sperduto dentro me stesso per potere pensare anche a lei.
“E
se il whisky non mi uccide allora non so cosa lo farà. Andrò in qualche
bar a bere con i miei amici, dove le donne non possono seguirmi per
vedere quel che spendo. Dio le benedica quelle belle donne, vorrei
fossero mie. Il loro respiro è dolce come la rugiada sui grappoli d'uva.
Fatemi mangiare quando ho fame, fatemi bere quando ho sete, Hmmm,
dollari quando sono al verde, religione quando morirò. Il mondo intero è
una bottiglia e la vita nient'altro che un bicchierino di whisky”. (Moonshiner traditional - BobDylan)
Il
mattino se ne uscì picchiettato da un pallido sole. Tirai fuori
dall’autoradio il cd che avevo ascoltato per tutta la notte. Era una
raccolta di Bob Dylan che attraversava quasi tutta la sua vita
artistica, intitolata Uno sguardo intimo a Bob Dylan. L’avevo
comprata inizialmente per il bellissimo titolo e perché conteneva
Moonshiner, uno dei mie pezzi preferiti di sempre, in una differente
versione rispetto a quella magnetica pubblicata a suo tempo nelle Bootleg Series. A voler essere un tantino pignoli, solo un po’ meno bella. Il cd contiene 17 canzoni tra cui anche rarità come Trouble in Mind, con la chitarra di Mark Knopfler e una versione superlativa per piano di Spanish Is The Loving Tongue più altre cose splendide come una Boots Of Spanish Leather,
da brividi. Cose che arrivano da cinquant’anni di scrittura e che vale
sempre la pena ascoltare, se siete anche voi arruolati nei cacciatori di
stati d’animo. Queste canzoni vi serviranno per superare gli ostacoli e
le transenne, serviranno a non sentirvi soli dentro la vostra pazzia
ululante. Ma, badate bene, non sono semplici canzoni, sono turbamenti
nel caos infinito del cuore che si incateneranno l’uno all’altra e
giocheranno a darsi il cambio, restandovi dentro per sempre. Potete
scommetterci.
All’improvviso,
la stanchezza mi restituì alla realtà. Non sapevo dove mi trovavo,
avevo guidato tutta la notte e non badato a nulla, piantonando senza
tregua la strada buia davanti a me. Mi ero immerso in una folla di
sensazioni che mi avevano cullato e anche rinfrancato.Adesso,
però, cedevo sotto i colpi della fatica. Avevo il corpo indolenzito e
il collo mi doleva,gli occhi si chiudevano da soli, cascavo dal sonno.
Per dormire mi infilai dritto nella prima area di servizio.
”Dio,
sono uno, Dio, sono due, Dio, sono tre, Dio, sono quattro, Dio, sono
cinquecento miglia lontano da casa. Lontano da casa, lontano da casa,
lontano da casa, lontano da casa, Dio, sono cinquecento miglia lontano
da casa Non ho la camicia addosso, non ho un penny, Dio, non posso
tornare a casa in questo modo, in questo modo.” (500 Miles - tradidional eseguito anche da Bob Dylan)
Il campo di cotone era stato ripulito dalla gramigna. Fred, Fred McDowell,
era fermo ai bordi ancora in tuta da lavoro, immerso nella canicola di
luglio e guardava in un punto indefinito l’orizzonte. Ad un tratto,
sentì urlare il suo nome, si girò e vide che il suo vicino di casa Lonnie Young
correva verso di lui. Si era sparsa la voce che quel bianco, venuto dal
nord con un registratore a bobine, stesse cercando artisti locali da
registrare per l ’Atlantic Records. Lonnie informò Fred della cosa e si misero in cammino frettolosamente.McDowell passò da casa, prese la chitarra acustica, chiamò sua zia Fanny Davis che suonava il kazoo ed insieme si presentarono al cospetto di quel tizio che di nome faceva Alan e di cognome Lomax. Era il 1959.
“Mississippi” Fred McDowell fu
un musicista di talento, scoperto in ritardo ma, diavolo!, per una
volta giustizia è stata fatta. Il suo blues,legato alla tradizione
rurale del Delta, era suonato principalmente in stile bottleneck, ma
anche in fingerpicking. Tecniche che aveva carpito durante le esibizioni
di Charlie Patton che, senza dubbio, fu la sua principale suggestione insieme a Tommy Johnson, Son House e Frank Strokes.
Il suono che tirava fuori dalla chitarra era implacabile e nello stesso
tempo disorientante. Quando raschiava quel vecchio coltellino sulle
corde o, in mancanza di esso, un pezzo di una costola di vacca, la
musica assumeva contorni tenebrosi, perfino terrificanti. Poi, con voce
nasale spezzata, per la tristezza ed il dolore cantava il suo blues
ipnotico. Alan Lomax, che si trovava in compagnia del cantante inglese Shirley Collins,
lo ascoltò sotto il portico di casa di Lonnie Young. Per il vero,
rimasero stupefatti entrambi, ammaliati da quel suono twangy e da quel
groove minaccioso che la sua acustica sprigionava. Il suo volto, però,
si vestiva di rimpianto.
Dopo quell’incontro e quelle registrazioni, Fred McDowell (è l’uomo che ha scritto See See Rider, Careless Love, Shake 'Em On Down) dovette aspettare qualche anno l’arrivo di Chris Strachwitz per godere di fama considerevole. Strachwitz era il proprietario della Arhoolie,
una casa discografica dedita al blues e le incisioni che Fred fece per
lui gli diedero finalmente visibilità. Durante gli anni sessanta,
partecipò a vari festival di blues e folk e prese parte a diversi
documentari sulla musica nera. Anche se fu raggiunto dalla notorietà,
non si allontanò mai dal suo stile di vita precario e dalla sua casa a
Como nel Mississippi. Il mondo del rock ha attinto dal suo vastissimo
repertorio e alcuni dei suoi blues sono divenuti dei classici. Gli Stones, nel 1971, registrarono You Gotta Move per l’album Sticky Fingers,
che gli fruttò un po’ di royalty anche se, solo dopo un anno da
quell’evento, McDowell morì di cancro allo stomaco in quel di Memphis. I
Rolling gli donarono per l’ultimo viaggio un abito d’argento lamé.
L’abito di re. La talentuosa chitarrista Bonnie Raitt, sua
seguace, in seguito pagò di tasca sua per una lapide tutta nuova, dato
che la precedente aveva il suo nome scritto male. Sempre una donna, la
formidabile chitarrista acustica Rory Block, ha pubblicato un tributo interamente dedicato a lui. Per finire, i fratelli Dickinson (North Mississippi All Star) devono al suo blues la loro stessa esistenza musicale.
Le
incisioni sul campo che Alan Lomax fece quel lontano giorno del 1959,
anche se sono state già diffuse e sono sparse un po’ ovunque nella sua
sterminata discografia, oggi si possono riascoltare, rimasterizzate in
modo eccellente, e lasciano senza parole. Per provare a starci su,
ascoltatele mentre la pioggia vi ticchetta sulla porta e lo sguardo
incrocia una immaginaria linea ferrata. Come viaggiatori furtivi, vi
inabisserete nella notte e, per magia, sentirete liberarsi il blues
nelle fessure della vostra anima.
Tu mi fai debole e mi fai gemere”.
Mississippi McDowell sputava fuori le parole di quella canzone, intanto
che la strada si inerpicava vertiginosamente. Il vento improvviso fece
sbandare l’auto che recuperai con un colpo fulmineo di sterzo. Come
avremmo fatto ad incastrare le nostre vite, se le cose che ci dividevano
erano più che quelle che ci univano? ”il blues è soltanto una donna nei pensieri di un uomo, il blues è soltanto un dolore dentro al cuore di un uomo.”Cosa
ci saremmo detti con il passare del tempo? Lei si prendeva solo ciò che
le interessava di me, ma io ero anche un altro perchè, come tutti,
avevo un altro volto che a lei non interessava conoscere. A questo punto
non restava che andarmene ancora una volta, non potevamo seguitare a
farci del male. Mi chiesi, allora, per quale ragione non riuscissi a
trovare mai niente, che guarisse il mio silenzio ed il freddo che mi
portavo dentro. Non me lo sarei mai perdonato, non avrei mai accettato
di contrabbandare le mie pene in cambio di un tetto e di un pasto caldo.
Desideravo esprimerle la mia anima, senza che nulla me lo impedisse.
Volevo dirle che ero malato d’amore, che anch’io avevo quel sogno oscuro
di salvare qualcosa. Avrei voluto parlarle, dirle cosi tante cose che,
alla fine, come sempre, non dissi nulla.
Mentre
accatastavo i ricordi, i fari di un autoarticolato, mi lampeggiarono
brutalmente nello specchietto retrovisore. Era una di quelle sere in cui
le stelle sembravano il doppio nel cielo, mi strinsi ancora un po’al
guardrail e lo lasciai passare. Non avevo fretta, non avevo più fretta.
Tanto, a che serviva correre? Non avevo più un posto dove andare, la
strada era tutto quello che mi rimaneva, e mi venne da piangere. Fu così
che guardai quelle stelle nel cielo e dissi la mia preghiera, l’unica
che conoscevo e che avevo voluto imparare, l’unica che ripetevo da
sempre. L’unica che recitai nel silenzio di me stesso, anche quel
giorno, davanti la bara di mia madre. Me la donò Jack Kerouac, insieme ad un mucchio di altre cose, in una notte frantumata di vino, musica e poesia, molti, molti anni fa. “Giù
nel lago apparvero riflessi dorati di vapore celestiale, ed alzai gli
occhi al cielo e dissi Dio ti amo, mi sono innamorato di te Dio. Per i
bimbi e gli innocenti non ha importanza”
Poi il blues di The Road Is Dark di Michael Jerome Brown mi trascinò fino al mattino.
Bartolo Federico